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Storie nella STORIA - Calvino, Morante, Eco, Luther Blissett, Inediti





lunedì 25 novembre 2002 legge Magda Indiveri
“L’Historia si può veramente deffinire una guerra illustre contro il tempo…”: quante lettere, quante discussioni stanno dietro a questo incipit prestigioso! Perché qua succede che la parola storia – storia, intima, quotidiana, la storia dei romanzieri – si trova a incrociare con la gemella STORIA – la storia del mondo, dei popoli, la storia degli storici. Ben se ne accorse Elsa Morante dando al suo romanzo quel titolo abusato: “La Storia”. Perché in principio stava il mito, e le due connotazioni di “storia” potevano coincidere, poi si sono divaricate, impelagandosi nelle disquisizioni sul vero e sul verosimile. Finchè gli storici degli “Annales” non divulgarono l’idea che la vita quotidiana stava alla storia tanto quanto le guerre ei trattati. Ma gli scrittori non l’avevano già capito da tempo?
Storie piccole e private, anche inedite, saranno lette insieme a brani di romanzi che si sono confrontati con la Storia. Una bella sfida scoprire che le storie minime illuminano quella ufficiale: con soddisfazione di Don Alessandro.


Testi:

Da Il nome della rosa di Umberto Eco
Il Signore mi conceda la grazia di essere testimone trasparente degli accadimenti che ebbero luogo all'abbazia di cui è bene e pio si taccia ormai anche il nome, al finire dell'anno dei Signore 1327 in cui l'imperatore Ludovico scese in Italia per ricostituire la dignità del sacro romano impero, giusta i disegni dell'Altissimo e a confusione dell'infame usurpatore simoniaco ed eresiarca che in Avignone recò vergogna al nome santo dell'apostolo (dico l'anima peccatrice di Giacomo di Cahors, che gli empi onorarono come Giovanni XXII). (Umberto Eco Il nome della rosa Bompiani 1980)

Da Q di Luther Blissett
Lettera inviata a Roma dalla città sassone di Wittenberg, indirizzata a Giampietro Carafa, membro della consulta teologica di Sua Santità Leone X, datata 17 maggio 1518.

All’Illustrissimo e reverendissimo signore e padrone osservandissimo Giovanni Pietro Carafa, presso la consulta teologica di Sua Santità Leone X, in Roma.

Illustrissimo e reverendissimo signore e padrone mio osservandissimo,
il servitore più fidato di Vostra Signoria si accinge a dare conto di quanto accade in questa sperduta landa, che da un anno a questa parte sembra essere divenuta il focolaio d’ogni diatriba.
Da quando otto mesi fa il monaco agostiniano Martin Lutero ha affisso le sue famigerate tesi al portale della Cattedrale, il nome di Wittenberg ha viaggiato in lungo e in largo sulla bocca di tutti. Giovani studenti dagli stati limitrofi affluiscono in questa città per ascoltare dalla viva voce del predicatore quelle incredibili teorie.
In particolare la predicazione contro la compravendita delle indulgenze sembra riscuotere il più grande successo presso le giovani menti aperte alla novità.
Ciò che fino a ieri era Pratica comune e indiscussa il ricevere la remissione dei peccati in cambio di una pia donazione alla Chiesa, oggi sembra esser criticata da tutti come fosse uno scandalo innominabile. Una tale e tanto immediata fama ha reso Lutero tronfio e tracotante; egli si sente quasi investito di un compito ultraterreno, e ciò lo spinge ad azzardare ancora di più, a spingersi oltre. E infatti ieri, come ogni domenica, predicando dal pulpito sull'evangelio del giorno (si trattava del testo di Giovanni 16, 2, «Vi espelleranno dalle sinagoghe»), ha associato allo «scandalo» del mercato delle indulgenze un'altra tesi, a mio avviso ancor più pericolosa. Lutero ha affermato che non si devono paventare eccessivamente le conseguenze di una scomunica ingiusta, poiché essa riguarda soltanto la comunione esteriore con la Chiesa, e non quella interiore. (…) Ha infine concluso con queste parole: «Beato e benedetto colui che muore in una scomunica ingiusta; poiché per il fatto che subisce questa aspra punizione per amore della giustizia, che egli non ha voluto tacere né abbandonare, riceverà per grazia l'eterna corona della salvezza».
Unendo al desiderio di servirla la riconoscenza per la confidenza che Ella mostrò di avere, avrò ora l'ardire di scrivere quello che mi sembra circa le cose che ho esposto qui sopra. All'umile osservatore della Signoria Vostra Reverendissima è apparso chiaro come Lutero annusi nell'aria l'odore della scomunica per se stesso, così come la volpe fiuta l'odore dei segugi. Egli sta già affilando le sue armi dottrinali e cercando alleati per il prossimo futuro(…). La Signoria Vostra capirà meglio del suo servitore l'esiziale gravità della tesi sostenuta da Lutero, egli vorrebbe togliere alla Santa Sede il suo baluardo maggiore, l'arma della scomunica. Allo stesso modo evidente che Lutero non oserà mai mettere per iscritto questa sua tesi, consapevole dell’enormità che rappresenta e del pericolo che ne potrebbe derivare per la sua persona. Ho quindi ritenuto opportuno farlo io, affinché la Signoria Vostra possa prendere in tempo tutte le precauzioni che riterrà necessarie a fermare questo frate del diavolo. Baciando la mano di Vostra Signoria Illustrissima e Reverendissima, di continuo in buona grazia mi raccomando.
Di Wittenberg il giorno 17 maggio 1518
Il fedele osservatore di Vostra Signoria
Wittenberg, Sassonia, aprile 1519

Città di merda, Wittenberg. Miserabile, povera, fangosa. Un clima insalubre e aspro, senza vigneti né frutteti, una birreria fumosa e gelata. Che cosa c’è a Wittenberg, se togli il castello, la chiesa e l’università? Vicoli sudici, strade piene di mota, una popolazione barbara di commercianti di birra e di rigattieri.
Siedo nel cortile dell’università con questi pensieri che affollano la testa, mangiando un bretzel appena sfornato. Lo rigiro tra le mani per raffreddarlo mentre osservo il bivacco studentesco che connota quest’ora della giornata. Focacce e zuppe, i colleghi approfittano del sole tiepido e pranzano all’aperto in attesa della prossima lezione. Accenti diversi, molti di noi vengono dal principati vicini, ma anche dall’Olanda, dalla Danimarca, dalla Svezia: rampolli di mezzo mondo accorrono qui per ascoltare la viva voce del Maestro. Martin Lutero, la sua fama è volata sulle ali del vento, anzi sui torchi degli stampatori che hanno reso famoso questo posto, fino ad un paio di anni fa dimenticato da Dio dagli uomini. Gli eventi.. gli eventi precipitano. Nessuno aveva mai sentito nominare Wittenberg e adesso arrivano sempre più numerosi, sempre più giovani, perché chi vuole partecipare all’impresa deve stare qui, nel pantano più importante di tutta la Cristianità. e forse è vero: qui si sta sfornando il pane che impegnerà i denti del papa.Una nuova generazione di dottori e teologi che libereranno il mondo dagli artigli corrotti di Roma. (Luther Blissett Q Einaudi 2000)



Da Rachiswulff e il suo cane di Massimo Alberghini

VIII Qualche volta nella vita si incontra un proprio simile (PORPORA)

Da Crevalcore, finito il bosco, cominciavano i campi centuriati, tutte le strade erano perpendicolari e tagliavano campi ben coltivati, qua e là qualche recinto con animali e qualche casolare cadente di pietra rossa. Le palizzate di legno, che difendevano il ring del campo militare di San Giovanni, gli venivano ora incontro, avevano quella forma rotonda che, per gli arimanni e per tutti gli altri popoli germanici, rappresentavano il miglior sistema di difesa.
Scansò il castro e proseguì ancora per poco ad oriente, dove sorgevano i casamenti militari e le abitazioni degli antichi dominatori bizantini. Attraversò il canale Rumetta, con le palizzate difensive ormai attaccate dalle erbe e dall'umidità, poi, dopo la torre di pietra lucente che ormai rovinava, raggiunse la chiesa di San Iorio e il piccolo poggio con la fontana miracolosa protetta dalla sua chiesetta in mattoni, che probabilmente aveva sostituito, come spesso si faceva, un piccolo ninfeo o un altarino del dio Grano, dei già morti da molte generazioni, perché anche gli dei, dopo essere stati tanto pregati e aver fatto miracoli e apparizioni, muoiono, o si nascondono….
Finalmente, fu in vista dei palazzi.
A guardia del ponticello della fossa che recingeva l'abitato, due scolte, una franca, un gigante biondo con baffi e un perso-armeno del posto, moro e un po' più scalcagnato. Questi era uno di quei soldati che i bizantini avevano stipendiato a difesa dei loro interessi in questa regione e che ora, senza più ordini o soldi da Costantinopoli, erano rimasti qui sopravvivendo colle doti delle mogli latine e, per avere una ragione di vita, e per darsi un tono, continuavano a difendere quei ruderi. Rachiswulf non degnò di uno sguardo il soldatone franco, ma, col migliore demotico che potesse, salutò l'altro: "Ghiassu chiriemu, ti canite ? ... O chirios Eginard ine edò ?" ... e poi, con tono perentorio: "Milate me ta astinomiatu.. egò, Chirios Rachiulicos echo ena cathaplicticà pragma sto chirio, che ena doro stin essena ...." e facendo seguire i fatti alle parole, nella migliore tradizione greca, trasse dalla tasca una moneta d'argento e gliela lanciò. Il soldato con un guizzo fu sulla moneta e con un altro guizzo cominciò a correre verso il casamento gridando: " Né né, eufaristò chiriemu ...." e sparì.
Il soldato franco, che aveva assistito alla scena, infastidito della scarsa considerazione e per non aver capito quello che si erano detti gli altri due, puntò la lancia al petto di Rachiswulf per sbarrargli il passo e, con la flemma che distingue gli uomini superiori, disse: "Mir auch ..." al chè Rachiswulf si privò di un'altra moneta d'argento, ma, o per imperizia o chissà perché, si sbagliò nel lancio e la moneta finì per terra.
Alcuni pioppi ombreggiavano il vialetto d'entrata e, passato il portone, le cui scolte erano già state avvertite dal greco, entrò nell'ampio piazzale del vecchio palazzo, che fu forte militare e sede di fattori e gastaldi dei duchi di Persiceta.
Vide subito nell'angolo destro del cortile il famoso carro, il cui carico era ricoperto da un telone e due carpentieri e un fabbro, sorvegliati da due soldati franchi, che vi lavoravano attorno. Diresse allora Regina a sinistra, al porticato su cui si apriva l'ingresso della parte abitata, si fermò ad una balaustra di legno tornito, a cui erano legati altri quattro o cinque cavalli. Uno di questi aveva attirato la sua attenzione per la magnifica prestanza, il colore bianco candido e per la ricchezza della sella dalle finiture in cuoio blu, incrostato d'argento.
Rachiswulf, da intenditore, si avvicinò ad ammirarlo; lo stava carezzando sulla groppa e sul petto per sentirne la muscolatura, quando dalla porta uscì un cavaliere biondo, senza baffi, alto e magro, che indossava un notevole pettorale d'acciaio, splendidamente inciso a girali geometriche argentate. Era il proprietario del cavallo e visto che la persona che armeggiava attorno al suo animale era un arimanno distinto, accompagnato anche lui da una splendida cavalcatura, si avvicinò sorridente, come fanno gli uomini che si riconoscono le stesse passioni. "E' bello vero?" disse il franco e aggiunse con apparente noncuranza: "Un dono del nostro signore Carlo .... per un piacere che gli ho fatto .... è un cavallo arabo, viene dal califfato di Cordova .... sì sì sì … hanno bei cavalli laggiù, però, anche la tua .... è un po' anziana, ma è ancora una splendida bestia ...". Rachiswulf, sorridendo al complimento, rispose mentendo spudoratamente: "Un dono d'Irene, l'imperatrice, per un piccolo disturbo che mi sono preso per lei ...". E sempre sorridendo chiese: "Eginardo è qui? Dovrei vederlo ... sarebbe importante … per lui vedermi ".
Il franco lo fissò interdetto, ma Rachiswulf si mantenne serio e severo, mentre la prestanza della sua figura possente e la finezza dell'abito davano maggior forza alle sue parole; capì di aver interessato il suo interlocutore quando gli vide sfuggire un sorriso. Il signore franco ebbe idea di aver trovato un suo simile in quella landa, perciò, dopo averlo avvertito che Eginardo stava pregando e che comunque era molto difficile avvicinarlo, lo invitò ad entrare.
La sala, che una volta era stata il cuore del palazzo dei duchi, ora era spoglia, solo una vecchia ed enorme mensa vi troneggiava al centro. Era il rimasuglio dell'arredo, che forse non era stato razziato o spostato solo perché troppo pesante o forse perché non aveva fatto gola a nessuno. Era di quercia, annerita dall'uso, su di essa solamente due caraffe d'argento, lustro, bacellato, un'alzata di vetro con qualche fico fiorone e qualche noce ed accanto tre o quattro coppe di diaspro verde. Una torciera ed un paglione finivano l'arredamento.
Siccome il franco aveva notato, con imbarazzo, lo sguardo di Rachiswulf al paglione che manteneva ancora l'impronta del suo corpo, disinvoltamente lo ricoprì con uno splendido mantello di velluto blu. Per pudore, o forse per gelosia che un estraneo potesse conoscere la sua intimità.
Fece cenno a Rachiswulf di sedere e, mentre gli porgeva una coppa pulita , gli disse: "Bisogna conoscersi per bere insieme, amico....io sono Hildebrand, conte di palazzo, capo della guardia di nostro signore Carlo e tu....visto il gagliardetto che hai sulla cavalla, come se dovessi comandare uno squadrone in battaglia, sei un longobardo, un soldato....." guardandolo negl'occhi, l'arimanno rispose: "Si, sono, come dite voi, longobardo e mi chiamo Rachiswulf, nipote di Lupo e figlio di Astolff....caduto a Mortara....,ma non sono un esercitale...sono un mercante, non un mercante di bestie o di foraggi, più che altro sono un viaggiatore.....".
Intanto, tolse dalla borsa un pizzico di spezie e ne mise, con gesto sicuro e famigliare, nella coppa di Hildebrand e nella sua e, per cambiare il discorso che non gli piaceva, precisò: "Così è migliore, è la stessa miscela che profuma il vino della Vasilissa....", l'altro ringraziò e bevve, inebriato dal profumo che veniva ora dalla coppa.
"E' magnifico", esclamò il conte "il vino scende leggero e l'animo si placa..."."Prova questo" disse Rachiswulf, togliendo da un altro scompartimento della borsa un abbondante pizzico di una spezia più scura e versandolo nella coppa che l'altro gli stava porgendo. "Wunderbar" ripetè Hildebrand "Das ist wunderbar, meglio anche dell'altra, Rachiswulf, grazie...". L'arimanno, a bassa voce, allora disse: "Dentro c'è anche di quel papavero che seccano in Anatolia, che toglie tutti i dolori e libera l'anima dai suoi pesi...." Il franco lo guardò negli occhi, scrutandolo attento, ma Rachiswulf tenne lo sguardo fisso, assente, come se non avesse detto niente. Il conte, allora volle provocarlo, per vedere se quella imperturbabilità era reale, dicendo: "C'ero anch'io a Mortara e ho falcidiato decine dei tuoi.....forse anche tuo padre stesso, ... adesso vuoi bere ancora con me? ". "Sì" rispose l'altro, aggiungendo però "... Anni fa forse avrei tentato di ucciderti .... ora no ... so che se anche hai ucciso decine dei miei, o ... mio padre stesso, non sei stato che la spada del destino in quel momento, come è destino che io sia qui oggi ... e anche tu, ... tu che sei conte di palazzo, con potere e ricchezze, sai che il tuo destino è più potente e ricco di te, e ora bevi con me, che sono un mercante e viaggiatore, ma il destino è più mercante e viaggiatore anche di me ..... dammene un'altra coppa, per favore".
Hildebrand versò altre due coppe, silenzioso, e Rachiswulf le sue erbe; poi il conte gli disse: "Parli come uno che è abituato a rinunciare parlando così … come un perdente, che è quello poi che sei, visto che appartieni ad un mondo di perdenti, vecchio, finito, io .., io e la mia gente, siamo il futuro ...". "Forse ..." rispose Rachiswulf "la mia gente ha perso e forse sarà persa, ma dentro di me c'è una fiamma che non si è ancora spenta … che nessuno può spegnere o .... che si spegnerà solo quando non ne avrò più bisogno, .... alle Pertiche ...E' una fiamma che è stata alimentata da tutta la bellezza che ho veduto, e che ho avuto, la bellezza nelle cose, nei sentimenti, nella natura, la bellezza che è negli occhi di tutti quelli che si vogliono soffermare a cercarla…che non è tua, non è sua, ma è di tutti, ed è così forte che nessuno può vincerla e nessuno può perderla. Tu, tu sei il futuro, dici, ma è il tuo passato che ritornerà sempre a modificare il tuo futuro, tutte le volte che lo vorrà, ... lui, non tu ....". Hildebrand, che lo fissava bevve ancora, silenzioso, guardò il fondo della coppa e poi ancora quegli occhi chiari, che non avevano paura di vedere, e quieto disse: "Voglio raccontarti una storia ...

Da La storia di Elsa Morante
In verità, la sua fretta non era che la guerra finisse, ma piuttosto che la guerra incominciasse anche per lui. Gli pareva ingiusto di venir privato tuttora di questa occasione eccezionale e formidabile: lasciato fuori, come un paria, nella categoria degli imberbi. E tanto più, che attualmente lui non era più un imberbe: anzi, ostentava di farsi la barba tutti i giorni, usando, per l'operazione, un vero rasoio da barbiere, a lama lunga d'acciaio.- che era poi precisamente quei famoso coltelluccio multiplo, dai vari usi, lasciato dal soldato Gunther a Ida. Già da tempo Ninnuzzu l'aveva scovato nella cassapanca, un giorno, mentre frugava la casa in cerca di oggetti e rottami di ferro o altro metallo da offrire alla patria (secondo l'invito del Regime alla popolazione per la fabbrica delle armi da guerra). E, credendolo magari una proprietà di nessuno capitata là chi sa come e quando, se n'era impadronito senza darne conto a sua madre; ma invece di offrirlo al governo, se l'era tenuto per sé. Accadde una mattina che Ida, mentre lui si radeva gli scorse quel rasoio dardeggiante fra le dita, e in una reminiscenza istantanea le parve di riconoscerlo, tanto che si sentì impallidire; ma tralasciò d'indagare su questa riapparizione inquietante, per dimenticarla subito, come i suoi sogni. Quel coltelluccio accompagnò poi Ninnuzzu ancora per molti mesi, nelle sue successive avventure. finché un giorno gli fu rubato, o andò perso.(Elsa Morante La storia Einaudi 1995)

“Quando A Circa 14 Anni Di Eta', L'incoscienza E La Curiosita' Prevalgono Sulla Paura.”di Giancarlo Macciantelli
E comincio con l’incoscienza: quella mia
Fu nella primavera dei 1945 che, sull’esempio di alcuni miei coetanei di Gaggio - che dalle varie case del paese venivano al Poggio e nel parco del Cav.Antonio Zanini - (tra cui i fratelli Battistini), appresi la "tecnica" dello smontaggio dei lunghi proiettili da cannone. Credo fossero munizioni da m/m.105 “M” composte da alti bossoli in ottone, in seguito utilizzati come portafiori sull'altare della Chiesa, e da un proiettile di cm.40 o più di lunghezza. Uno dei ragazzi prendeva il "pezzo" dalla parte del proiettile, un altro dalla parte terminale del bossolo ed i due irresponsabili battevano il centro dei 'pezzo' su una grossa pietra, onde deformare l'imbocco del bossolo e permettere il distacco del proiettile esplosivo, che veniva depositato anche con malagrazia sull'erba. Dal bossolo erano estratti vari sacchettini di tela bianca contenenti la polvere necessaria per il lancio, si trattava probabilmente di balistite e cioè una miscela di nitroglicerina e di nitrocellulosa. Con il contenuto di un sacchettino sparso sul terreno, veniva formata una più o meno lunga miccia. La nostra stupidità raggiungeva il culmine, quando avvicinavamo con la mano la fiammella di un fiammifero alla polvere: la vampata e la corsa del fuoco era rapida e quando raggiungeva il mucchio dei sacchetti, lascio immaginare cosa succedeva.
Poi passai allo smontaggio delle bombe a mano americane, quelle con 48 schegge. Credo fossero chiamate 'modello ananas'. Ormai ne conoscevo tutti i segreti. Svitavo con disinvoltura la testa della bomba, sfilandola però con delicatezza, anche perché temevo che quel tubino - denominato miccia a lenta combustione interna e che terminava con il detonatore - collegato alla testa della bomba, era l’innesco per l'esplosione. Un giorno, in cui l'intelligenza proprio mi mancava (può capitare), presi una bomba a mano ed entrai nella parte superiore di quel casone denominato "il portico” e posto nell'aia del Poggio dell'allora casa colonica dei sigg.Mattatozzi. Dentro vi erano tre soldati brasiliani con il loro sergente; sul pavimento molta paglia che serviva da giaciglio per i militari. Con atteggiamento altamente professionale (in quelle occasioni, in fatto di stupidità ero secondo a pochi), iniziai ad "insegnare" ai soldati come si smontava una bomba a mano. Alla vista di ciò e dopo un urlo - che mi è rimasto nelle orecchie - i tre soldati si gettarono faccia a terra con le mani premute sulla testa, sfoderando nei miei confronti un classico ed urlato linguaggio da caserma. Io intanto continuavo nella mia dimostrazione con la sicumera propria di chi non capisce niente. Il sergente, invece, con gli occhi spalancati dalla paura, pendeva con il corpo verso di me e avvicinandosi lentamente con la mano destra tesa e balbettandomi l'invito a rimanere calmo e fermo (bom rapaz!!!), riuscì a farsi consegnare la bomba già mezza smontata. Gliela diedi controvoglia e solo perché aveva insistito. Avutala in mano, la lanciò immediatamente fuori dal finestrone del 'portico', appena in tempo per sentire la potente esplosione. Fortuna per me che la mia esibizione era stata interrotta dal sergente. Ritenni opportuno sgusciare alla svelta dalle mani dei militari che in quel momento non sembravano molto ospitali nei miei confronti - visto le promesse che poco prima mi avevano fatto - e fuggire velocemente.
Ed ora è la volta della curiosità : sempre quella mia
Mentre, assieme ad un quasi coetaneo : Enio figlio della sig.ra Lina Mattarozzi, eravamo dinnanzi al portone dei magazzino del Poggio, a quei tempi adibito ad alloggio per i soldati della FEB e dove ora è l'accesso all'appartamento dei sig. Albertazzi, giunse da una zona posta verso il monte una jeep con rimorchio, guidata da un militare brasiliano. Incuriositi, ci avvicinammo all'auto mentre l'autista era sceso per presentarsi al proprio tenente. Infatti, poco dopo uscì l'ufficiale, che conoscevo personalmente in quanto veniva a mangiare in casa mia, con altri due soldati. Il tenente, alto circa più di un metro e ottanta, corporatura possente, leggermente biondo (era figlio di genitori tedeschi emigrati in Brasile) , iniziò a parlare mestamente con gli altri due soldati e con l'autista. Compresi che quei sacchi di tela verde oliva che erano sul rimorchio, contenevano divise ed oggetti personali ed appartenevano a militari che sino a qualche giorno addietro erano tra noi e che in un combattimento erano "saltati sulle mine”. Questo è ciò che capii. Iniziò in silenzio e con visibile commozione di tutti noi, l'apertura dei sacchi. Il tenente scriveva, elencando gli oggetti personali che poi sarebbero stati inviati in Brasile alle famiglie dei caduti. Un soldato era intento ad ammucchiare le divise, man mano che uscivano dal sacco. Enio ed io ci eravamo accosciati per meglio vedere da vicino le foto ricordo, le catenine personali ed i portafogli che venivano depositati a terra. Fu la volta dell'apertura di un sacco che mostrava grossi buchi passanti, l'autista della jeep estrasse un giubbotto che era arrotolato, lo prese per la paste superiore e lo distese facendoci vedere i fori. Una grossa scheggia aveva trapassato anche quel giubbotto rendendolo inservibile. Non si sa il perché nel giubbotto arrotolato e pressato entro il sacco, vi fosse una bomba a mano. La scheggia aveva asportato la prima sicura - quella a spina con l'anella - ed una piccola parte della testa della bomba. La seconda sicura era rimasta ferma, perché compressa dagli abiti. Nel sollevare e srotolare il giubbotto, la bomba cadde a terra e sul terreno in pendenza cominciò a rotolare verso di me passando dinnanzi ai miei piedi. La seconda sicura intanto era saltata via. Credo che entro sette od otto secondi dovesse avvenire l'esplosione. I tre militari brasiliani urlando " a mina" si gettarono faccia a terra. Enio ed io con due salti, modello canguro, ci riparammo dietro il muro posto a fianco della porta di quella che allora era la stalla. Nel frattempo ì secondi passavano velocemente. Enio era raggomitolato a terra con le mani sulle orecchie. La paura, ma forse è più corretto parlare di agitazione e di terrore, non mi impedirono di tentare di vedere cosa stesse per succedere. La curiosità era troppo forte, l'incoscienza, anche. Vidi una scena che non potrò mai dimenticare: il tenente brasiliano, avvicinatosi immediatamente alla bomba, la prese in mano e la lanciò verso i rami alti degli alberi posti nel vecchio cimitero, davanti alla casa dei sigg. Barzini e poi si gettò a terra. La bomba non fece in tempo a raggiungere gli alberi, perché scoppiò quando era ancora in aria. Un lampo, e le schegge fecero sentire il loro sinistro sibilo e rumore andandosi in parte a conficcare nella parete della casa dei sigg. Barzini. i tre soldati brasiliani si alzarono in piedi, si misero di fronte al loro tenente e scattarono sull'attenti. Sembravano ingessati, un po’ perché erano irrigiditi ed un po’ perché in volto erano pallidi e sbiancati dalla paura. Il tenente rispose al saluto e riprese il triste compito di elencare gli effetti personali degli uomini dei suo reparto, che erano venuti a combattere in Italia e che erano morti per la libertà dei nostro paese. Guardandolo, sembrava che non fosse successo nulla. Rimasi esterrefatto nel vedere con quanta distaccata freddezza, dopo un simile atto di enorme coraggio che aveva salvato la vita dì cinque persone, oltre alla sua, il tenente aveva ricominciato con umiltà l'ingrato incarico di informare i familiari della sorte dei suoi eroici uomini. Non sarebbe male che i giovani d'oggi, che hanno avuto la fortuna di nascere in un paese libero ed in pace, ricordassero quanti nel lontano periodo 1944/1945 hanno dovuto convivere con materiali esplodenti sparsi un po’ dovunque e a volte per imprudenza, altre per fatale disgrazia, hanno perso le dita delle mani o un arto o la stessa vita. Da parte mia, dovetti recarmi velocemente a casa per i noti effetti conseguenti ad una grande paura.

Da Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino
Dapprincipio, per la questione della pistola rubata, sembrava che con Lupo Rosso si potesse diventare amici sul serio. Ma poi ha continuato a trattarlo come un bambino, e questo dà ai nervi. Con gli altri ragazzi di quella età, Pin può almeno far valere la sua superiorità parlando di come son fatte le donne, ma con Lupo Rosso quest’argomento non attacca. Pure sarebbe bello andare in banda con Lupo Rosso e fare grandi esplosioni per fare crollare i ponti, e scendere in città sparando raffiche contro le pattuglie. Forse più bello ancora che la brigata nera. Soltanto la brigata nera ha le teste da morto che sono molto più d’effetto delle stelle tricolori.
E’ una cosa che non sembra vera essere lì a parlare con uno che domani forse sarà fucilato, su quel terrazzo pieno d’uomini che mangiano abbonati in terra, tra comignoli che girano al vento e le guardie carcerarie sulle torrette con i mitra puntati. Sembra uno scenario incantato: tutt’intorno il parco con le ombre nere degli alberi d’aurucaria. Pin ha quasi dimenticato le botte che ha preso, e non è ben sicuro che non sia un sogno.
Ma ora le guardie carcerarie li mettono in fila per farli tornare in cella.
-Dove sei di cella? – chiede Lupo Rosso a Pin.
-Non so ancora dove mi metteranno, - dice Pin, - non ci sono ancora stato.
- M’interessa sapere dove sei, - dice Lupo Rosso.
- Perché? – fa Pin.
- Poi lo saprai.
A Pin fanno rabbia quelli che dicono sempre: poi lo saprai. (Italo Calvino Il sentiero dei nidi di ragno Einaudi 2002)