logo dell'associazione

logo dell'associazione

Sull’origine dell’ineguaglianza (1755) - Jean Jacques Rousseau


lunedì 27 marzo 2006 legge Marco Madonia
L’ineguaglianza è nata dal progresso. Alla questione di diritto politico dell’annuale concorso dell’Accademia di Digione ( “Quelle est l’origine de l’inégalité parmi les hommes, et si elle est autorisée par la loi naturelle”) Rousseau risponde che l’ineguaglianza non è assolutamente riconducibile né alla legge di natura né tanto meno allo stato originario dell’uomo, ma che essa è causata dallo sviluppo delle nostre facoltà e dai progressi dello spirito umano.
Tutta la dialettica rousseauiana si basa sulla dicotomia tra essere ed apparire, la quale è origine e risultato del male nel mondo ed è l’uomo che deve trovare dentro se stesso la soluzione delle sue sventure e delle sue tragedie.
In realtà la ragione che muove il Discours è il tentativo di provare a ricercare le cause dell’infelicità dell’uomo e ipotizzare una storia del genere umano come una progressiva sopraffazione dell’uomo sull’uomo.
Rousseau diede una risposta radicale alla consapevolezza filosofica della crisi politica del vecchio continente, mostrando le zone d’ombra della civiltà europea.


J. J. Rousseau, Sull'origine dell'ineguaglianza,
a curadi Valentino Gerratana,Roma, Editori Riuniti 20023



Il primo che, recintato un terreno, ebbe l’idea di dire: Questo è mio, e trovò persone così ingenue da credergli, fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, guerre, assassini, quante miserie ed orrori avrebbe risparmiato al genere umano colui che, strappando i paletti o colmando il fossato, avesse gridato ai suoi simili: Guardatevi dall’ascoltare quest’impostore; siete perduti, se dimenticate che i frutti sono di tutti e la terra di nessuno […]
Ecco dunque tutte le nostre qualità sviluppate: la memoria e l’immaginazione all’opera, l’amor proprio interessato, la ragione resa attiva e lo spirito giunto quasi al massimo della perfezione di cui è suscettibile. Ecco in atto tutte le qualità naturali, il rango e la sorte di ogni uomo stabiliti non solo in base alla quantità di beni e alle possibilità di servire o di nuocere, ma in base allo spirito, alla bellezza, alla forza, o all’abilità, al merito o alle capacità; ed essendo queste qualità le sole che potevano procurare stima, ben presto fu necessario averle o simularle. Bisognò, per il proprio vantaggio, dimostrarsi diversi da come effettivamente si era.
Essere e parere divennero due cose completamente differenti; e da questa distinzione scaturisce il fasto imponente, l’astuzia ingannevole e tutti i vizi che ne sono il codazzo. D’altra parte, l’uomo, da libero e indipendente quale prima era, eccolo, da una quantità di nuovi bisogni asservito per così dire a tutta la natura, e soprattutto ai suoi simili di cui in un certo senso diviene schiavo, anche quando ne diviene padrone: ricco, ha bisogno dei loro servigi; povero, ha bisogno del loro aiuto, e neppure la mediocrità lo mette in condizione di poter fare a meno di loro. Bisogna dunque che egli cerchi continuamente di interessarli alla sua sorte e che essi trovino il proprio vantaggio, effettivo o apparente, nel lavorare per il suo: ciò lo rende imbroglione ed ipocrita con gli uni, imperioso e duro con gli altri, e lo mette nella necessità d’ingannare tutti quelli di cui ha bisogno, qualora non riesca a farsi temere da loro e non trovi il proprio tornaconto nel servirli utilmente. Infine l’ambizione divorante, la smania di alzare la propria posizione, più per mettersi al di sopra degli altri che per un vero bisogno, ispira a tutti gli uomini una oscura tendenza a nuocersi reciprocamente, una gelosia segreta tanto più pericolosa in quanto, per colpire con più sicurezza, si nasconde dietro la maschera della benevolenza; in una parola, da una certa concorrenza e rivalità, dall’altra opposizione d’interessi, e sempre per il desiderio nascosto di guadagnare a spese degli altri; tutti questi mali sono il risultato della proprietà e il codazzo inseparabile della ineguaglianza nascente.
Prima che venissero inventati i segni rappresentativi delle ricchezze, queste potevano consistere solo in terra e bestiame, i soli beni reali che gli uomini potessero possedere. E quando i patrimoni si furono accresciuti in numero e in estensione fino a coprire l’intero suolo e ad essere tutti confinanti, gli uni poterono ingrandirsi solo a spese degli altri, e gli esclusi, ai quali la debolezza o l’indolenza avevano impedito di entrarne in possesso a loro volta, divenuti poveri senza aver perduto niente, perchè nel cambiamento generale essi soli non erano cambiati, furono costretti o a ricevere o a rapire il loro sostentamento dalle mani dei ricchi; e da qui cominciarono a nascere, secondo i diversi caratteri degli uni e degli altri, la dominazione e la schiavitù, o la violenza e le rapine. I ricchi, dal canto loro, appena conosciuto il piacere di dominare, spregiarono subito tutti gli altri e, servendosi dei loro vecchi schiavi per sottometterne dei nuovi, pensarono solo a soggiogare e ad asservire i loro vicini; come lupi affamati che, gustata una volta la carne umana, sdegnano ogni altro cibo e vogliono solo divorare uomini
Così accadde che, avendo i più potenti o i più miseri fatto della propria forza o dei propri bisogni una specie di diritto al bene altrui, equivalente per loro al diritto di proprietà, l’eguaglianza spezzata fu seguita dal più spaventoso disordine;così accadde che le usurpazioni dei ricchi, il brigantaggio di poveri, le passioni sfrenate di tutti, soffocando la pietà naturale e la voce ancora debole della giustizia, resero gli uomini avidi, ambiziosi e malvagi. Sorgeva tra il diritto del più forte e il diritto del primo occupante un conflitto perpetuo che si concludeva soltanto con combattimenti ed assassini. La società nascente diede luogo al più orribile stato di guerra: il genere umano, avvilito e desolato, non potendo più tornare sui suoi passi né rinunciare alle sciagurate conquiste che aveva fatto, e lavorando unicamente alla propria ignominia attraverso l’abuso delle facoltà che lo onorano, si mise egli stesso sull’orlo della propria rovina.

Attonitus novitate mali, divesque miserque,
effegure optat opes, et quae modo voverat odit.


Non è possibile che gli uomini non abbiano riflettuto su una situazione così miserabile e sulle sciagure da cui erano oppressi. Soprattutto i ricchi dovettero presto sentire quanto fosse per essi sfavorevole una guerra perpetua di cui essi soli facevano tutte le spese e in cui il rischio della vita era comune e quello dei beni individuale. D’altronde, qualsiasi nome potessero dare alle loro usurpazioni, capivano abbastanza bene che erano basate solo su un diritto precario e abusivo e che, essendo state acquistate solo con la forza, la forza poteva strappargliele, senza che essi avessero motivo per lamentarsene. Nemmeno quelli che si erano arricchiti solo con la loro operosità potevano fondare la loro proprietà su titoli migliori. Avevano un bel dire: sono io che ho costruito questo muro, questo terreno l’ho guadagnato col mio lavoro. Si poteva loro rispondere: chi vi ha assegnato i confini e in virtù di che cosa pretendete di essere pagati a nostre spese per un lavoro che non vi abbiamo ordinato? Non sapete forse che una moltitudine di vostri fratelli muore o soffre per la mancanza di ciò che voi avete di troppo, e che vi serviva un consenso esplicito e unanime del genere umano per appropriarvi, a spese del sostentamento comune, di tutto ciò che era in sovrappiù del vostro? Privo di valide ragioni per giustificarsi e di forze sufficienti per difendersi, capace di schiacciare con facilità un singolo, ma schiacciato egli stesso da un gruppo di banditi, solo contro tutti, non potendo a causa delle gelosie reciproche unirsi con i suoi eguali contro nemici uniti dalla comune speranza del saccheggio, il ricco, spinto dalla necessità, concepì il progetto più ponderato che sia mai stato ideato da intelletto umano: utilizzare a suo vantaggio proprio le forze di coloro che lo attaccavano, e dei suoi avversari fare i suoi difensori, ispirare loro altri principi e dar loro altre istituzioni che gli fossero tanto favorevoli quanto il diritto naturale gli era contrario.
In questa prospettiva, dopo aver esposto ai suoi vicini l’orrore di una situazione che li armava gli uni contro gli altri, che rendeva loro i possessi gravosi quanto i bisogni, e nella quale nessuno trovava sicurezza né nella povertà né nella ricchezza, egli inventò facilmente ragioni speciose per attirarli al suo intento “Uniamoci- disse loro – per garantire i deboli dall’oppressione, moderare gli ambiziosi ed assicurare a ciascuno il possesso di ciò che gli appartiene; istituiamo regolamenti di giustizia e di pace ai quali tutti siano obbligati ad uniformarsi, che non facciano eccezione per nessuno, e che riparino in qualche modo i capricci della fortuna, sottomettendo sia il forte che il debole a doveri reciproci. In una parola, invece di volger le nostre forze contro noi stessi, uniamole in un potere supremo che ci governi con sagge leggi, che protegga e difenda tutti membri dell’associazione, respinga i nemici comuni e ci mantenga in una comune concordia”.
Ci voleva meno di un discorso del genere per trascinare degli uomini grossolani, facili da convincere, e che inoltre avevano troppi affari da sbrigare tra loro per poter fare a meno di arbitri e troppa avidità per poter restare a lungo senza padroni. Tutti corsero verso le loro catene, credendo di assicurarsi la libertà; infatti, sufficientemente forniti di ragione per capire i vantaggi di una stabilizzazione politica, non avevano abbastanza esperienza per prevederne i pericoli; i più capaci di presentirne gli abusi erano proprio quelli che contavano di approfittarne, ed anche i saggi videro che bisognava decidersi a sacrificare una parte della propria libertà per difendere l’altra, come un ferito si fa amputare un braccio per salvare il resto del corpo. […]

Se seguiamo lo sviluppo dell’ineguaglianza in questi differenti rivolgimenti, troveremo che lo stabilirsi della legge e del diritto di proprietà ne fu la prima tappa, l’istituzione delle magistrature la seconda, e la terza ed ultima il cambiamento del potere legittimo in potere arbitrario; in modo che nel primo periodo fu autorizzata la condizione di ricco e povero, nel secondo quello di potente e debole e nel terzo quella di padrone e schiavo, che è l’ultimo grado dell’ineguaglianza, il termine al quale infine conducono tutti gli altri, finché nuovi rivolgimenti dissolvono completamente il governo o lo riavvicinano all’istituzione legittima(…..)
Se fosse questo il luogo per scendere a dettagli, mi sarebbe facile spiegare come l’ineguaglianza di credito e di autorità diventi inevitabile fra gli individui, appena, riuniti in una stessa società, sono costretti a paragonarsi tra loro e a tener conto delle differenze che trovano nei continui rapporti che debbono avere gli uni con gli altri. Queste differenze sono di parecchie specie; ma essendo in generale la ricchezza, la nobiltà o il rango, la potenza e il merito personale le principali distinzioni con le quali ci si misura nella società, proverei che l’accordo o il conflitto di queste diverse forze è l’indice più sicuro della buona o cattiva costituzione di uno Stato; farei vedere che tra questi quattro tipi di ineguaglianza, mentre le qualità personali sono all’origine di tutte le altre, la ricchezza è l’ultima a cui esse si riducono alla fine, perché è quella più immediatamente utile al benessere e più facile a trasmettersi, e perciò di essa ci si serve agevolmente per comprare tutto il resto: osservazione che può far giudicare con sufficiente esattezza in qual misura ogni popolo si sia allontanato dalla sua istituzione primitiva e quanto cammino abbia fatto verso il termine estremo della corruzione. Potrei notare quanto questo desiderio universale di stima , di onori e di distinzioni, che ci divora tutti, stimoli e metta a confronto le capacità e le forze, quanto ecciti e moltiplichi le passioni, e, col rendere tutti gli uomini concorrenti, rivali, o piuttosto nemici, quanti rovesci, successi e catastrofi di ogni specie provochi tutti i giorni, mettendo in lizza tanti pretendenti. Mostrerei come è proprio a questa smania di far parlare di sé, a questa furia di distinguerci che ci fa stare quasi sempre fuori di noi stessi, che noi dobbiamo ciò che c’è di meglio e di peggio tra gli uomini, le nostre virtù e i nostri vizi, le nostre scienze e i nostri errori, i nostri conquistatori e i nostri filosofi, cioè una gran quantità di cose negative contro un piccolo numero di positive. Proverei infine che se si vede un pugno di potenti e di ricchi all’apice della grandezza e della fortuna, mentre la massa striscia nell’oscurità e nella miseria, ciò avviene perché i primi stimano le cose di cui godono solo in quanto gli altri ne sono privi, e, senza cambiare condizione, cesserebbero di essere felici se il popolo non fosse più misero […]

Si vedrebbe la politica limitare a una parte mercenaria del popolo l’onore di difendere una la causa comune. Si vedrebbe nascere da ciò la necessità delle imposte, e il contadino che scoraggiato abbandona il suo campo anche in tempo di pace e lascia l’aratro per cingere la spada. Si vedrebbero nascere le regole funeste del punto d’onore. Si vedrebbero i difensori della patria divenirne prima o poi i nemici e tenere sempre il pugnale levato contro i propri concittadini; e verrebbe un tempo in cui li si sentirebbe dire all’oppressore del loro paese:

pectore si fratris glaudium juguloque parentis
condere me jubeas, gravidaeque in viscera partu
Coniugis, invita peragam tamen omnia dextra

Dall’estrema ineguaglianza delle condizioni e delle fortune, dalla differenza delle passioni e delle capacità, dalle arti inutili, dalle arti dannose dalle scienze frivole deriveranno folle di pregiudizi contrari in egual misura alla ragione, alla felicità e alla virtù; si vedranno i capi fomentare tutto ciò che può indebolire gli uomini riuniti, provocandone la divisione, tutto ciò che può dare alla società un’aria di apparente concordia e seminarvi i germi di reale divisione, tutto ciò che può ispirare ai diversi ceti diffidenza ed odio reciproci opponendo i lori diritti e i loro interessi, e rafforzare come conseguenza il potere che li tiene tutti a freno.
E’ dal seno di questi disordini e di queste rivoluzioni che il dispotismo, alzando a poco a poco il suo orrido capo e divorando tutto ciò che potrà scorgere di buono e di sano in ogni parte dello Stato, riuscirà infine a calpestare le leggi e il popolo ed a stabilirsi sulle rovine della repubblica. Il tempo che precederà quest’ultimo cambiamento sarà un tempo di torbidi e di sventure; ma alla fine tutto sarà ingoiato dal mostro e i popoli non avranno più capi né leggi ma solamente tiranni.
E da questo momento non si potrà più parlare di costumi e di virtù: infatti ovunque regna il dispotismo, cui ex onesto nulla est spes, non tollera nessun altro padrone; appena esso parla non c’è né da ascoltare né probità né dovere, e la più cieca obbedienza è la sola virtù che rimane agli schiavi.
E’ qui l’ultimo termine dell’ineguaglianza, è il punto estremo che chiude il cerchio e torna al punto da cui siamo partiti: ora tutti gli individui ridivengono eguali, perché non sono niente, e non avendo i sudditi altra legge che la volontà del padrone, e il padrone altra regola che le sue passioni, la nozione di bene e i principi svaniscono di nuovo.
Ora tutto si riconduce alla sola legge del più forte e di conseguenza ad un nuovo stato di natura differente da quello da cui siamo partiti, in quanto il primo era lo stato di natura nella sua purezza e quest’ultimo è il frutto di un eccesso di corruzione.
Del resto vi è ben poca differenza tra questi due stati perché il contratto di governo è talmente dissolto dal dispotismo che il despota è il padrone solo finché è il più forte e appena lo si può cacciare non può reclamare contro la violenza. La sommossa che finisce con lo strangolare e il detronizzare un sultano è un atto altrettanto giuridico quanto quelli con cui egli alla vigilia poteva disporre della vita e dei beni dei suoi sudditi.
Solo la forza lo sorreggeva, solo la forza lo abbatte; tutto avviene in tal modo secondo l’ordine naturale, e, qualunque sia l’esito di queste brevi e frequenti rivoluzioni, nessuno può lamentarsi dell’ingiustizia altrui, ma solo della propria imprudenza o della propria sventura.
Scoprendo e seguendo così le vie dimenticate e perdute che hanno dovuto condurre l’uomo dallo stato naturale a quello civile; ricostruendo, accanto alle posizioni intermedie che ho indicato, anche quelle che la mancanza di tempo mi ha fatto sopprimere o che l’immaginazione mi ha suggerito, ogni lettore attento non potrà che essere colpito dall’enorme distanza che divide questi due stati. E’ in questa lenta successione delle cose che vedrà la soluzione di un infinità di problemi di morale e di politica che i filosofi non possono risolvere. Capirà che, non essendo il genere umano di un’età quello di un’altra età, la ragione per cui Diogene non trovava un uomo è che cercava tra i suoi contemporanei l’uomo di un tempo che non esisteva più. Catone, egli dirà, morì con Roma e la libertà perché era fuori posto nel suo secolo; e il più grande di tutti gli uomini fece solo stupire il mondo che cinquecento anni prima avrebbe governato. In una parola, capirà come l’anima e le passioni umane, alternandosi insensibilmente, cambino per così dire di natura; perché a lungo andare cambi l’oggetto dei nostri bisogni e dei nostri piaceri; perché, con la graduale scomparsa dell’uomo originario, agli occhi del saggio la società non offra più che un insieme di uomini artificiali e di passioni fittizie che sono il risultato di tutti questi nuovi rapporti e che non hanno alcun vero fondamento nella natura.
Ciò che la riflessione insegna a questo proposito, l’osservazione lo conferma perfettamente: l’uomo selvaggio e l’uomo civilizzato differiscono a tal punto nel profondo del cuore e delle inclinazioni che ciò che fa la felicità suprema dell’uno ridurrebbe l’altro alla disperazione.
Il primo aspira solo alla tranquillità e alla libertà; desidera solo vivere e rimanere ozioso e la stessa atarassia dello stoico non è paragonabile alla sua profonda indifferenza per ogni altro oggetto. Al contrario il cittadino, sempre attivo, suda, si agita, si tormenta continuamente per trovare occupazioni ancora più faticose; lavora fino alla morte, corre anzi verso di essa per mettersi in condizione di vivere o rinuncia alla vita per raggiungere l’immortalità. Fa la corte ai potenti che odia e ai ricchi che disprezza; non risparmia niente per ottener l’onore di servirli; si vanta orgogliosamente della sua pochezza e della loro protezione e, fiero della sua schiavitù, parla con disprezzo di coloro che non hanno l’onore di condividerla. Che spettacolo per un uomo dei Caraibi il lavoro penoso e invidiato di un ministro europeo! Quante morti crudeli non preferirebbe questo indolente selvaggio all’orrore di una simile vita, che spesso non è nemmeno addolcita dal piacere di fare del bene.
Ma per vedere lo scopo di tante preoccupazioni bisognerebbe che queste due parole, potenza e reputazione, avessero un senso per il suo spirito; che egli apprendesse che esiste una specie di uomini che danno importanza agli sguardi del resto del mondo, che sanno essere felici e soddisfatti di sé in base alla testimonianza altrui piuttosto che alla propria. E’ questa, in effetti, la vera causa di tutte queste differenze:il selvaggio vive in se stesso; l’uomo socievole, sempre fuori di se stesso, non sa vivere che nell’opinione degli altri ed è per così dire unicamente dal loro giudizio che deriva il sentimento della propria esistenza. Non riguarda il mio argomento mostrare come da una tale disposizione nasca una tale indifferenza per il bene e per il male, con tanti bei discorsi di morale; come tutto, ridotto all’apparenza, divenga fittizio e simulato: onore, amicizia, virtù e spesso perfino i vizi, dei quali alla fine si trova il sistema per gloriarsi; come, in una parola, chiedendo agli altri ciò che siamo e non osando mai interrogare noi stessi a questo proposito, pur con tanta filosofia, umanità, civiltà e massime sublimi, abbiamo solo un’apparenza ingannevole e frivola, onore senza virtù, ragione senza saggezza e piacere senza felicità. A me basta aver provato che non è questo lo stato originario dell’uomo, e che è solo lo spirito della società, con l’ineguaglianza che essa genera, che cambia e altera in tal modo tutte le nostre inclinazioni naturali […]

Risulta da questa esposizione che l’ineguaglianza, quasi inesistente nello stato di natura, ricava la sua forza e il suo incremento dallo sviluppo delle nostre facoltà e dai progressi dello spirito umano e diviene infine stabile e legittima con l’istituzione della proprietà e delle leggi. Risulta inoltre che l’ineguaglianza morale, autorizzata dal solo diritto positivo, è contraria al diritto naturale ogni volta che non corrisponde nella stessa proporzione all’ineguaglianza fisica; distinzione che chiarisce sufficientemente ciò che a questo proposito si deve pensare del genere di ineguaglianza che regna presso tutti i popoli civilizzati; perché è chiaramente contro la legge di natura, in qualsiasi modo la si definisca, che un fanciullo comandi ad un vecchio, un imbecille guidi un saggio e che un pugno di uomini nuoti nel superfluo, mentre la moltitudine manca del necessario.