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Sulla figura di Basilio Puoti - Luigi Settembrini - Francesco De Sanctis



lunedì 31 ottobre 2005 legge Cristina Renzetti
Per noi Italiani l’idea di libertà, quella vera, maturata nell’impegno civile, viene da lontano, da una grande tradizione che spesso ignoriamo. 
La scuola di Basilio Puoti (1782-1847), esponente del classicismo ottocentesco, anzi, del purismo, non fu di sola lingua ma di “libertà, scienza, progresso, emancipazione, lotta contro il seminario, aspirazioni ancora indistinte a nuove idee, a nuove civiltà”. 
Non a caso tra gli allievi del Marchese troviamo due figure esemplari del nostro Risorgimento, dai profili biografici pressoché speculari seppur con esiti politici e letterarii completamente diversi: Francesco De Sanctis (1817-1883) e Luigi Settembrini (1813-1876). 
I due intellettuali e patrioti napoletani inseriscono nelle loro memorie il ritratto del Puoti e del suo metodo, all’interno di un vivace affresco della vita culturale della Napoli borbonica. Queste pagine, poco conosciute al grande pubblico, insistono e ci invitano a riflettere sull’importanza della figura del “maestro” che Luigi Settembrini riteneva essere il vero artefice delle rivoluzioni. Le rivoluzioni “prima si compiono negli spiriti, poi nelle piazze”.


FRANCESCO DE SANCTIS, L’ultimo dei puristi, in La giovinezza, a cura di Gennaro Savarese, Torino, Einaudi, 1961, pp. 221-246
Il saggio apparve per la prima volta nella “Nuova Antologia” (fasc. novembre 1868); fu quindi raccolto nella seconda edizione dei Saggi Critici (Napoli, Morano, 1869)

La lettura di due grossi volumi intitolati Lezioni di storia di Ferdinando Ranalli, ha risvegliato in me, e per la forma dello scrivere e per le dottrine, l’immagine de’ miei primi anni e delle mie prime impressioni letterarie. Quelli erano già per me tempi da’ quali mi sentivo distante come ci fossero corsi di mezzo due secoli; ed ecco questo libro qui, stampato ora, che mi riconduce innanzi quei tempi vivi e presenti e mi dice: “Ricordati! Come allora così ora e così sempre si ha a scrivere e pensare”.
(…) E indietro indietro ecco mi trovo in sullo scorcio del terzo decennio di questo secolo, quando gli uomini del ’21 erano già la generazione che passa, e sorgevamo noi altri giovanotti dai quindici ai vent’anni, la nuova generazione; i predestinati del ’48 e del ’60. Migliaia di giovani dalle provincie piombavano a Napoli, ed eran chiamati dal popolo gli “studenti” ed anche i “calabresi”. Venivano dai seminarii, portandosi appresso come trofei i libri imparati, il padre Soave, l’abate Troyse, il Portoreale, l’Eineccio, la geometria di Euclide, la Storia greca e romana di Goldsmith, Tasso e Metastasio; venivano in Napoli per compiere gli studi, come dicevano, e imparare la professione. Napoli era la città del sole, il Faro che doveva guidarli alla gloria, il progresso. Ed il progresso era allora incarnato in un uomo, il marchese Puoti. Di scuole pubbliche ci era appena il nome, l’Università era deserta; insegnava lettere italiane un tal canonico Bianchi, il quale pagava egli due o tre suoi studenti; di lettere latine era maestro Lucignano, e di diritto di natura un abate Cutillo; Manfrè rappresentava la medicina, e Pugnetti la giurisprudenza; Galluppi e Nicolini non erano ancora venuti su. I tempi sospettosi: impossibile ogni libertà di pensiero; inceppato ogni movimento letterario e scientifico; il progresso erasi andato a rifuggire sotto quest’umile insegna: “Scuola di lingua italiana del marchese Puoti”.
Ma non importa che il progresso pigli questa o quella forma, anche la più umile e la più innocua: ci è sempre sotto esso e tutto esso. La nuova generazione per poter sviluppare le sue forze ha bisogno di trovare innanzi a sé un passato da combattere, un avvenire da conquistare. Allora il passato si chiamava il seminario, l’istruzione provinciale; il progresso si chiamava il purismo, la scuola di Basilio Puoti. Questo santo nome, che i napoletani ricorderanno sempre con riverenza, era la bandiera intorno a cui si raccoglieva la gioventù, e questo nome significava libertà, scienza, progresso, emancipazione, lotta contro il seminario, aspirazioni ancora indistinte a nuove idee, a nuove civiltà. Il purismo fu il primo atto di questo gran dramma compiuto al ’60: il primo segno di vita che dava di sé la nuova generazione volgendo le spalle al seminario.
È superfluo notare che di tutte queste grandi conseguenze e di questi grandi profondi significati non ne sapeva nulla né il marchese Puoti, né la gioventù, né la polizia. Vi era lì tutta una rivoluzione ignorata e dagli attori e dagli spettatori e dalle vittime. E rivoluzioni siffatte sono le meno reprimibili e le più efficaci.
Il marchese Puoti, di famiglia patrizia e agiata, aveva ceduto la rappresentanza e l’indirizzo della casa a Giammaria, secondogenito, dotto e onesto magistrato, il vero marchese e il vero capo della famiglia. Il nostro Basilio, rimasto marchese onorario, davasi con molto ardore agli studi. Conosceva il latino, e meglio il greco, ed aveva finito per fare materia prediletta de’ suoi studi le lettere italiane, pigliando posto accanto al Cesari, al Montone, al Giordani, al Perticari, al Fornaciari, al Paravia, e a tutti i benemeriti cittadini che si affaticavano a restituire la lingua nella sua purità e a ristorare gli studi delle cose nostre. Al che il Puoti prese la via più diritta e più sicura, aprendo scuola gratuita e raccogliendo intorno a sé i più eletti ingegni del Napoletano.
(…) Il Puoti tenea scuola in una vasta sala del suo palazzo, dove convenivano meglio che duecento giovani, la più parte studenti che venivano freschi freschi dai seminari. Allora non ci erano regolamenti d’istruzione pubblica e non programmi, esami per cerimonia: d’italiano punto; né la laurea era necessaria a professare. La divisa del governo in fatto d’istruzione era questa: “non incaricarsene”. 
(…) Professore del Collegio Militare, un giorno mi sfogavo col cappellano, e gli mostravo cosa ci era da fare per raddrizzare gli studi. Colui sentì: poi tutt’a un tratto mi prese per mano e mi disse: “Senti un consiglio d’amico, non te ne incaricare: il Re dice: -Più asini sono loro e più dotto sono io-”. Due anni dopo lo spiritoso cappellano fu nominato vescovo.
Con questo sistema si riuscì ad imbarbarire le classi inferiori; ma, quanto alla borghesia, l’effetto sortì contrario alle speranze. Riunendosi da quindici a ventimila studenti in Napoli, capitale alla francese, dov’erano condensate tutte le forze intellettuali del paese, meno il governo “se ne incaricava”, e più queste forze operavano e producevano. Essendo la laurea non necessaria e non difficile ad ottenere, e gli esami punto severi, in tanto concorso e gara di gioventù si sviluppò il desiderio “disinteressato” della coltura , l’amore della scienza per la scienza. Le scuole private, quando son considerate come succursali o appendici delle pubbliche, o come oggi si dice, pareggiate, ed hanno per fine le ripetizioni o la preparazione agli esami, si guastano e si corrompono. A quel tempo le scuole private erano padrone del campo, rifuggitosi là tutto ciò che c’era di vivo e di nuovo nella coltura nazionale; i giovani accorrevano dove il livello degli studi era più alto e i principii più larghi, e chiamavano pedanti o empirici quelli che esponevano la scienza caso per caso, con troppi minuti particolari (…). Questo amore disinteressato della cultura è il maggior titolo di gloria per una generazione, e il segno più chiaro di ristorazione filosofica e letteraria: in Napoli la cultura divenne perfino arma politica, strumento di opposizione; vietato parlar di libertà, si parlava di civiltà e di progresso. La gioventù usciva dalle scuole con la coscienza della sua superiorità sopra quelli che erano ne’ pubblici uffizi, i più ignorantissimi, e si sentiva separata da un governo “incivile” e “oscurantista”, frasi del tempo. Il Puoti parlava con poca stima del nobile e del prete, come di gente ignorante e oziosa; il peccato non era il nascer patrizio o il divenir prete; era l’ignoranza: mai forse non era salito sì alto il rispetto verso l’ingegno e la stima del sapere. 
(…) Questa fu la prima battaglia della nuova generazione contro il passato, in nome del progresso, della civiltà, della coltura, e la battaglia fu vinta senza cospirazioni e senza violenze, per la sola forza della pubblica opinione.
Di questa prima campagna il protagonista fu Basilio Puoti, tanto più potente quanto meno consapevole. La sua passione per le lettere e per l’insegnamento era tale che riempiva tutta la vita e non gli lasciava luogo ad altro. Il marchese del Carretto soleva ridere di questo pedante del marchese Puoti. Un altro marchese, ministro dell’interno, Santangelo, si degnava esprimergli la sua benevolenza, e il principe di Satriano, Filangieri, compiacevasi di proteggerlo. La sua famiglia era nota per antica devozione al trono. (…) D’altra parte lo si sapeva tutto immerso negli studi della lingua, ed estraneo affatto alle cose politiche. La sua scuola era dunque considerata passatempo innocentissimo, e lo si lasciava fare e dire, senza ombra di sospetto. Né troppo ci era da mettersi in guardia verso di un uomo, a dipingere il quale basterà dire questo solo, che le due più grandi ambizioni della sua vita erano divenire accademico della Crusca e maestro del Principe ereditario. Nel primo intento riuscì, e n’ebbe tale compiacenza, che in fronte a’ suoi libri fece aggiungere al proverbiale e simpatico “Basilio Puoti” l’epiteto di “accademico della crusca”: e fu in quel tempo che coprì i suoi capelli bianchi sotto una elegante parrucca, non senza un certo rincrescimento di noi altri, che amavamo tanto quel nostro Basilio e quella veneranda testa bianca. Nell’altro intento fallì e n’ebbe tale pena al cuore, che fu non ultima cagione di quella malattia che indi a poco lo condusse alla tomba.
(…) Il Puoti non era dunque uomo politico, non cospiratore, era un puro e semplice uomo di lettere, un “pennarulo”, come lo chiamava Ferdinando; ma quello che seppe fare questo “pennarulo” si vedrà dagli effetti che il suo insegnamento produceva sulla gioventù.
Addurrò il mio esempio; e da me si può argomentare degli altri.
Avevo sedici o diciassette anni. Cresciuto in Napoli sotto la guida di Carlo De Sanctis, a cui ero nipote, riputatissimo maestro di lettere latine a quel tempo, compiuti gli studi filosofici sotto il Fazzini, mi trovavo al primo anno degli studi legali. Avevo letto moltissimi libri e di ogni materia: scrivevo versi e prose, improvvisavo anche, e tutti mi lodavano, e il maestro mi chiamava “penna d’oro”, ed io superbia che mai la maggiore: mi tenevo il più istrutto uomo di Napoli. (…) Mi avvenne che un giorno Francesco Costabile mi propose di menarmi alla scuola del marchese Puoti. “A che fare” diss’io. E lui: “Ad impararvi l’italiano”. Mi pareva un’offesa. Ma molti miei amici ci andavano, e tutti me ne cantavano le meraviglie, e ci andai pur io. 
(…) Già quel palazzo magnatizio, quelle superbe scale, quel servitore in guanti, quella sala magnifica tappezzata di libri innalzava l’animo, lo tirava in una regione più elevata. Non so che signorile spirava colà che cacciava in fuga tutte le rozze memorie del seminario. Quel dì che ci andai io, eravamo parecchi a far l’esame di ammissione. Il Puoti volle sapere i nostri studi, e il dove, e il come, tutto minutamente; ci fe’ tradurre un brano di Cornelio Nipote. Dal suo modo di scrivere parrebbe uomo grave e compassato; ma era tutt’altro. Amenissimo, vivacissimo, pieno di motti e di lazzi alla napoletana, non insegnava, non si metteva in cattedra, conversava, raccontava spesso, si divertiva e divertiva: non ci era aria lì né di scuola, né di maestro: parea piuttosto un convegno di amici, un’accademia sciolta da regole e da formalità. A’ provinciali avveniva spesso di chiamarlo maestro, e se ne turbava: voleva esser detto marchese. Per primo atto correvano a baciargli la mano, ma la ritirava vivamente e diceva: “Non si bacia la mano che al Papa”. Non volea si dicesse la scuola, ma lo studio di Basilio Puoti; né le sue voleva si chiamassero lezioni, ma esercitazioni. In effetti proprie e vere lezioni non erano, o spiegazioni o teorie, ma esercitazioni nell’arte dello scrivere, traduzioni, componimenti, letture mescolate di aneddoti, di riflessioni, di giudizi, d’impeti di collera, di scuse amabili, sì ch’era un piacere a vederlo e a sentirlo: tutto ciò che scuola o maestro ha di convenzionale, era scomparso, fino le proverbiali panche, sostituite da eleganti sedie. Il marchese non solo sdegnava di essere detto maestro, ma non ne aveva l’aria e le maniere: pareva piuttosto un amico, maggiore d’età e di esperienza e di studi, che stava lì compagno e guida ne’ nostri lavori, e sentiva il parer nostro e ci diceva il suo, e poneva tutto in discussione, quello che diceva lui e quello che dicevamo noi. Talora avveniva che il torto l’aveva lui, e lo riconosceva di buona grazia e diceva: “Ho preso un granchio a secco”. (…) Il marchese era a tutti caro e rispettato, perché amava i suoi giovani, così li chiamava, non studenti, né discepoli, ed era il loro protettore, il loro padre. Ci erano attorno a lui un gruppo di veterani, i giovani stati lì da cinque o sei anni, e che il marchese scherzando chiamava gli Anziani di Santa Zita. Il loro giudizio era molto autorevole, e quando parlava l’un di essi si faceva silenzio, l’irrequieto marchese per il primo, e si stava a bocca aperta. Ci erano anche gli Eletti, giovani che occupavano un posto distinto, e questo nome si dava per consenso di tutti a quelli che facevano un lavoro “indovinato”, componimento o traduzione. Anche il giudizio di questi aveva una certa autorità, ed i nuovi e inesperti si lasciavano volentieri guidare da loro. Così nasceva una certa disciplina naturale, fortificata da una costante cortesia di modi, che rendea tollerabili anche i più severi giudizi. Il marchese soleva dire che le lettere servono a raggentilire e nobilitare l’animo; ed era una grazia, quando si spassava con di bei motti e proverbi alle spese di qualche povero provinciale capitato lì o non bene in arnese, o goffo di modi, o presuntuoso parlatore. Si può pensare quale impressione incancellabile produceva tutto questo su quei rozzi animi. Era tutta una rivoluzione morale. Dopo pochi mesi io mi sentiva un altro uomo.
Né questo solo. In quella scuola i principali attori erano i giovani. Il marchese, come ho detto, non faceva discorsi o lezioni, non insegnava grammatica o retorica: parlava così alla buona, e facea notare più per esempli che per teoriche i pregi e i difetti degli scrittori, aggiungendovi, come l’occasione portava, avvertenze grammaticali o di lingua o di rettorica. 
(…) Vi si andava tre volte alla settimana. Un giorno era consacrato alla lettura e all’esame dei componimenti, favole, lettere, dialoghi, sogni, dissertazioni, dicerie, racconti storici, novelle, di rado qualche poesia. Dopo la lettura, il marchese domandava a due o tre il loro parere, i quali ragionavano prima del concetto, poi dello stile e della lingua. La discussione era chiusa da uno degli Eletti o degli Anziani, che ne discorreva ampiamente; il Marchese riassumeva le diverse opinioni e dava un giudizio terminativo. Essendo la più parte dei giovani colti e adulti, le discussioni riuscivano spesso brillanti e animate. Né minor gara era negli altri due giorni, destinati alla traduzione e alla lettura dei classici. Si traduceva non più che due periodi di Cornelio Nipote, né ci era esercizio più acconcio ad addestrare in tutte le finezze della lingua e nell’organamento del periodo. Letta la traduzione, scoppiavano da tutte le parti osservazioni sopra i difetti, quando non era seppellita di un colpo sotto qualche scherzo del marchese, come: “Basta così: l’avete fatta tra gli orrori della digestione”. Di quante se ne leggevano, il marchese sceglieva una che gli sembrava migliore e sopra quella faceva la correzione, sicchè ne uscisse un lavoro perfetto, che ciascuno scriveva nel suo quaderno. Il giovane sul cui lavoro era caduta la scelta, se ne usciva quella sera con la testa più alta. Non è a dire che diligenza metteva il marchese in queste correzioni: spesso stava una mezz’ora ad acchiappare una parola o una frase che non voleva venire, e a tutti a suggerirgli, e lui a dar col pugno sulla tavola e a gridar: “No!” con una di quelle sue favorite esclamazioni. Oimè! Talora la frase tanto cercata non veniva, e si veniva per stanchezza con una rappezzatura, e il marchese levava la spalla e se ne consolava dicendo: “Non è poi il Vangelo”. 
Dopo la traduzione si leggeva qualche brano di autore classico, trecentista o cinquecentista, e la scelta era fatta con molto gusto. Il marchese era sincerissimo nelle sue impressioni e le comunicava irresistibilmente all’uditorio, soprattutto ne’ luoghi affettuosi, come la morte di sant’Alessio, o il lamento della madre di Santa Eugenia, o il racconto del carbonaio nel Passavanti, o le patriottiche querele di Dino Compagni. 
(…) Come si vede i giovani erano in continuo lavoro; ma non bastava. Il marchese richiedeva che essi studiassero a casa ne’ classici; e si accorgeva subito quando lo studio era poco o mal fatto. Talora, sentendo un lavoro o una traduzione, interrompeva bruscamente il giovane e domandava: “Cosa leggete?”. “Il Manzoni”, scappò su a dire un mal capitato, e il marchese si fe’ rosso di collera non perché avesse in poco pregio il Manzoni, ma perché voleva gli studi fatti con ordine e di soli classici. Aveva egli in casa una compiuta raccolta di libri classici, fatta col peculio de’ giovani. Uno degli Anziani era bibliotecario, il quale dovea dare a leggere quei libri con un certo ordine prestabilito dal marchese. Si cominciava con gli scrittori più piani, dove si dovea studiar non altro che parole e frasi, come il Sigoli, o il Novellino; poi venivano gli scrittori che avevano stile, e prima bisognava studiar quelli di stile naturale, come il Villani, il Cavalca, i Fatti di Enea, i Fioretti di san Francesco, e poi i più artificiali e arguti e di “stile conciso”, come Dino Compagni, Passivanti, gli Ammaestramenti degli antichi e il Sallustio di Bartolomeo da San Concordio: in ultimo veniva il Boccaccio che apriva la porta a’ cinquecentisti. E qui lo stesso ordine: e si leggevano prima gli scrittori piani, eleganti, forbiti, e poi i serrati e concisi, prima i liviani e poi i tacitiani, finchè non si giungeva a’ due sommi e riserbati per le frutta, Guicciardini e Machiavelli. Del seicento permetteva di soli pochi lo studio, come il Bartoli, il Segneri, e con le debite cautele. Ciascun giovane aveva i suoi quaderni, repertorio di tutti i bei modi di dire ed eleganze pescate in queste letture, e ne’ lavori facea mostra delle sue ricchezze.
Sono convinto che niente giovi più a rilevare gli studi letterari ed a educare la mente, che questo assiduo lavorare del giovane, questo leggere, tradurre, comporre, notare, più utile che non il mandare a memoria grammatiche, rettoriche e arti dello scrivere. Il marchese solea dire, citando un detto di Socrate, che il maestro dee essere come la levatrice che aiuti a partorire. Il miglior maestro è quello che pensi meno a comparir lui, e lasci fare ai giovani, dissimulando la sua opera e creando in loro questa illusione che quello che imparano sono loro stessi che l’hanno trovato. Quello teniamo a mente che abbiamo acquistato col sudore della fronte: tutto l’altro facilmente entra e facilmente esce dalla memoria.
(…) Se quello che insegnava il Marchese non era tutt’oro di coppella, per usare una sua espressione, il modo d’insegnamento, il “come” era istrumento efficacissimo di educazione e di progresso. Il giovane si sentiva alzato a’ suoi occhi, piaceva a se stesso, veggendosi chiamato a leggere, commentare, discutere, giudicare, lavorare in comune, non discepolo, ma compagno e collaboratore. (…) Ah! Ci amava tanto quel buon marchese! E noi lo cambiavamo di pari affetto. L’amore è il primo segreto del buono insegnamento. Non basta il metodo del Puoti, ci vuole il cuore del Puoti.
(…) Entrati appena in questo Studio, la sorpresa era grande. Si sentiva per la prima volta parlare del secol d’oro della favella, dell’aureo trecento e del dotto cinquecento, e ci vedevamo sfilare innanzi una turba di scrittori, di cui ignoravamo anche i nomi. Ed io che m’immaginavo d’essere il più istrutto uomo di Napoli! Mi sentii bestia accanto agli Anziani di Santa Zita. Sentir gettare a mare il padre Soave con la sua grammatica e le sue novelle, e Goldsmith con la sua storia greca e romana! Proscritti il Tasso e il Metastasio! Gli ex-seminaristi si guardavano, e il Marchese sempre lì a incalzarli nelle loro credenze e nelle loro abitudini, tutto frizzi ed epigrammi. Nessuno avea scritto mai in latino o in italiano: appena barbare traduzioni dal latino; ciascuno però avea fatto qualche sonetto in vita sua; onde l’aborrimento del Marchese per i sonetti. Di storia greca e romana sapevano appena; di storia italiana punto; avevano tradotto, senza intenderli e senza gustarli, Ovidio, Tibullo, Catullo, Properzio, Virgilio, Cicerone, Livio ed anche Tacito; del Tasso e del Metastasio sapevano a mente le ottave e le ariette, esercizio di memoria, non di critica; gli scrittori italiani scarsa notizia e nessuno studio, perché non era mai loro entrato in capo che libri scritti in italiano e perciò di comune intelligenza si avessero a studiare. Che un italiano dovesse apprendere l’italiano, dovea sembrar loro un paradosso. Immaginatevi la sorpresa. Sentivano che non tutte le parole italiane sono italiane; che ci sono parole pure e impure, proprie e improprie, rozze e gentili, aspre e soavi, nobili e plebee, prosaiche e poetiche, in uso, fuori d’uso, in disuso. (…) La parola per il marchese era luccicante come l’oro: soleva dire: “parole di buona o falsa lega”, “parole di finissima lega”, “oro purissimo”, “oro di coppella”. Così ciascuno si avvezzò a scrivere col dizionario avanti e col suo quaderno di frasi, cacciando via le parole sospette di falsa lega, soprattutto quelle che avevano qualche somiglianza con parole francesi, per tema di cascare in qualche francesismo. Il marchese aveva giurato, come Annibale, odio impalcabile a’ francesismi o gallicismi, ricordo, diceva, di servitù straniera, e “bisogna ad ogni patto purgar la lingua di queste brutture”, aggiungeva. Il francesismo non era solo nelle parole, ma ne’ giri, nelle movenze, ne’ trapassi, nell’uso delle particelle, nella formazione del periodo; e dove non si ficcava il francesismo? (…) Secondo il marchese il francese concepisce e pensa in un modo altro che l’italiano; indi la differenza dello scrivere tra’ due popoli. Quello che in francese suona sì bene, recato in italiano l’è una sconciatura, e n’esce uno scrivere tagliuzzato, a singhiozzi, senz’arte di passaggi e di chiaroscuri. Conchiudeva doversi scrivere con le parole del trecento e con lo stile del cinquecento. Non è che egli accettasse tutte le parole dell’aureo secolo, e che dicesse o scrivesse “carogna” per cadavere, e “sirocchia” per sorella, come spargevano gli avversari. Ammetteva supremo giudice l’uso toscano, specialmente de’ contadini, di favella più schietta, e non lodava lo scrivere troppo artificiato del Boccaccio e del Guicciardini. Nella lotta che sorse comprendo che gli avversari usassero l’arma della caricatura ed esagerassero le sue dottrine. Ma quelle teorie con quelle spiegazioni e limitazioni ci parevano irreprensibili: e a ogni modo erano per noi un mondo nuovo così attraente che già alla porta della professione ripigliavamo gli studi letterarii.
(…) Diceva essere assai meglio capitassero i giovani affatto ignoranti che guasti e male avvezzi. Perdonava non difficilmente le sgrammaticature e gli errori di ortografia, ma per gli errori di lingua e massime per i francesismi era inesorabile. Ma per piacergli non bastava cansare gli errori: richiedeva l’eleganza. E scrivere elegante era fuggire i vocaboli e i modi usati comunemente, e sostituirvene altri peregrini e fuor della lingua parlata come “andar per la maggiore”, “saper grado e grazia”, “esser di credere”, “tener fermo” e molti altri. Quando i componimenti ne erano sopraccarichi, il marchese diceva sorridendo: “Per ora va bene: veggo che leggete i buoni scrittori”. Con questo indirizzo era inevitabile che sorgesse un modo di scrivere a tutti comune, certi collocamenti di parole, certi legami o passaggi, certi ripieni o trasposizioni o idiotismi, simpatie o antipatie venuteci dalle predilezioni o da’ furori del marchese, modo di scrivere che degenerava nella maniera o nel convenzionale. Se non che dopo alcuni anni i giovani d’ingegno se ne affrancavano, e il marchese andava “allentando il freno”, come diceva, e tollerava certe licenze. Soleva dire che co’ giovani si dee esser severi, e fino pedanti; ma che quando si va innanzi negli studi, si può “secondare il natural genio”, perché l’eccellente scrittore è superiore alle regole, e sa quello che fa. Ci raccontava anzi che il Voltaire a taluno che gli rimproverava una sgrammaticatura avesse risposto: “Tanto peggio per la grammatica”. Ma conchiudeva: “Queste libertà sono pe’ Sommi; per voi è meglio stare alla regola”. Se dunque da quella scuola sono usciti scrittori pedanti, “peccato è loro e non natural cosa”, e non colpa del marchese Puoti.
Principal dote dello scrittore dovea essere la chiarezza. Quando in certi periodi non si raccapezzava, “montava in bestia”, frase sua, e rinnegava la pazienza e diceva: “ Non si può correggere; meglio cassare e far da capo”. Attribuiva la poca chiarezza al cattivo concepire, all’ignoranza della lingua, alla fretta, e se il giovane non se ne chiamava in colpa, anzi teneva qualche difesa, lo investiva di così bei modi di rimproverare toscani, che colui non vedeva, non sentiva e non capiva più nulla e balbettava. Diceva la chiarezza esser la base dello scrivere, ma sola esser come l’acqua, senza sapore e senza odore. Voleva l’efficacia: così chiamava tutte le altre qualità che danno vigore e nerbo e colore, danno sangue allo stile. Quelli un po’ aridi e fiacchi li chiamava defrigidis et maleficiatis, e talora diceva: “Manca l’utero”. L’efficacia era in certe scorciatoie e rapidi trapassi, e scelta di epiteti o di avverbii e spostamenti di parole che davano all’aspetto non so che di peregrino e lontano dal volgare. I più guasti da’ seminarii erano certi “abati”, così chiamava il marchese i preti, che avevano imparato tutto il De Colonia, avevano scritto molti panegirici, e si tenevano maestri e stavano gonfi e pettoruti. Uno di questi tali venne a lui e disse: “ Ho fatto tutt’i miei studi e sono già maestro nel seminario. Da voi non chiedo altro se non di apprendere un po’ di lingua, sì che io impari a scrivere, per esempio, come Annibal Caro”. Il marchese raccontava spesso quest’aneddoto. E raccomandò l’abate a certi Anziani, i quali al primo lavoro ch’ei lesse gli fecero tale pettinatura, che l’amico si rannicchiò e non si fece più vivo. Il marchese aborriva il rettorico, il declamatorio, il gonfio, il convulso, i concetti e le antitesi: tendeva più verso l’Arcadia che verso il Seicento.
(…) Tale era il marchese ritratto così alla buona e alla naturale, come m’è venuto in memoria. Aveva mente chiara e giusta, ma anche a lui “mancava l’utero”. Aveva però qualche cosa di più possente: aveva cuore. Spese tutta la vita per il bene della gioventù, e in questo pose tutto se stesso, quanto era in lui d’intelligenza e di passione e di ambizione. Ottenne così maggiori effetti per il progresso degli studi, che non molti altri di più ingegno.
Il difetto capitale di questa scuola non è difficile a intendere, specialmente oggi. Vi si dava troppa importanza alla parola come parola e alle parte meccanica dello scrivere come la formazione del periodo. Né questo studio potea riuscire a bene, segregato dal presente e dal vivo, e fondato sugli scrittori e di parecchi secoli indietro, come si fa di una lingua morta. Perciò criterii dello scrivere falsi e arbitrarii e mutabili, spesso mera antipatia o simpatia. (…) Lo scrivere non era più una produzione, ma una imitazione secondo certi preconcetti o archetipi. E mi persuado come a quella ottima forma di scrivere prestabilita giungessero anche i più mediocri, sol che usassero diligenza, e come il marchese, a cui mancava il fiuto dell’ingegno, li tenesse in quel pregio che i suoi più valenti discepoli, come un abate Meledandri, un Pessolani, vivuti senza infamia e senza lode.
Il marchese stesso confessava che una certa esagerazione era nella sua scuola, e la scusava, come il frutto del grande amor suo a’ buoni studi, e diceva: “Chi ama esagera”. Stimava con ragione che una ferrea discipilina fosse necessaria a svezzare la gioventù dalle male abitudini contratte nelle scuole, che si richiedevano rimedi così violenti com’era il male, che chiodo ci vuole per trarre dall’asse il chiodo, e ch’egli facea come il chirurgo che par crudele ed è pietoso. Il fatto è che la sua scuola operò una compiuta trasformazione nella cultura nazionale. Si cominciò a studiare un po’ meglio il latino ed il greco; venne in voga lo studio delle cose italiane anche ne’ seminarii, si diffusero nelle più remote provincia gli scrittori classici, sorsero qua e là scuole simili a quella del Puoti, e in poco spazio non ci fu scienziato di qualche valore che non cercasse di scrivere pulitamente. (…) La missione del marchese era finita, lo scopo ottenuto, e quando io, suo discepolo, uscii a dire in pubblica accademia che il purismo non avea più ragione d’essere, perché aveva già vinto, e che la questione non era più di lingua, ma di stile, il brav’uomo se ne compiacque ed accettò la teoria per buona. Ma quando fui a tirarne le conseguenze, si ribellò, o piuttosto chiamò me un ribelle. Non di meno gli ebbi sempre tale riverenza e devozione che gli screzii letterarii non furono sufficienti a farmi cader dal suo animo, e presso a morte, veggendomi accanto al suo letto, disse: “Tu sai ch’io ti ho sempre amato”.
La ribellione non era altro che il naturale progresso della coltura e del sapere che sopravvanza il maestro e gli arma contro i discepoli. Grandi e libere scuole sono quelle nel cui seno germoglia la ribellione, cioè a dire il progresso, come grandi e libere società sono quelle in cui niente stagni e tutto si mova naturalmente. Il marchese, non che a dispiacersi, doveva applaudirsi di questo fatto, che la ribellione non venne dal di fuori, ma dalla sua scuola, dal suo metodo, da lui stesso che ci aveva educati e posti in noi germi preziosi che dovevano fruttificare. Ma gli uomini sono così fatti. E fu suo dolore quello che era sua gloria.




LUIGI SETTEMBRINI, Le ricordanze della mia vita, [Morano, 1879], Milano, Feltrinelli, 1961, pp.57-67

CAPITOLO VII: L’Università

La coscienza mi diceva: “Tu sei pure ignorante; gli studi li hai fatti in fretta; scienze non ne conosci, di filosofia ricordi soltanto che cosa è idea, nel latino sei corto, in italiano non scrivi abbastanza corretto: bisogna rifarti da capo. Andiamo dunque nell’università, dove ci ha tanti professori, che insegnano tante belle cose. Bisogna acquistare buone e sode cognizioni, e poi lasciamo fare a Dio.(…) Andai dunque all’università, e presi ad ascoltare vari professori.
L’Università di Napoli è stata sempre una grande scuola gratuita di studi professionali, dove gli studenti sono liberissimi di entrare e di uscire o di non andarvi affatto; e pochissimi ci vanno. Chiunque si presentava, e pagava la tassa, e faceva gli esami, ed era approvato, aveva il suo diploma. Il governo ebbe sempre paura di ragunare in un solo luogo le molte migliaia di giovani che da tutto il regno convenivano in Napoli a studiare, e però non li obbligava ad assistere ai corsi, e li lasciava sparpagliare nelle scuole private, e teneva l’università come a pompa, perché c’era stata sempre, e non altro che un’officina per sfornare dottori. Questo produceva un male, e un bene. Il male era che i giovani non si conoscevano né s’affratellavano far loro; i professori per la rarità degli scolari si svogliavano benché valenti, e se togli qualcuno di molto grido, gli altri leggevano ai banchi; l’università non ebbe gran nome. Il bene, che a mio credere avanzava il male, era che l’insegnamento era liberissimo; la scienza non s’imparava dal professore ufficiale che insegnava come volevano i superiori, ma da maestri privati che in casa loro insegnavano come volevano: metodo, libri, sistemi, ognuno aveva il suo, e i giovani correvano dai migliori e di maggior grido. (…)