logo dell'associazione

logo dell'associazione

Autobiografia - Muhammad ‘Abduh



lunedì 24 ottobre 2005 legge Pier Cesare Bori
L’autobiografia di Muhammad ‘Abduh (1849-1905) è un breve testo di grande vivacità e interesse. Leggeremo un brano in cui egli racconta come, da ragazzo, scoprisse la sua vocazione di riformatore, che lo porterà poi a contribuire efficacemente alla modernizzazione e al rinnovamento spirituale della sua patria egiziana. Il testo è stato tradotto da Pier Cesare Bori con i suoi allievi del carcere di Bologna e di Reggio Emilia. 


Essere gharîb in questo mondo

Sono andato a insegnare in carcere, a Bologna, alla “Dozza” nell’autunno del 1998. Ho cercato questa esperienza non come un’iniziativa umanitaria, ma come una verifica di ipotesi culturali e pedagogiche già in precedenza formulate e messe alla prova: la possibilità di un discorso di una formazione etica che potesse reggere alla prova della differenza culturale. Ho quindi cercato di lavorare soprattutto con stranieri, specialmente maghrebini. Molto presto, dalla primavera del 1999, mi hanno aiutato i miei studenti, del gruppo Una via (una quindicina, provenienti soprattutto dal mio corso di Filosofia morale).

Le nostre attività, dirette a uomini e donne, e sempre con il decisivo contributo di tutto il gruppo, si possono così riassumere:
1. Insegnamento: un corso di Filosofia morale d’oriente e d’occidente, basato su una sequenza di testi raccolti nel fascicolo, ad uso interno, Passi verso un ethos condiviso.
2. Inoltre, più recentemente, insegnamento e pratica della meditazione vipassana (un tipo di meditazione buddhista, che si pratica con successo in contesto detentivo in India e altrove), con letture successive alla meditazione (da Passi e altro).
3. Lavoro redazionale alla rivista del carcere, “Ex_tra”.
4. Assistenza a detenuti-studenti universitari e anche ad agenti-studenti nell’ambito della convenzione Università-carcere.
5. Accompagnamento nei permessi e accoglienza di detenuti in permesso durante le riunioni settimanali del gruppo.
6. Lavoro – in alcuni momenti, soprattutto quello iniziale – alla biblioteca della Casa circondariale.
7. Visite a famiglie di detenuti maghrebini, soprattutto da parte di chi scrive, con frequenti viaggi in Tunisia.
[…] Inoltre, ricostruire le storie dalle origini, smettere di considerare questi giovani come diversi, che vengono dal nulla, senza storia, senza radici, rappresenta un grande guadagno di conoscenza in tema di immigrazione e devianza. Anche se questo si può fare in un numero limitato di casi.



Anzitutto occorre perseguire direttamente la formazione morale. In carcere c’è la scuola, e moltissime altre attività condotte in modo eccellente dal corpo insegnante e da una schiera di volontari; c’è l’attività religiosa (cattolici, ma non solo), ma è difficile trovare esperienze di diretta assunzione del problema di una formazione etica non confessionale.
Laicità, quindi, non nel senso di agnosticismo, ma nel senso di “pluralismo delle vie” e della “reversibilità” dei due discorsi, religioso e non religioso. Si tratta di mostrare che esistono molte vie spirituali, che in tutte occorre perseguire “virtù e conoscenza”, e che invece l’opzione religiosa è un’aggiunta possibile, indispensabile per alcuni, ma non per tutti.
In terzo luogo, fiducia nella possibilità di una liberazione attraverso il sapere (Platone, “la caverna”), fiducia nella “luce che illumina ogni uomo” (George Fox e tradizione quacchera di presenza nelle prigioni), fiducia nella pratica della “consapevolezza” (sati, nella pratica buddhista vipassana), fiducia nella pedagogia della lettura di grandi testi (Tolstoj)

(Pier Cesare Bori, in “Inchiesta” 34, n. 144-145, 2004)

1. Imparai a leggere e scrivere nella casa di mio padre, poi mi trasferii nella casa di un precettore. Da solo, gli lessi l’intero Corano, per la prima volta. Poi ripetei la lettura fino a quando terminai l’apprendimento completo del testo, nell’arco di due anni, Nel secondo anno fui raggiunto da ragazzi del villaggio provenienti da un’altra scuola, per apprendere il Corano, insieme al mio precettore, pensando – essi - che il mio successo nell’apprendimento fosse dovuto all’impegno di questo mio precettore. In seguito mio padre mi portò a Tantah dove viveva un mio fratellastro, lo sceicco Mujahid (Allah abbia misericordia di lui) per la recitazione del Corano nella Moschea Ahmadî, conosciuta per la fama dei suoi lettori nell’arte della recitazione. E questo era nell’anno 1279 dell’Egira.
2. Poi nell’anno 1281 frequentai lezioni di scienza e cominciai a studiare sul commento di Kafrawî al Ajurrûwimiyyah nella moschea Ahmadî a Tantah e passai un anno e mezzo senza capire nulla per la mediocrità del metodo di insegnamento.
Gli insegnanti volevano stupirci con un linguaggio grammaticale o giuridico che non capivamo e non si preoccupavano minimamente di spiegarne il significato a chi non comprendeva. Persi allora la speranza nella riuscita e fuggii dalle lezioni e mi nascosi presso alcuni miei zii per un periodo di tre mesi. Poi mio fratello mi scovò e mi portò alla moschea Ahmadî imponendomi di studiare.
Io mi rifiutai e gli dissi: “Mi sono reso conto che per me non c’è prospettiva nello studio; non mi rimane che ritornare al mio paese e dedicarmi all’agricoltura, come se ne occupano tanti miei parenti”.La discussione finì con la mia vittoria su di lui; presi tutti i miei vestiti e le mie cose e tornai a Mahallat Nasr con il proposito di non tornare allo studio. A questo scopo mi sposai nel 1282.
3. E questa è la prima impressione che ho provato dentro di me a proposito del metodo di insegnamento, che è poiè lo stesso metodo dell’Azhar. Questa è l’impressione che prova il 95% di quelli che il destino non ha aiutato facendogli incontrare qualcuno non si sia stato costretto a questo metodo di insegnamento.E’ il metodo per cui il docente parla di quello che sa e di quello che non sa, senza prendere in considerazione la capacità di comprensione dell’allievo. Ma la maggior parte degli studenti, che non comprendono, ingannano se stessi e credono di avere capito qualcosa e continuano a studiare fino a diventare adulti mentre sono ancora nei sogni dei bambini. Poi cominciano ad affliggere la gente, divengono per tutti una sventura, accrescono la disgrazia perché aumentano l’ignoranza dell’ignorante, sviano coloro vengono per apprendere, danneggiano con loro insegnamento chi possiede un po’ di sapere e impediscono alla gente di trarre profitto della scienza.

4. Quaranta giorni dopo che mi sposai, venne da me mio padre una mattina tardi e mi ordinò di andare a Tantah a studiare. Dopo proteste, rifiuti, dinieghi, non trovai alternativa all’obbedienza all’ordine. Trovai un cavallo pronto, lo cavalcai.Mio padre mi fece accompagnare da un parente, uomo di robusta struttura fisica e di grande vigore per scortarmi alla stazione di Itay Barud per montare sul treno della ferrovia per Tantah. Era una giornata caldissima e il vento che soffiava torrido sollevando sabbia colpiva il volto con il suo caldo intenso e non potevo continuare la marcia. Dissi al mio accompagnatore:“Non ho più le forze per continuare il cammino con questo caldo. Bisogna deviareverso un villaggio dove aspettare che diminuisca il caldo”. Me lo negò. Allora lo abbandonai e corsi a cavallo fuggendo per evitare discussioni. E mi diressi a Kunaysat Urayn, un villaggio in cui la maggioranza degli abitanti sono gli zii di mio padre.
I ragazzi del villaggio si rallegrarono perché ero famoso come cavaliere e nel maneggio delle armi e speravano che abitassi con loro un po’ di tempo per divertirsi fra di noi.Mi raggiunse il mio accompagnatore e rimase con me fino al tardo pomeriggio e voleva che mi rimettessi in viaggio ma io gli dissi: “Prendi il cavallo e torna indietro, io vado domani mattina, e se vuoi dì a mio padre che mi sono recato a Tantah”. Se ne andò e portò il messaggio e rimasi in questo villaggio 15 giorni.Qui la mia condizione si trasformò e il mio volere senza che lo volessi cambiò.

5. Questo perché a uno degli zii di mio padre – il suo nome era Shaikh Darwish – era accaduto in precedenza di fare dei viaggi nel deserto libico ed era arrivato nei suoi viaggi a Tripoli occidentale e aveva frequentato Mohammed al-Madani, padre del famoso shaikh Dhafir che aveva abitato a Istambul e vi era morto. Aveva imparato da lui un po’ di scienza ed era stato iniziato alla confraternita della Shadiliya. Aveva Mawattah e alcuni libri di hadith e possedeva a memoria il Corano e lo capiva poi era tornato dai suoi viaggi e lavorava come lavorava la gente nella coltivazione della terra e viveva dell’agricoltura.
6. Questo shaikh venne da me all’alba della notte in cui dormii a Kunaysah e nelle sue mani c’era un libro che conteneva delle lettere scritte dal signor Mohammed Madanî ad alcuni suoi seguaci lontani con lettere in calligrafia magrebina e mi chiese di leggergliene per la debolezza della sua vista. Respinsi la sua richiesta con forza e maledissi la lettura e chi se ne occupa: lo respinsi in malo modo. Quando mise il libro tra le mie mani, lo gettai lontano, però lo shaykh sorrise e manifestò una gentilezza straordinaria. E insistette finché presi il libro e lessi qualche riga e si mise a spiegarmi il senso di quello che avevo letto con parole chiare che prevalsero sulla mia resistenza e la vinsero e penetrarono nella mia anima. E poco dopo vennero i ragazzi a invitarmi ad andare a cavallo, a giocare alla guerra e a nuotare in un fiume vicino al paese e gettai il libro e andai da loro. E nel pomeriggio venne da me lo shaykh con il libro e insistette con me per leggervi qualcosa. E lessi e lui spiegò poi lo lasciai per andare a giocare.

Il secondo giorno fece come aveva fatto il giorno prima; invece il terzo giorno rimasi a leggergli e lui mi spiegava il significato di ciò che leggevo: per tre ore non mi annoiai di questo. E mi disse che aveva bisogno di andare alla fattoria per fare qualche lavoro. Gli chiesi di lasciarmi il libro e lo lasciò e passai il tempo leggendolo e ogni qualvolta trovavo una parola che non capivo, la segnavo per chiedergli spiegazione, fino a che venne mezzogiorno. Mi opposi tutto il giorno al desiderio di giocare e di manifestare il mio valore nella competizione con loro. Nel tardo pomeriggio, quel giorno, lo interrogai su ciò che non capivo e me ne spiegò il significato come suo solito e mi manifestò la sua gioia per il rinnovarsi del mio desiderio di leggere e della mia inclinazione a capire.
7. Queste lettere contenevano qualcosa dei principi della dottrina sufi. Per la maggior parte si trattava di precetti per l’educazione e la formazione dell’anima in vista di un comportamento morale e della sua purificazione dall’impurità e dai vizi, della rinuncia alle vanità, che sono nelle apparenze della vita mondana.

8. Non era ancora il quinto giorno e già tutto quello che amavo lo odiai: gioco, divertimento, leggerezzee vanità, e venivo ad amare la cosa che odiavo, cioè la lettura e il sapere. Odiai la vista di quei ragazzi che mi invitavano alle cose che precedentemente avevo amato e cercavano di dissuadermi dal frequentare lo sceicco (Dio abbia misericordia della sua anima) e io non sopportavo di vedere nessuno di loro, anzi scappavo dai loro ritrovi come scappa il sano dalla scabbia.
Nel settimo giorno chiesi allo “shaykh”: “Quale è la vostra via?” (tariqah)
Disse: “La nostra viaè l’Islâm.”
Dissi : “E tutte quelle persone non sono forse musulmane?”
Disse “Se fossero mussulmani non li vedresti litigare per inezie e non udiresti giurare in nome di Dio mentendo per questo o quel motivo.”
Queste parole erano un fuoco che bruciava tutto il vecchio carico che mi aveva acompagnato: il carico di idee fallaci e corrotte, il carico della pretesa della salvezza solo perché mussulmani, mentre eravamo sprofondati nell’indifferenza.
Io chiesi: “Qual è la vostra formula da recitare nella solitudine o di seguito alla preghiera?”
Disse: “Non abbiamo altra preghiera oltre la lettura del Corano. Ne leggiamo ad ogni preghiera quattro quarti cercando di capire e meditare.” E io risposi: “Come posso comprendere il Corano e non ho imparato niente!”