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Le amicizie pericolose - Choderlos de Laclos (lettera LXXXI)


lunedì 07 novembre 2005 legge Alessandro Castellari
Al culmine della tradizione del romanzo epistolare moderno si pongono Le relazioni pericolose (Parigi, 1782) di Laclos: è un’“opera sinfonica a più voci” in sintonia con la nuova parola d’ordine in campo estetico: rappresentare l’infinita varietà del mondo, ovvero il dinamismo, la varietà, la vivacità delle notazioni sociali e la ricchezza delle sfumature psicologiche. Su questo il pittore William Hogarth e i romanzieri inglesi e francesi sono assolutamente d’accordo.
Al centro del romanzo c’è questa lettera LXXXI e la figura della marchesa di Merteuil. Cultrice della “nova scientia sexualis”, si vanta di osservare e dominare, come in vitro, l’esperienza di un asservimento sistematico operato con le armi della seduzione e condotto con metodo e rigore scientifici. La sua gloria sta nel conoscere attraverso l’osservazione, nel dominare attraverso la conoscenza, nel godere attraverso il dominio. (il marchese de Sade non è lontano.) Così cultura illuministica e disprezzo libertino della morale corrente si fondono in questa figura di donna che ha l’orecchio del confessore, la voce del pedagogo e l’occhio dello scienziato. Ma, come avviene nei grandi romanzi, la realtà è più complessa delle intenzioni, dei programmi, delle strategie, e anche la marchesa cederà al movimento involontario della vita e delle passioni.


Lettera LXXXI

La marchesa di Merteuil
al visconte di Valmont..



Quanta pietà mi fanno le vostre apprensioni, che provano luminosamente la mia grande superiorità su di voi! E pensare che voi pretendereste insegnare qualche cosa a me, e farmi da guida! Oh, povero Valmont, quale abisso ci separa! E, per colmarlo, non può davvero bastare il vostro orgoglio maschile. Sapete perché i miei piani vi sembrano assurdi? Perché non vi sentite la forza di eseguirli. E, debole e orgoglioso come siete, vorreste non di meno giudicare , proprio voi, il metodo che ho scelto, le qualità che posseggo! I vostri consigli, mio caro visconte, mi hanno indisposta, non ve lo nascondo.
Che voi, per mascherare la vostra incredibile melensaggine nei riguardi della presidentessa, vogliate gabellarmi per un gran trionfo l'aver potuto sconcertare per un momento una donnicciuola timida e innamorata, beh, vada pure; e posso magari arrivare ad ammettervi, non senza tuttavia un sorrisetto di commiserazione, che sia una gran cosa quello sguardo, quell'unico sguardo che ne avete saputo ottenere! Che, sentendo a vostro marcio dispetto lo scarso valore della vostra collaborazione, speriate d'ingannarmi, con l'esagerare i vostri sforzi sublimi per ravvicinare due ragazzi che ne muoiono già di voglia e che (sia detto di sfuggita) debbono solo a me questo grande ardore che hanno di rivedersi, beh, vada anche questo! Che finalmente, imbaldanzito da codeste belle prodezze, pigliate con me la mutria dottorale per dirmi che è meglio impiegare il tempo nei fatti che nelle chiacchiere, beh, si tratta dopo tutto d'una piccola vanità che non mi fa né caldo né freddo, e posso passarci sopra! Ma che voi possiate credere che io abbia bisogno della vostra prudenza e che io possa rovinarmi a non dar retta ai vostri savi consigli; che per darvela vinta io debba rinunciare a cavarmi una voglia, a scapricciarmi come e quanto mi piace, oh, via, caro visconte, questa è troppo grossa davvero: è un volersi gonfiare fuor di proposito per quel po' di stima che mi sono degnata di avere per voi!
E che diamine poi credete d'aver fatto? Io ne ho fatte mille volte più di voi. Avete sedotto e magari rovinato molte donne: non dico di no. Ma che difficoltà avete dovuto vincere, che ostacoli avete dovuto sormontare? Che meriti, veramente vostri, avete avuto in tutto ciò? Avete un bel viso, ma è mero effetto del caso; avete delle maniere simpatiche, ma la lunga consuetudine le conferisce a tutti; avete dello spirito, ma, se anche non l'aveste, un po' di chiacchiera basterebbe ugualmente allo scopo; avete una faccia tosta encomiabile, ma vi è venuta in seguito ai primi buoni successi. Questi, se non sbaglio, sono tutti i vostri pregi. Perché in quanto alla celebrità di cui godete, spero che non pretenderete ch'io faccia un gran caso dell'arte così elementare di far scoppiare uno scandalo o di approfittare d'uno scandalo già scoppiato.
La prudenza, l'astuzia... oh, via! non voglio parlare di me, ma qual donna non ne ha più di voi? Persino la vostra presidentessa vi mena pel naso come un ragazzino!
Credetemi, visconte, è raro che si acquistino le qualità di cui non si ha uno stretto bisogno. Combattendo senza pericoli, voi uomini non avete nessun bisogno di precauzioni: per voi una sconfitta non è altro che una fortuna di meno. Nella nostra partita ineguale, la fortuna per noi donne è di non perdere, la vostra sfortuna, di non guadagnare. E, quand'anche io vi accordassi tutti i meriti che abbiamo noi donne, noi li avremmo però sempre in un grado superiore al vostro, pel grande uso che ne dobbiamo fare di continuo.
Poniamo per un momento che voi abbiate ad adoperare tanta abilità nel vincerci, quanta ne dobbiamo adoperare noi nel difenderci o nel cadere: a ogni modo, di tale abilità, voi, dopo la vittoria, non sapreste più che farvene. Tutto preso dal vostro nuovo capriccio, voi potete abbandonarvici senza paura e senza riserve; né voi siete certo uno che si preoccupi di farlo durare!
E infatti questi legami reciprocamente imposti e ricevuti (per dirla col gergo amoroso) voi solo potete, a vostra scelta, stringerli o romperli. Le donne sono già troppo fortunate se voi, con la vostra leggerezza, preferite il mistero allo scandalo e vi accontentate d'un abbandono umiliante senza aver anche la velleità che l'idolo di ieri diventi una vittima. Se invece una povera donna sente per prima il peso della sua catena, quanti rischi deve correre per tentar di liberarsene... che dico? per osar soltanto d'alleggerirla? Cerca, tutta tremante, d'allontanare da sé l'uomo che non può più soffrire; ma egli si ostina a non volersene andare, ed ecco che ella deve concedere ancora per paura ciò che prima concedeva per amore: « s'apron le braccia, ma serrato è il cuore »; e la disgraziata può appena permettersi di sciogliere, con estrema prudenza e con cauta abilità, quei nodi che voi uomini avreste senz'altro reciso. Tutta alla mercé del suo nemico, non c'è scampo per lei se costui non ha un po' di generosità; ma perché poi dovrebbe averne, se, avendola, qualche rara volta ne è lodato, e, non avendola, non ne è biasimato mai?
Non credo che vogliate negarmi verità che per la loro evidenza sono diventate luoghi comuni.
Ebbene, se, ciò non ostante, voi m'avete vista, padrona degli avvenimenti e delle opinioni, far di cedesti terribili uomini un balocco per i miei capricci, e togliere a questo la volontà, a quello il potere di farmi del male; se ho potuto di volta in volta, secondo i miei gusti volubilissimi, avvincere a me oppure allontanare codesti «or schiavi, già tiranni spodestati»; se in mezzo a queste frequenti rivoluzioni ho potuto conservare una riputazione illibata, come non pensare che io sono nata per vendicare appunto il mio sesso, facendo man bassa del vostro e inventando metodi che prima di me erano affatto sconosciuti?
Oh, conservate i vostri consigli e le vostre apprensioni per quelle donne deliranti, le cosiddette sentimentali, che hanno la fantasia tanto esaltata da far credere che la natura abbia messo ogni loro senso nel cervello, e, non avendo mai riflettuto sui loro casi, confondono l'amore con l'amante, al punto che, prese da questa folle illusione, credono che solo l'uomo dal quale hanno avuto una volta un po' di piacere ne sia l'unico depositario, e, da vere beghine dell’amore, hanno pel sacerdote quell'adorazione e quella fede che sono dovute soltanto alla divinità! Temete per le donne che, più vanitose che prudenti, non sanno al bisogno acconsentire ad essere abbandonate. Tremate soprattutto per quelle che voi chiamate sensuali e che, attive anche nell'ozio, si fanno spadroneggiare così facilmente e così intensamente dall'amore, da sentir il bisogno di pensarci anche nei momenti in cui non ne godono, e, abbandonandosi interamente al fermento della loro fantasia, si mettono a scombiccherare quelle loro letterine dolciastre e pericolosissime, senza paura di confidare poi queste prove della loro debolezza alla persona che l'ha cagionata, trattando imprudentemente l'amante di oggi come se non dovesse diventare il nemico di domani.
Ma che cosa posso aver io di comune con codeste scervellate? Quando mai mi avete vista scostarmi dalle norme che mi sono imposta o venir meno ai miei principi? Ho detto principi, e l'ho detto apposta: perché non sono, come quelli delle altre donne, dati giù a vanvera, ricevuti a occhi chiusi e seguiti per sola abitudine; sono invece il frutto d'una profonda meditazione; e, poiché li ho creati io, posso ben dire che mi sono fatta da me.
Sono entrata nel bel mondo ch'ero appena una ragazza, e poiché per la mia troppo tenera età ero condannata al silenzio e all'inazione ne ho approfittato per osservare e riflettere. Gli altri mi credevano stordita e distratta, perché io infatti ascoltavo poco i discorsi che mi facevano con tanta premura, tutta assorta com'ero a carpire i discorsi che cercavano di nascondermi. Questa utile curiosità, mentre serviva a istruirmi, m'insegnò anche a dissimulare. Costretta com'ero a non far capire a coloro che m'erano attorno che stavo origliando, imparai di buon'ora a manovrare i miei occhi come volevo e a fingere così quello sguardo distratto che voi tante volte mi avete lodato. Incoraggiata da questo primo risultato, cercai di padroneggiare nello stesso modo i vari movimenti del viso, studiandomi, quando avevo qualche dispiacere, di mostrarmi serena e magari ilare. Giunsi anzi a tanto zelo, da patir delle sofferenze volontarie per esercitarmi ad assumere in quei momenti l'espressione della gioia. Con la stessa cura e con sforzi anche maggiori ho cercato di reprimere i sintomi d'una gioia improvvisa. A questo modo ho potuto farmi quella gran padronanza della mia fisionomia, di cui vi siete mille volte stupito.
Ero allora giovanissima e quindi disinteressata; ma sentivo già che il pensiero era l'unico bene che possedevo, e m'indignava pertanto l'idea che altri potesse carpirmelo o sorprenderlo contro la mia volontà. Appena ebbi a mia disposizione queste mie prime armi, cercai di farne uso; e, non contenta d'esser diventata ormai impenetrabile, mi divertii a mostrarmi sotto i più svariati aspetti. E quando fui sicura dei miei gesti mi misi a osservare i miei discorsi, regolando gli uni e gli altri secondo le circostanze o magari secondo i miei capricci. Da questo istante il mio modo di pensare fu una cosa veramente mia, e, del mio pensiero, manifestavo soltanto quel che m'era utile lasciar trapelare.
Questo lavorìo che avevo compiuto dentro di me m'aveva offerto l'occasione d'esaminare le espressioni dei visi e la natura delle varie fisionomie negli altri: ne guadagnai un occhio sicuro e penetrante che poche volte mi ha ingannato di poi, sebbene l'esperienza mi abbia insegnato a non fidarmene alla cieca. Avevo appena quindici anni e possedevo già tutte le arti dei più famosi uomini politici; eppure ero ancora all'abbiccì della scienza che volevo apprendere.
Come tutte le ragazze, cercavo anch'io d'indovinare che cosa fossero l'amore e i suoi piaceri; ma, poi che non ero stata mai nei monasteri, e non avevo nessuna amica intima, ed ero sorvegliata da una madre austera e vigilante, ne avevo soltanto idee vaghe che non riuscivo in nessun modo a precisare. La stessa natura, di cui più tardi ho avuto sempre da lodarmi, non me ne dava allora il menomo indizio, come se stesse lavorando in sordina per perfezionare l'opera sua. La mia testa invece era tutta in subbuglio: non m'importava di godere, mi bastava sapere. E il desiderio d'imparare era tanto, che mi suggerì un espediente.
Capii che il solo uomo, col quale avrei potuto parlare di queste cose senza compromettermi, era il confessore. Detto fatto: vincendo quel po' di vergogna che potevo sentire, mi feci bella d'un peccato che non avevo commesso e mi accusai d'aver fatto quel che fanno tutte le donne. Tali le mie testuali parole; ma che cosa intendessi poi di dire, non lo sapevo davvero.
La mia speranza non fu soddisfatta del tutto, ma neppure delusa: la paura di tradirmi m'impedì di chiedere maggiori schiarimenti; ma siccome il buon prete si dava un gran da fare per persuadermi che si trattava d'un peccato gravissimo, ne arguii che il piacere doveva essere immenso, e così la curiosità si cambiò in bramosia di goderlo.
Con un desiderio simile, chi sa dove diamine sarei potuta arrivare, e forse, inesperta com'ero, mi potevo affogare alla prima occasione; se non che, per fortuna, mia madre pochi giorni dopo venne ad annunziarmi che mi dava marito: la certezza che ormai avrei saputo tutto calmò le mie impazienze, e pertanto arrivai vergine tra le braccia del signor di Merteuil. Anzi ero tanto tranquilla, nel momento di sapere ciò che doveva accadere, che mi ci volle una buona dose di riflessione per fingere l'imbarazzo e la paura.
La famosa prima notte, di cui le donne si fanno di solito un'idea troppo dolce o troppo crudele, per me non fu altro che un'occasione d'esperienza, e osservai ogni cosa, dolore e piacere, freddamente, con precisione, come se si trattasse di fatti da raccogliere e da meditare.
Questo genere di studi cominciò presto a piacermi; ma, fedele ai miei principi e sentendo forse per istinto che non dovevo mai essere sincera con nessuno e specialmente con mio marito, mi feci vedere con lui addirittura impassibile, e ciò solo perché ero invece molto portata per quelle faccende. La mia apparente freddezza fu il fondamento incrollabile della sua cieca fiducia; e avendo io preso, a seguito d'una più profonda riflessione, l'aria d'una ragazza sventata, che si addiceva bene alla mia età, egli mi giudicò poi sempre ingenua come una bambina, soprattutto quando gliene facevo di tutti i colori.
Ciò non ostante, lo confesso, mi lasciai trascinare dapprima dal turbine della vita mondana, dedicandomi tutta ai suoi futili divertimenti; ma dopo qualche mese, avendomi Merteuil portata nella sua malinconica campagna, la paura della noia fece rinascere in me la passione d'osservare; e, siccome ero attorniata da persone che per l'umiltà dei natali mi tenevano al coperto da ogni sospetto, potei allargare il campo delle mie esperienze, riuscendo cosi ad assodare che l'amore, che è tanto decantato come la causa dei nostri piaceri, ne è tutt'al più un pretesto.
La malattia di Merteuil venne a interrompere queste mie care occupazioni, e bisognò tornare in città per farlo curare. Morì, come sapete, poco tempo dopo; e, sebbene in fondo non avessi a lamentarmi di lui, sentii tuttavia vivamente il valore della libertà che la mia vedovanza stava per darmi, e mi ripromisi d'approfittarne.
Mia madre immaginava ch'io entrassi in convento o che andassi a convivere con lei; ma io non feci né l'una cosa né l'altra, e tutto quel che potei concedere alle convenienze fu di tornare in campagna, dove mi restava ancora da fare qualche altra osservazione. Qui rafforzai il mio spirito investigativo con la lettura; ma non dovete credere però che i libri fossero tutti del genere che supponete voi. Studiavo gli usi del mondo nei romanzi, le opinioni nelle opere dei filosofi, e leggevo persino i più austeri moralisti per sapere che diamine pretendessero da noi. Seppi cosi tutto ciò che si poteva fare, tutto ciò che si doveva pensare e come bisognava far le viste di essere. Una volta stabiliti questi tre punti, m'accorsi che solo l'ultimo presentava qualche difficoltà nell'esecuzione; e, sperando di vincerla, mi misi a meditare come dovevo fare per riuscirci.
Cominciavo intanto ad annoiarmi di quella mia vita rusticana, troppo monotona per una testa vulcanica come la mia, e sentivo un bisogno di civetteria che mi riconciliava con l'amore; non già che io lo volessi provare, intendiamoci bene: volevo semplicemente ispirarlo agli altri e fingerlo da parte mia... Mi avevano detto e avevo letto che l'amore non si può fingere. Storie! Per riuscirvi, basta avere la fantasia di uno scrittore e l'abilità di un commediante. Io esercitavo appunto tutt'e due queste facoltà con maestria, ma non cercavo gli applausi delle platee: mentre altri le sacrifica alla vanità, io volevo invece servirmene per esser felice.
In queste varie occupazioni passò un anno, e pertanto, trascorso il periodo del lutto, potei tornare in città portando con me i miei vasti piani, senza immaginare menomamente che avrei trovato subito un primo ostacolo.
La lunga solitudine e l'austero ritiro mi avevano fatto affibbiare una fama di santocchieria che spaventava i nostri graziosi vagheggini; e questi dunque si tenevano alla larga, abbandonandomi a un branco di gente noiosa che aspirava alla mia mano. Rifiutarli sarebbe stato una cosa da poco; ma questi rifiuti dispiacevano alla mia famiglia, e io perdevo intanto in guerriglie intestine un tempo che avrei voluto impiegare più piacevolmente. Per attirare a me i corteggiatori e allontanare gli altri, dovetti ricorrere perciò a qualche scappatella, mettendomi in tal modo di proposito a rovinare la buona riputazione che avrei voluto invece conservare. Ci riuscii facilmente, si sa; e poiché nessuna passione mi accecava potei compromettermi solo quel tanto che bastava e non più, misurando con estrema prudenza le dosi della mia scapataggine.
Appena ebbi toccato la mèta che volevo raggiungere, tornai sui miei passi e confessai onorevolmente i miei torti a quelle signore che, non potendo accampar pretese in fatto di grazie e di galanteria, si sono buttate alla virtù. Questo bel gesto mi giovò più che non avessi sperato. Le matrone, riconoscenti, si diedero a tessere la mia apologia a tutto spiano, e il loro cieco zelo per ciò che chiamavano l'opera loro giunse al punto che guai al malcapitato che si fosse permesso la più piccola maldicenza contro di me: subito tutta la bigotteria si levava su in coro a gridare allo scandalo e alla calunnia. Ma il mio atto mi accaparrò anche la simpatia delle signore di mondo, perché, persuase ch'io avessi rinunziato a correre la loro stessa carriera, scelsero me per prodigarmi i loro elogi quando volevano dimostrare che non era poi vero che sparlassero di tutte.
Intanto le mie scappatelle precedenti mi avevano fruttato degli amanti, e per barcamenarmi tra questi e le mie fedeli protettrici mi diedi l'aria d'una donna di profondo sentire, ma un po' sofisticata, a cui un'estrema delicatezza era di scudo contro l'amore. Cominciai allora a sfoggiare nel bel mondo le doti di cui m'ero provvista. Mia prima cura fu di farmi una fama d'invincibile, e, per arrivarci, finsi d'accettare gli omaggi di coloro che non mi piacevano, servendomene per procurarmi gli onori d'una salda resistenza, mentre in segreto mi davo senza paura all'amante preferito. Col pretesto d'una finta timidezza non permisi mai ai miei amanti di seguirmi in società, e perciò gli sguardi di tutti furono sempre e unicamente rivolti al corteggiatore sfortunato.
Voi sapete per esperienza che io, in genere, mi do subito, perché ho notato che sono quasi sempre gli indugi e i preparativi misteriosi a far scoprire i segreti delle donne. Per quanto si faccia, c'è sempre una certa differenza di tono tra il contegno di prima e quello di dopo, che a un osservatore attento non sfugge. Perciò mi è sembrato sempre meno pericolosa una scelta affrettata e magari addirittura sbagliata, che il permettere alla gente di ficcare il naso nei fatti miei. Anzi, con un tal sistema, ci guadagno anche questo: di togliere alla mia avventura ogni carattere di verosimiglianza, mentre è proprio sulla verosimiglianza che di solito si giudicano le nostre azioni.
Queste precauzioni, e quella soprattutto di non scriver mai, di non lasciare dietro di me nessuna prova della mia disfatta, precauzioni che ad altri potrebbero sembrare persino esagerate, a me non sono sembrate invece mai bastanti. Avendo scrutato attentamente il mio cuore, sono riuscita a capire quello degli altri, e ho visto che nessuno ce n'è in cui non sia gelosamente conservato un segreto che non si vorrebbe far conoscere agli altri: gli antichi hanno conosciuto questa verità meglio di noi, e la storia di Sansone ne è forse il simbolo più ingegnoso. Dàlila novella, io mi sono sempre arrabattata come lei a scoprire questo segreto, e sapeste quante capigliature di moderni Sansoni sono alla mercé di una mia sforbiciata! Questi almeno non li temo più; ed ecco perché mi sono presa qualche volta il gusto di umiliarli. Con gli altri, sono sempre stata più compiacente: per non parer leggiera io ai loro occhi, ho cercato con arte sottile di farmeli diventare infedeli, e ho ottenuto la loro discrezione con una finta amicizia, con una apparente fiducia, con qualche gesto generoso, con la lusinghiera illusione che ha ciascuno d'essere stato l'unico mio amante. E quando anche questi espedienti mi sono venuti a mancare, prevedendo la rottura, ho saputo stroncar anticipatamente col ridicolo o con la calunnia il credito che questi uomini pericolosi avrebbero potuto ottenere.
Questo ch'io dico, voi me l'avete visto mettere in pratica almeno mille volte; e con tutto ciò dubitate ancora della mia prudenza? Ebbene, ricordatevi di quando cominciaste a farmi la corte voi: non c'è stato forse omaggio che io gradissi di più, poiché vi desideravo già prima di conoscervi. Allettata dalla vostra fama, mi pareva che senza di voi la mia gloria non potesse esser compiuta, e ardevo dall'impazienza di misurarmi con voi a corpo a corpo. Di tutti i miei capricci, voi siete stato il solo che mi abbia fatto perder le staffe. E tuttavia, se voi aveste voluto rovinarmi, quali prove avreste potuto addurre contro di me? Qualche vana parola, che non lascia traccia e che la vostra stessa reputazione avrebbe del resto resa incredibile, e una serie di fatti poco verosimili che, a raccontarli come sono accaduti, hanno tutta la parvenza d'un romanzo male imbastito. In seguito, è vero, vi ho confidato tutti i miei segreti; ma voi sapete quali e quanti interessi ci uniscono, e che, di noi due, non sono certo io la più imprudente. 
Dal momento che mi sono messa a rendervi conto dei fatti miei, voglio esser precisa. Mi par già di sentirvi dire che io sono però almeno almeno nelle mani della mia cameriera, che, se non sa il segreto dei miei sentimenti, conosce tuttavia quello delle mie azioni. Quando me ne avete parlato un'altra volta, vi ho risposto che ero sicura di lei, e la risposta vi ha tranquillizzato, tanto che voi stesso le avete confidato poi, per conto vostro, segreti gravissimi. Ma, adesso che Prévan vi dà ombra e vi fa perdere la testa, mi viene il dubbio che non mi vogliate più credere sulla parola, e voglio edificarvi un po'.
Vi dirò dunque che, anzitutto, questa ragazza è mia sorella di latte, un legame che a noi sembra una cosa da niente, ma per gente della sua fatta è invece una parentela molto stretta. Non basta: io so tutti i suoi segreti, e qualche cosa magari più d'un segreto, perché la poveretta, caduta in preda a un amore furente, sarebbe finita assai male se io non l'avessi salvata: figuratevi che i suoi genitori, intrattabili sul punto d'onore, volevano farla rinchiudere, e s'erano rivolti a me perché li aiutassi! Io, che vidi subito quanto la loro collera mi poteva giovare, finsi di assecondarli e sollecitai l'ordine di clausura, che infatti ottenni. Allora, passando di punto in bianco alla clemenza, persuasi anche i genitori a essere indulgenti, e, avvalendomi del mio ascendente presso il vecchio ministro, li feci tutti acconsentire a depositare nelle mie mani l'ordine , e a lasciarmi arbitra di farlo o non farlo eseguire, secondo che avessi giudicato opportuno dalla futura condotta della ragazza. Ella sa dunque che io ho in mano la sua sorte; e, quand'anche questo (ma non è possibile) non bastasse ancora a trattenerla, è evidente che le sue parole non sarebbero credute, una volta che si sapesse chi è e che cosa ha fatto e la giusta punizione che verrebbe ad avere per la sua colpa.
A tali precauzioni, ch'io giudico fondamentali, ne vanno aggiunte altre mille, locali e occasionali, che la riflessione e l'abitudine mi suggeriscono ogni volta che se ne presenta il bisogno: sarebbe troppo lungo scendere qui a particolari, ma voglio che sappiate che metterle in pratica è per me cosa di somma importanza, e, se volete sapere quali siano, dovete studiare davvicino tutto il complesso dei miei atti e del mio contegno.
Ma pretendere che io mi sia data tanto da fare per non saperne cavare poi nessun costrutto; che, dopo essermi sollevata a furia di penose fatiche al di sopra della mediocrità, io voglia adattarmi a strisciare terra terra come le altre donne, traccheggiando tra l'imprudenza e la timidezza; che soprattutto io possa temer tanto un uomo da vedere la mia salvezza solo nella fuga, ah, caro visconte, no, questo non può essere né sarà mai! O vincere o morire.
Quanto a Prévan, io voglio averlo, e l'avrò; egli vorrebbe andarlo a raccontare, e non lo racconterà: ecco, in due parole, tutto il mio nuovo romanzo. Addio.

Parigi, 20 settembre 17..