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Lenz - Georg Büchner


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lunedì 18 novembre 2002 legge Maria Cristina Gottardis
Georg Büchner (1813 – 1837) è l'autore del Woyzeck, la famosa tragedia della psicosi, cento anni prima di Freud.
Ricostruisce con il Danton il tormento della Rivoluzione fallita.
A sedici anni incendia l'Assia, distribuendo volantini rivoluzionari che denunciano lo sfruttamento dei servi della gleba, e che affermano i diritti dell'uomo (proprio come farà il giovane Marx).
Muore a 23 anni, quando è già docente di Anatomia Comparata all'Università di Zurigo.
E' affascinato dalla follia, dall'alienazione e dalla poesia che poi verrà detta romantica.
Quella di Lenz (l'amico-nemico di Goethe) è il suo ultimo grande studio frammentario sulla schizofrenia.



Testi:

Georg Büchner, Lenz

L'inizio

Den 20. [Januar] ging Lenz durch's Gebirg. Die Gipfel und hohen Bergflächen im Schnee, die Täler hinunter graues Gestein, grüne Flächen, Felsen und Tannen. Es war naßkalt, das Wasser rieselte die Felsen hinunter und sprang über den Weg. Die Äste der Tannen hingen schwer herab in die feuchte Luft. Am Himmel zogen graue Wolken, aber Alles so dicht, und dann dampfte der Nebel herauf und strich schwer und feucht durch das Gesträuch, so träg, so plump. Er ging gleichgültig weiter, es lag ihm nichts am Weg, bald auf- bald abwärts. Müdigkeit spürte er keine, nur war es ihm manchmal unangenehm, daß er nicht auf dem Kopf gehn konnte. Anfangs drängte es ihm in der Brust, wenn das Gestein so wegsprang, der graue Wald sich unter ihm schüttelte, und der Nebel die Formen bald verschlang, bald die gewaltigen Glieder halb enthüllte; es drängte in ihm, er suchte nach etwas, wie nach verlornen Träumen, aber er fand nichts. Es war ihm alles so klein, so nahe, so naß, er hätte die Erde hinter den Ofen setzen mögen, er begriff nicht, daß er so viel Zeit brauchte, um einen Abhang hinunter zu klimmen, einen fernen Punkt zu erreichen; er meinte, er müsse Alles mit ein Paar Schritten ausmessen können. Nur manchmal, wenn der Sturm das Gewölk in die Täler warf, und es den Wald herauf dampfte, und die Stimmen an den Felsen wach wurden, bald wie fern verhallende Donner, und dann gewaltig heran brausten, in Tönen, als wollten sie in ihrem wilden Jubel die Erde besingen, und die Wolken wie wilde wiehernde Rosse heransprengten, und der Sonnenschein dazwischen durchging und kam und sein blitzendes Schwert an den Schneeflächen zog, so daß ein helles, blendendes Licht über die Gipfel in die Täler schnitt; oder wenn der Sturm das Gewölk abwärts trieb und einen lichtblauen See hineinriß, und dann der Wind verhallte und tief unten aus den Schluchten, aus den Wipfeln der Tannen wie ein Wiegenlied und Glockengeläute heraufsummte, und am tiefen Blau ein leises Rot hinaufklomm, und kleine Wölkchen auf silbernen Flügeln durchzogen und alle Berggipfel scharf und fest, weit über das Land hin glänzten und blitzten, riß es ihm in der Brust, er stand, keuchend, den Leib vorwärts gebogen, Augen und Mund weit offen, er meinte, er müsse den Sturm in sich ziehen, Alles in sich fassen, er dehnte sich aus und lag über der Erde, er wühlte sich in das All hinein, es war eine Lust, die ihm wehe tat; oder er stand still und legte das Haupt in's Moos und schloß die Augen halb, und dann zog es weit von ihm, die Erde wich unter ihm, sie wurde klein wie ein wandelnder Stern und tauchte sich in einen brausenden Strom, der seine klare Flut unter ihm zog. Aber es waren nur Augenblicke, und dann erhob er sich nüchtern, fest, ruhig als wäre ein Schattenspiel vor ihm vorübergezogen, er wußte von nichts mehr. (pp. 10-12)

L'inizio

Il 20 [gennaio] Lenz traversò la montagna. Le cime e gli alti pianori coperti di neve, giù per le valli pietra grigia, distese verdi, rocce e abeti. Era freddo e umido; l'acqua grondava giù per le rupi e balzava al di là del sentiero. I rami degli abeti pendevano pesanti nell'aria bagnata. Nel cielo passavano nubi grigie, ma tutto così denso, e poi fumigava la nebbia e trascorreva umida e pesante fra gli arbusti, tanto pigra, tanto greve. Lui procedeva indifferente, non gli importava nulla del cammino, ora su, ora giù. Stanchezza non ne sentiva, solo gli rincresceva talvolta di non poter camminare sulla propria testa. Da principio sentiva qualcosa urgergli in petto quando il pietrisco gli schizzava via a quel modo, il bosco grigio fremeva sotto di lui e la nebbia ora divorava le forme, ora ne scopriva a metà le membra possenti; urgeva in lui qualcosa, cercava qualcosa come sogni perduti, ma nulla trovava. Gli era tutto così piccolo, così vicino, così bagnato, avrebbe voluto mettere la terra dietro la stura, non comprendeva perché gli occorresse tanto tempo per discendere un pendio, raggiungere un punto lontano; pensava di dover misurare tutto con qualche passo. Solo talvolta, quando la tempesta precipitava le nubi nelle valli, e il bosco ne fumigava, e le voci delle rocce si destavano, rumoreggiando ora come tuoni morenti lontano ora poderose, con suoni tali come se volessero cantare la terra nel loro giubilo selvaggio, e le nubi galoppavano come nitrenti cavalli selvaggi, e il sole vi penetrava in mezzo folgorando con la sua spada i campi di neve, cosi che una luce chiara, accecante, faceva come un taglio dalle vette fin giù nelle valli; o quando la tempesta scostava le nubi e vi stagliava dentro un lago azzurro di luce, e poi il vento perdeva forza e giù in fondo, dalle gole e dalle cime degli abeti, saliva mormorando come una ninnananna e un suonar di campane, e nel profondo azzurro sorgeva un tenue rosso bagliore, e piccole nubi passavano su ali d'argento, e tutte le vette, nitide e ferme, scintillavano illuminando tutt'in torno il paesaggio - allora qualcosa gli lancinava dentro, e lui rimaneva là, ansante, il corpo piegato in avanti, occhi e bocca spalancati, gli sembrava di dover trarre entro di sé la tempesta in un respiro, tutto comprendere entro di sé; si stendeva e giaceva sopra la terra, si sprofondava nel tutto, ed era un godimento che gli faceva male; oppure rimaneva silenzioso, poggiava il capo nel muschio e socchiudeva gli occhi, e allora tutto fuggiva lontano da lui, la terra cedeva sotto di lui, diventava piccola come una stella errante e s'immergeva in un crosciante torrente che scorreva con il suo flutto chiaro sotto di lui. Ma erano solo attimi, e poi si rialzava lucido, risoluto, tranquillo, come se gli fosse trascorso innanzi un gioco d'ombre - non ricordava più nulla. (pp. 11-13)

[di continuo]
Verso sera giunse sull'altura, sul campo di neve donde si tornava a discendere al piano verso occidente, si sedette. Con la sera era subentrata un po' di calma; le nubi ristavano ferme e compatte nel cielo, fin dove arrivava lo sguardo nient'altro che cime da cui discendevano ampi pianori, e tutto così silenzioso, grigio, crepuscolare; l'assalì un senso spaventoso di solitudine, era solo, completamente solo, voleva parlare con se stesso, ma non ne fu capace, osava appena respirare, il flettersi del piede risonava come un tuono sotto di lui, dovette sedersi; in questo nulla lo afferrò una paura indicibile, era nel vuoto, balzò in piedi e volò giù per il pendio. S'era fatto buio, cielo e terra si fusero in uno. Era come se qualcosa lo seguisse e come se qualcosa d'orribile lo dovesse raggiungere, qualcosa che gli uomini non possono tollerare, come se dietro di lui la follia cavalcasse sfrenata i suoi desideri. Finalmente udì voci, vide luci, tutto gli fu più facile, gli dissero che per Waldbach aveva ancora una mezz'ora. Traversò il villaggio, le luci brilavano dalle finestre, nel passare guardava dentro: bambini a tavola, vecchie, ragazze, tutti visi tranquilli, silenziosi, gli sembrava che la luce dovesse irraggiarsi da quei volti, si sentì leggero, presto fu a Waldbach, nella parocchia. Sedevano atavola, quand'entrò; i riccioli biondi gli pendevano intorno al pallido viso, un fremito era nei suoi occhi e intorno alla bocca, le sue vesti erano strappate. Oberlin gli diede il benvenuto, l'aveva preso per un operaio. "Sia il benvenuto, anche se non la conosco". "Sono un amico di Kaufmann e le porto i suoi saluti". "Il suo nome, se non le spiace?" "Lenz". "Oh, oh, oh, non è forse stampato? Non ho letto alcuni drammi attribuiti a un signore di questo nome?" "Sì, ma la prego di non giudicarmi da essi". Si continuò a parlare, egli cercava le parole e raccontava rapido, ma come alla tortura; a poco a poco si calmò, la sua camera era accogliente e tranquilli i volti che sorgevano dall'ombra; il chiaro viso infantile su cui pareva riposare ogni luce guardava curioso e fiducioso alla madre che, dietro, sedeva in silenzio nell'ombra, simile a un angelo. Cominciò a raccontare della sua terra; disegnava ogni sorta di costumi, e gli altri si stringevano attorno a lui con partecipazione, si sentì subito come in casa propria. Il suo pallido viso di bimbo, che ora sorrideva, il suo vivo raccontare! Fu più tranquillo, era come se dall'oscurità affiorassero antiche figure, volti dimenticati, come se vecchie canzoni si ridestassero, era lontano, tanto lontano. E infine venne il momento d'andare, lo accompagnarono al di là della strada, la casa del parroco era troppo piccola, gli diedero una stanza dell'edificio della scuola. Salì. Era freddo lassù, una camera ampia, vuota, un alto letto nel fondo, accese il lume sul tavolo e camminò in su e in giù, si risovvenne del giorno trascorso, di com'era giunto fin là, di dov'era: la stanza nella casa del parroco, con le sue luci e i cari volti, gli pareva un'ombra, un sogno, ed egli sentì il vuoto, ancora, come sulla montagna, ma non lo poteva più riempire con nulla, il lume era spento, le tenebre divoravano tutto; un'angoscia indicibile l'afferrò, e balzò in piedi, traversò di corsa la camera, giù per la scala, dinanzi alla casa; ma invano, tutto buio, nulla – egli era un sogno a se stesso. Pensieri isolati sorsero subitamente, li trattenne; gli sembrava di dovere ripetere sempre: "Padre nostro"; Non riusciva più a trovarsi, un oscuro istinto lo spingeva a salvarsi; urtava contro le pietre, si lacerava con le unghie, il dolore cominciò a ridargli coscienza, si gettò nella vasca della fontana, ma l'acqua non era profonda e fece rumore. Allora venne gente: avevano sentito, gli gridavano qualcosa. Oberlin arrivò di corsa; Lenz era tornato in sé, era pienamente consapevole della sua condizione, tutto gli fu di nuovo facile, adesso si vergognava ed era turbato per aver fatto paura a quella brava gente, disse loro ch'era abituato a far bagni freddi, e ritornò su; la spossatezza finalmente lo fece dormire. (pp. 13-19)


Friederike
Unterdessen ging es fort mit seinen religiösen Quälereien. Je leerer, je kälter, je sterbender er sich innerlich fühlte, desto mehr drängte es ihn, eine Glut in sich zu wecken, es kamen ihm Erinnerungen an die Zeiten, wo Alles in ihm sich drängte, wo er unter all' seinen Empfindungen keuchte; und jetzt so tot. verzweifelte an sich selbst, dann warf er sich nieder, er rang die Hände, er rührte Alles in sich auf; aber tot! tot! Dann flehete er, Gott möge ein Zeichen an ihm tun, dann wühlte er in sich, fastete, lag träumend am Boden. Am dritten Hornung hörte er, ein Kind in Fouday sei gestorben, [das Friederike hieß,] er faßte es auf, wie eine fixe Idee. Er zog sich in sein Zimmer und fastete einen Tag. Am vierten trat er plötzlich in's Zimmer zu Madame Oberlin, er hatte sich das Gesicht mit Asche beschmiert, und forderte einen alten Sack; sie erschrak, man gab ihm, was er verlangte. Er wickelte den Sack um sich, wie ein Bußender, und schlug den Weg nach Fouday ein. Die Leute im Tale waren ihn schon gewohnt; man erzählte sich allerlei Seltsames von ihm. Er kam in's Haus, wo das Kind lag. Die Luete gingen gleichgültig ihrem Geschäfte nach; man wies ihm eine Kammer, das Kind lag im Hemde auf Stroh, auf einem Holztisch.
Lenz schauderte, wie er die kalten Glieder berührte und die halbgeöffneten gläsernen Augen sah. Das Kind kam ihm so verlassen vor, und er sich so allein und einsam ; er warf sich über die Leiche nieder; der Tod erschreckte ihn, ein heftiger Schmerz faßte ihn an, diese Züge, dieses stille Gesicht sollte verwesen, er warf sich nieder, er betete mit allem Jammer der Verzweiflung, wie er schwach und unglücklich sei, daß Gott ein Zeichen an ihm tue, und das Kind beleben möge; dann sank er ganz in sich und wühlte all seinen Willen auf einen Punkt, so saß er lange starr. Dann erhob er sich und faßte die Hände des Kindes und sprach laut un fest: Stehe auf und wandle! Aber die Wände hallten ihm nüchtern den Ton nach, daß es zu spotten schien, und die Leiche blieb kalt. Da stürzte er halb wahnsinnig nieder, dann jagte es ihn auf, hinaus in's Gebirg. Wolken zogen rasch über den Mond; bald Alles im Finstern, bald zeigten sie die nebelhaft verschwindende Landschaft im Mondschein. Er rannte auf und ab. In seiner Brust war ein Triumph-Gesang der Hölle. Der Wind klang wie ein Titanenlied, es war ihm, als könne er eine ungeheure Faust hinauf in den Himmel ballen und Gott herbei reißen und zwischen seinen Wolken schleifen; als könnte er die Welt mit den Zähnen zermalmen und sie dem Schöpfer in's Gesicht speien; er schwur, er lästerte. So kam er auf die Höhe des Gebirges, und das ungewisse Licht dehnte sich hinunter, wo die weißen Steinmassen, und der Himmel war ein dummes blaues Aug, und der Mond stand ganz lächerlich drin, einfältig. Lenz mußte laut lachen, und mit dem Lachen griff der Atheismus in ihn und faßte ihn ganz sicher und ruhig un fest. Er wußste nicht mehr, was ihn vorhin so bewegt hatte, es fror ihn, er dachte, er wolle jetzt zu Bette gehn, und er ging kalt und unerschütterlich durch das unheimliche Dunkel – es war ihm Alles leer und hohl, er mußte laufen und ging zu Bette.
Am folgenden Tag befiel ihn ein großes Grauen vor seinem gestrigen Zustande, er stand nun am Abgrund, wo eine wahnsinnige Lust ihn trieb, immer wieder hineinzuschauen, und sich diese Qual zu wiederholen. Dann steigerte sich seine Angst, die Sünde wider den heiligen Geist stand vor ihm. (pp. 54-58)


Friederike
Intanto continuavano le sue tribolazioni religiose. Quanto più vuoto, più freddo, più languente egli si sentiva, tanto più forte era la spinta a risvegliare in sé una fiamma; gli tornavano i ricordi dei tempi in cui tutto in lui urgeva, quand'egli ansimava sotto il peso di tutte le sue sensazioni; e adesso era così morto. Disperava di se stesso, e allora si gettava in ginocchio, si torceva le mani, sommoveva tutto dentro di sé; ma morto era! morto! Implorava allora che Dio gli desse un segno, e si macerava, digiunava, giaceva trasognato per terra. Il 3 febbraio sentì dire che a Fouday era morta una bambina [che si chiamava Friederike]; fu per lui come un'idea fissa. Si ritirò nella sua stanza e digiunò un giorno. Il 4 entrò improvvisamente in sala, da Madame Oberlin; s'era cosparso il viso di cenere, e chiese un vecchio sacco; lei si spaventò; gli fu dato quel che voleva. Lui s'avvolse nel sacco, come un penitente, e si mise in cammino per Fouday. La gente della valle era ormai abituata a lui; raccontavano di lui ogni sorta di cose strane. Arrivò nella casa dov'era la bambina. Le persone badavano, indifferenti, alle loro occupazioni; gli indicarono una stanza: la bambina, in camicia, giaceva sulla paglia, sopra un tavolo di legno.
Lenz rabbrividì appena toccò le membra fredde e vide gli occhi vitrei semiaperti. La bimba gli apparve tanto abbandonata, ed egli stesso cosi solo, e solitario; si prostrò sul cadavere; la morte lo spaventò, un dolore violento lo prese: questi tratti, questo viso immobile dovevano dunque decomporsi, si prostrò e pregò con tutta la violenza della disperazione, poiché era così debole e infelice, che Dio gli desse un segno e rianimasse la bambina; poi sprofondò completamente in se stesso, concentrando tutta la sua volontà su un punto solo, e a lungo rimase così, rigido. Poi si levò e afferrò le mani della bimba e parlò forte e deciso: "Sorgi e cammina!". Ma le pareti gli rimandarono secche la voce, quasi irridessero, e il cadavere rimase freddo. Allora si buttò a terra quasi folle; poi si precipitò fuori, come inseguito, su per la montagna. Nuvole trascorrevano veloci sopra la luna; ora tutto tenebre, ora lasciavano vedere al chiaror della luna il paesaggio che sfumava nella nebbia. Lui correva qua e là. Nel suo petto era il canto trionfale dell'inferno. Il vento risonava come una canzone di titani, gli pareva di poter serrare un pugno enorme contro il ciclo e tirare giù Dio e trascinarlo fra le sue nubi; di poter stritolare il mondo con i denti e sputarlo in faccia al creatore; imprecava, bestemmiava. Così giunse alla cima della montagna, e l'incerta luce si stendeva laggiù dov'erano le bianche masse di pietra, e il cielo era uno stupido occhio azzurro, e la luna ci stava dentro, quanto mai ridicola e sciocca. Lenz dovette ridere forte, e col riso l'afferrò l'ateismo, e lo tenne saldo, sicuro, calmo. Non sapeva più che cosa prima l'avesse tanto commosso; rabbrividì, pensò che adesso voleva andare a letto, e proseguì, freddo e impassibile nell'infida oscurità - tutto gli era vuoto e vacuo, dovette correre, e andò a letto.
Il giorno seguente lo colse un grande orrore per il suo stato del giorno prima; ora si trovava sul ciglio dell'abisso dove una voglia folle lo spingeva a guardar dentro continuamente, e a rinnovare a se stesso quel tormento. Poi la sua angoscia crebbe, il peccato contro lo Spirito santo era davanti a lui. (pp. 55-59)

[di continuo]
Alcuni giorni dopo Oberlin tornò dalla Svizzera, molto prima di quanto lo aspettassero. Lenz ne fu sorpreso. Ma si rasserenò quando Oberlin gli raccontò dei suoi amici in Alsazia. Intanto Oberlin andava avanti e indietro nella stanza, disfaceva i bagagli, riponeva le sue cose. E raccontava di Pfeffel, dicendo felice la vita di un pastore di campagna. E lo esortava a conformarsi al desiderio di suo padre, a vivere secondo la sua professione, a tornare a casa. Gli disse: "Onora il padre e la madre" e altre cose del genere. Questo discorso mise Lenz in grande agitazione; tirò profondi sospiri, dagli occhi gli spuntarono le lacrime, parlò con voce rotta. "Sì, ma io non ci resisto; mi vuole cacciar via? Solo in lei è il cammino verso Dio. Altrimenti è finita per me! Sono rovinato, dannato per l'eternità, sono l'ebreo errante". Oberlin gli disse che per questo Gesù era morto; doveva rivolgersi a lui con fervore e avrebbe partecipato della sua grazia.
Lenz levò il capo, si torse le mani e disse: "Oh! oh! la consolazione divina". E poi improvvisamente con voce cordiale domandò che cosa facesse la signorina. Oberlin disse che non ne sapeva niente, ma che voleva aiutarlo e consigliarlo in ogni cosa; aveva solo da fargli sapere luogo, circostanze e persona. Non rispose che frasi mozze: "Ah, è morta! Vive ancora? Angelo mio! Mi amava - io l'amavo, lo meritava. Angelo mio! Maledetta gelosia, io l'ho sacrificata. - Lei amava anche un altro - io l'amavo, lo meritava - o cara mamma, anche lei mi amava. - Io sono un assassino!" Oberlin obiettò che forse quelle persone vivevano ancora, forse erano felici; e che comunque Dio, s'egli si fosse rivolto a lui, poteva concedere e avrebbe concesso a quelle persone, in grazia delle sue preghiere e delle sue lacrime, tanto bene che il guadagno ch'esse poi ne avrebbero avuto sarebbe forse stato assai superiore al danno ch'egli aveva loro recato. Al che, egli a poco a poco si calmò e riprese a dipingere. […] (pp. 59-61)


Tutto a causa dell'ozio
Il mattino seguente Lenz tardava a venire. Alla fine Oberlin salì in camera sua: era a letto, tranquillo e immobile. Oberlin dovette parlare a lungo prima di ottenere risposta; finalmente egli disse: "Sì, signor parroco, lo vede, la noia! la noia! uh, che noia! Proprio non so più cosa dire, già ho disegnato ogni sorta di figure sulla parete!" Oberlin gli disse di rivolgersi a Dio; allora lui rise e disse: "Già, se io avessi la fortuna che ha lei, di trovare un passatempo così piacevole, eh sì, allora si potrebbe occupare il proprio tempo. Tutto a causa dell'ozio. Infatti quasi tutti pregano per noia; altri s'innamorano per noia, altri ancora sono virtuosi, altri ancora sono viziosi, e io un bel niente, niente, non ho nemmeno voglia di ammazzarmi: troppo noioso:
"O Dio, nell'onda della Tua luce nel chiarore del Tuo meriggio ardente aperti ho gli occhi come una ferita. Non tornerà la notte dunque mai?"
Oberlin gli gettò uno sguardo corrucciato e voleva andarsene. Lenz lo seguì rapido e guardandolo con occhi sinistri: "Vede, adesso mi viene in mente una cosa, potessi almeno distinguere se sogno o sono sveglio: vede, è molto importante, bisogna pensarci su". E rapido si lasciò scivolare di nuovo nel letto. Il pomeriggio Oberlin voleva fare una visita nelle vicinanze; sua moglie era già uscita; stava per andarsene quando bussarono alla porta, e Lenz entrò col corpo piegato in avanti, la testa ciondolante, tutto il viso e qua e là le vesti cosparsi di cenere, tenendosi con la destra il braccio sinistro. Pregò Oberlin di tirargli il braccio, se l'era slogato, s'era buttato giù dalla finestra; ma poiché non l'aveva visto nessuno, voleva anche che nessuno lo sapesse. Oberlin si spaventò molto, ma non disse niente; fece quel che Lenz gli aveva chiesto. Nello stesso tempo scrisse al maestro di scuola [Sebastian Scheidecker] di Bellefosse di venir giù, e gli diede istruzioni. Poi montò a cavallo e partì. L'uomo venne. Lenz lo aveva già visto spesso e gli s'era affezionato. Quegli fece come se avesse dovuto dire qualcosa a Oberlin e volesse ritornarsene via. Lenz lo pregò di rimanere e così rimasero insieme. Lenz propose una passeggiata fino a Fouday. Visitò la tomba della bambina che aveva voluto resuscitare, s'inginocchiò a più riprese, baciò la terra della tomba, sembrava che pregasse, ma con grande turbamento, strappò qualcosa come ricordo dalla corona posta sulla tomba, si diresse verso Waldbach, ritornò sui suoi passi, e Sebastian con lui. Prima camminò lentamente, lamentandosi della gran debolezza che sentiva nelle membra, poi procedette con disperante celerità, il paesaggio gli faceva paura, era così angusto ch'egli temeva di sbattere contro tutto. Lo assalì un senso indescrivibile di disagio, alla fine il suo accompagnatore gli era diventato molesto - poteva anche aver indovinato la sua intenzione - e cercava ogni mezzo per allontanarlo. Sebastian pareva assecondarlo, ma in segreto trovò il modo per avvertire del pericolo suo fratello, e così Lenz adesso aveva due guardiani anziché uno. (pp. 63-67) […]

Il finale (?)
Era seduto nella carrozza con fredda rassegnazione mentre risalivano la valle verso occidente. Non gli importava dove lo conducessero; più volte, quando la carrozza si trovò in pericolo per la strada cattiva, egli rimase a sedere perfettamente tranquillo; era del tutto indifferente. In questo stato fece tutta la strada attraverso la montagna. Verso sera erano nella valle del Reno. Si allontanavano a poco a poco dai monti, che ora si levavano nel tramonto come un'onda turchina di cristallo sul cui caldo fluire giocavano i raggi rossi della sera; sopra la pianura, ai piedi della montagna, si stendeva una trama scintillante, azzurrognola. Diveniva buio quanto più si avvicinavano a Strasburgo; in alto la luna piena, oscuri tutti gli oggetti lontani, solo il monte vicino disegnava una linea netta, la terra era come una coppa d'oro sopra la quale correvano spumeggiando le onde dorate della luna. Lenz guardava fuori fisso, calmo, nessun presagio, nessun impulso; solo una cupa angoscia cresceva in lui quanto più gli oggetti si perdevano nell'oscurità. Dovettero sostare; allora fece di nuovo qualche tentativo di togliersi la vita, ma era troppo attentamente sorvegliato. Il mattino seguente, con un tempo fosco e piovoso, arrivò a Strasburgo. Pareva del tutto ragionevole, parlò con la gente; faceva tutto come facevano gli altri, ma c'era un vuoto orribile in lui, non sentiva più alcuna paura, alcun desiderio; la sua esistenza gli era un peso necessario. - - Così continuò a vivere. (pp. 79-81 fine)



Notizia su Büchner

Georg Büchner (1813 – 1837). è l'autore del Woyzeck, la famosa tragedia della psicosi, cento anni prima di Freud. Ricostruisce con il Danton il tormento della Rivoluzione fallita. A sedici anni incendia l'Assia, distribuendo volantini rivoluzionari che denunciano lo sfruttamento dei servi della gleba, e che affermano i diritti dell'uomo (proprio come farà il giovane Marx). Muore a 23 anni, quando è già docente di Anatomia Comparata all'Università di Zurigo. E' affascinato dalla follia, dall'alienazione e dalla poesia che poi verrà detta romantica. Quella di Lenz (l'amico-nemico di Goethe) è il suo ultimo grande studio frammentario sulla schizofrenia.


Notizia su Lenz

Jakob Michael Reinhold Lenz, figlio di un pastore luterano, nacque nel 1751 a Sesswegen, in Livonia, e trascorse l'infanzia a Dorpat (Tartu), in Estonia. Interrotti gli studi di teologia a Königsberg, dove aveva seguito i corsi di Kant, partì nel 1771 per Strasburgo nella veste di mentore di due nobili fratelli, i baroni von Kleist, dove iniziò il periodo più attivo e fecondo della sua vita. Fece amicizia con Goethe, tradusse da Plauto e da Shakespeare, scrisse le commedie Il precettore, II nuovo Menoza, I soldati, diventò una delle figure più rappresentative dello "Sturm und Drang". Nella vicina Sesenheim corteggiò Friederike Brion, la ragazza che Goethe aveva lasciato nel fare ritorno a Francoforte, e a lei dedicò alcune poesie. Da Strasburgo riparti nel 1776 affidandosi all'aiuto di amici, con i quali peraltro venne in urto, soprattutto per ragioni di donne. Anche un soggiorno a Weimar si concluse con una cacciata dopo uno scontro con Goethe. Inviso alla buona società, assillato dai creditori, si diede a vagabondare tra la Svizzera (per un breve periodo fu ospite di Lavater a Zurigo) e l'Alsazia. Nel 1778, dopo aver attraversato a piedi i Vosgi, soggiornò dal 20 gennaio all'8 febbraio nello Steintal (oggi Le Ban de la Roche, nel dipartimento del Basso Reno) presso il pastore Johann Friedrich Oberlin. Questi lasciò nel suo diario il resoconto di quelle giornate, annotando gli accessi ai quali Lenz andava soggetto e i suoi tentativi di suicidio. L'anno successivo segnò per Lenz il ritorno sul Baltico, che però non mise fine alle peregrinazioni e alle crisi: chiamato a Riga da un fratello minore, Lenz visse i suoi ultimi anni nell'impero russo, passando dall'una all'altra casa di amici, tra Riga, San Pietroburgo e Mosca - di fallimento in fallimento, in condizioni sempre più misere - finché il 4 giugno 1792 fu trovato morto in una strada di Mosca. Il luogo della sepoltura è rimasto ignoto.

Bibliografia

· K. Voss, G. Buechners “Lenz”. Eine Untersuchung nach Gehalt und Formgebung. Diss. Bonn 1922
· H.Pongs, Buechners”Lenz” (in DuV, 36, 1935,S. 241 – 253;ern. in H.Pongs, Das Bild in der Dichtung, Bd. 2,Marburg 1939, S. 254 – 265; ern. 1963).
· K. Vietor, “Lenz. Erzaehlung von G.Buechner (in GRM, 25, 1937, S. 2 –15; ern. in G.Buechner, H.G.W. Martens, Darmstadt 1965, S. 178 – 196).-
· H. Mayer. G. Buechner und seine Zeit, Wiesbaden 1946, S. 255 – 272; ern. 1960.
· K. Vietor, G. Buechner Politik, Dichtung, Wissenschaft, Bern 1949, S. 159 – 173.
· H. Oppel, Die tragische Dichtung G. Buechners, Stg. 1951, S. 24 – 36.
· Schoene, Interpretationen zur dichterischen Gestaltung des Wahnsinns in der deutschen Literatue,Diss. Muenster 1953, S. 28 – 58.
· H. Thiele, G. Buechners “ Lenz” als spachliches Kunstwerk ( in DerDeutschunterricht, 8, 1956, H. 3, S. 59 – 70 ).
· G. Baumann, G. Buener “ Lenz” , Seine Struktur und der Reflex des Dramatischen ( in Euph, 52 , 1958, S. 153 – 173 ).
· von Wiese, G. Buechner “Lenz” ( in B.V., Die deutsche Novelle , Bd. 2, Duesseldorf 1962, S. 104 126).
· H. P. Puetz, Buechners “ Lenz” und seine Quelle, Bericht und Erzaehlung ( in ZfdPh, 84, 165, S. 1 – 22 ; Sonderheft).