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Sirena di Barbara Garlaschelli



lunedì 12 maggio 2008 leggono Annalisa Brunelli e Giovanna Di Pasquale   
Pubblicato una prima volta nel 2000 da Moby Dick (Faenza),  questa nuova edizione di Sirena  ripropone la storia dell'autrice Barbara Garlaschelli che, con ironia e partecipazione, ripercorre i due anni successivi all'incidente che le ha procurato lesioni cerebrali.
"Sirena nasce racconto personale, in forma scritta, a un amico di ciò che mi era successo. Solo dopo alcune pagine, mi sono resa conto che poteva essere un lavoro pubblicabile. Ho impiegato vent’anni a elaborare questa storia. Vent’anni per trovare la voce con la quale raccontare i dieci mesi che hanno cambiato la mia vita. Sono sicura che se non fossi stata una scrittrice non sarei mai riuscita a raccontarlo così, con quell’ironia, il distacco e lo stile che caratterizzano Sirena. Come disse Bukowsky: ‘Per scrivere non basta il dolore, ci vuole uno scrittore’. Scrivere è la mia vita, il mio lavoro, il mio modo di essere nel mondo, di partecipare, di esprimermi. Di creare. Lo stile di Sirena mi assomiglia: rapido, conciso, ironico, spesso anche struggente. La provocazione non è nello stile, è nella storia, è in ciò che si è”.
La lettura è proposta dal Centro Documentazione Handicap di Bologna, che da anni riserva particolare attenzione ai racconti e alle testimonianze di persone disabili e loro familiari.


Barbara Garlaschelli, Sirena (mezzo pesante in movimento)
Editore TEA, Milano 2007

Il viaggio più lungo della tua vita. L’ambulanza va piano.
“Cercano di non prendere scossoni perché sei una quinta C” ti dice Franco. Lui è medico, perciò puoi chiederglielo.
“Quinta vertebra cervicale” risponde e poi fa scivolare gli occhi lontano.
Vertebra cervicale? Ah, le abbiamo anche noi, non solo gli scheletri finti delle aule di scienza?
Non riesci a mettere insieme pensieri ma solo immagini che flirtano tra di loro come fidanzatini e poi svaniscono. La cosa più tremenda è il bruciore che sento in tutto il corpo. Cerchi di muoverti. Madonna! Che ci vuole a muovere un braccio – il collo te lo hanno immobilizzato in un collarino – o un piede? Li muovevi fino a poche ore fa. Insomma, muoversi è la cosa più naturale del mondo! Tutti si muovono. Forse poi passa. C’è una voce, però, dentro di te, in un angolo remoto, che da un po’ ti sta ripetendo “No”. No, che? Non vuoi indagare. Ti concentri sul dolore che piano piano dilaga sul corpo. Meglio che ascoltare quella voce. “No”.
(…)
L’unica cosa che riesci a muovere sono gli occhi  e li muovi in continuazione. Si bevono tutto ciò che vedono: sopra, il grigio dei soffitti – sempre loro! Che poi dovrebbero essere bianchi…- a destra i finestroni, a sinistra un muro, davanti armadietti di ferro e un pezzo di parte divisoria. Proietti lì le tue immagini, le hai tutte nella testa. Continui a tornare al giorno dell’incidente. C’è qualcosa di demenziale nella banalità di ciò che ti è successo: cioè, una entra in acqua, si butta per non sentire freddo e si schianta contro una pietra, magari un grossa, ma sempre pietra, e succede tutto sto’ casino?
Sembra trascorso un secolo, invece sono solo pochi giorni. Ti arrivano lettere, scatole di cioccolatini, profumi. Devi stare attenta quando esprimi un desiderio, perché è come avere a disposizione il genio della lampada. “vorrei dei cioccolatini” e te ne arrivano decine di pacchi formato famiglia di tutti i tipi di dolciumi. Alla fine della degenza saresti in grado di aprire uno spaccio e campare dignitosamente per almeno dieci anni. Poi ti viene un pensiero terrificante: se continui a fare schizzare così gli occhi, avanti e indietro, diventerai strabica. Paralizzata e strabica. O madonna…
(…)
Fa caldo, ma cominciano i primi temporali d’agosto. Senti i tuoni e vedi i lampi al di là dei finestroni. Lo scroscio della pioggia su questa città vuota per l’esodo vacanziero è struggente. Immagini di essere sotto la pioggia, dentro il mare, a braccia spalancate, come piace a te. Ti sembra di sentirla che picchietta sul viso, scivola lungo il collo, segue le curve del seno e sparisce nel mare, goccia tra le gocce.
Apri gli occhi.
Soffitti.
(…)
Continuano a ripeterti: “ Non dimenticarti il tuo corpo”. E tu ti sforzi di non farlo. Il piede. Sì, è lì. Il polpaccio, il ginocchio, la coscia, il ventre. Sì, non lo dimentichi e ti pare di sentirlo, anche se a sfiorarlo è come se non fosse tuo. “ Concentrati sul piede e prova a muoverlo” ti dicono. Ci provi qualche volta, poi capisci che è un’idiozia. Tentativi che alimentano illusioni e consumano energia. Meglio concentrarsi sul reale. E il reale è un’immobilità esplosiva e una strada nuova tutta da percorrere. Che si fa? Si va, naturalmente.
Arrivano in processione gli amici. Renzo li intercetta fuori dalla stanza e li prepara. Lo spettacolo è abbastanza sconvolgente: tu, immobile, imbrigliata in una gabbia. Li accogli tutti con un sorriso e fai battute. Più la situazione è grave, più il disperato bisogno di dissacrare la realtà con le risate si fa necessità vitale. Non c’è scampo né tempo al di fuori della risata.
Francesca detta Franz, però, non si riesce ad intercettarla e quando entra con la sua solita irruenza guarda, si blocca, spalanca occhi e bocca, emette un debole lamento e scoppia  a piangere. Una delle tue migliori amiche. Eccola lì e tu vorresti abbracciarla e dirle: “No, dai va tutto bene. Non fare così”.
“Guarda che non sono ancora morta, tonta” – sussurri e le sorridi. Questo, naturalmente, innesta una nuova reazione a catena. Nuovo ululato e scroscio di lacrime. Quanto le vuoi bene in questo momento, ma se va avanti così, ricoverano anche lei. E’ anche sì nel reparto adatto…
(…)
Una cosa che impari in questi giorni è che ci si può abituare a tutto, persino all’idea di non camminare più, ma non ci si può abituare al dolore fisico. Non esiste convivenza con il dolore. Esiste uno stato d’occupazione e tu non sei il conquistatore. Il dolore fisico fiacca le energie, ti riduce a una cosa tremante in attesa che altro dolore arrivi. Diventa il padrone del tuo cervello e non c’è nient’altro al di fuori di lui. E’ un amante vorace e possessivo, che non vuole dividerti con nessuno. E non dà tregua. Mai. Scopri anche di essere refrattaria a molti antidolorifici (che culo!) perciò bisogna trovare quello giusto per te. E, comunque, dopo un po’ succede che il corpo si assuefà. Per cui, dolore a ondate che si fanno sempre più ravvicinate. Ti fanno male il collo, le spalle, i buchi nella testa. Dopo un po’ il dolore perde un confine definito e dilaga.
Franca e Renzo ti guardano senza poter fare niente e sai cosa pensano. Vorrebbero su di sé il tuo dolore. Ma un’altra cosa che impari è che il dolore è un’esperienza individuale e indivisibile. Però ciò che vedi in loro ti fa dire: “Eh, no. Io non cedo”, e ti convinci, a ragione, che prima o poi il dolore passerà.
“Oh, poverina…” dicono le due signore entrando, prima di dirigersi dalla loro malata.
Sei appoggiata su un fianco – posizione, questa, estremamente difficile da conquistare, dato la gabbiona maledetta. E’ tutta una questione di gira-spingi-solleva e tu immobile come una bambola. Sì, perché sei anche un bel pezzo di ragazzona, non proprio una silfide, ecco…E Renzo è a pochi centimetri dal tuo orecchio. Ti sta parlando. Le due signore vedono le tue spalle sussultare. Pensano tu stia piangendo. Che è vero, solo che stai piangendo dal ridere, perché papà ti sta raccontando una delle tue scene preferite di un film di Totò. Non avete il coraggio di alzare la testa e defraudare le due dame della loro pietà. E quando vi guardate in faccia, tu e lui, ridete ancora più forte, ma in silenzio.
(…)
“Adesso basta”
Franca e Renzo passano al contrattacco. Sono stanchi di sentirsi dire domani domani. Vogliono portarti via perché qui stai letteralmente marcendo. Le piaghe alle scapole sono profonde e slabbrate e così pure quelle in testa. Continuano a metterti mercurio cromo sulle ferite, e ora sembri un indiano dipinto con i colori dei guerra. Che strano, non ricordavi di averne dichiarata una.
Non ti vedi più tanto bella.
“Adesso basta” ripetono Franca e Renzo.
E’ deciso. Dopodomani firmano tutte le carte necessarie e sotto la loro responsabilità ti faranno dimettere dal Policlinico e ricoverare a Niguarda, dove ti opereranno subito alla vertebra.
E’ a questo punto che entra il scena il prof. Corona, uomo dagli occhi freddi e impenetrabili, dalle poche parole affilate come lame e dalla schiettezza disarmante.
Il tuo salvatore.
Ascolti molta musica da  quando sei qui dentro. La radio è quasi sempre accesa, il volume è basso per non disturbare. La musica ti trasporta fuori e ti fa ballare. Ti fa bene pensare che la vita fuori di qui continua a rotolare come una palla in discesa. Non vedi l’ora di riprendere il tuo posto. Chissà perché sei fissata su novembre.
A novembre sarò guarita –dici.
Nessuno osa contraddirti.
(…)
Ottobre
Fuori comincia a fare freddo, le giornate si sono accorciate, ma per te il tempo ha preso un’altra forma. E’ scandito dai ritmi lenti di questo posto. Il posto del dolore che è un luogo fuori dal mondo, in cui s’incontrano fantasmi. Di se stessi e di quelli che, sdraiati nei loro letti, viaggiano accanto a te.
Ti hanno applicato un’altra trazione, una cosa piccola e sopportabile. E con questi fanno altri due buchi in testa.
Fino ad ora ce l’avevi fatta, però adesso il pensiero arriva. E arriva con tutta la sua insopportabile violenza. “Questo non potrò più farlo”. E’ il pensiero che cominci ad applicare a un lungo elenco di cose e persino portare i tacchi alti –cosa che per altro non hai mai fatto perché non li hai mai sopportati- si carica di una struggente nostalgia. Ti pare la cosa più indispensabile del mondo quella di alzarti, infilarti un paio di sandali con tacchi altissimi e aggirarti per il mondo, dondolando. Non si può vivere senza tacchi!
(…)
Il letto su cui vivi lo chiamano Sandwich perché è costruito in modo da poterti mettere a pancia in giù senza spostarti. Questo per curarti le piaghe sulla schiena. Praticamente ti piazzano un pezzo di letto davanti, ti legano, il letto si solleva e ruota sino a quando ti trovi a pancia in giù. Regolarmente, quando passi per la posizione verticale, svieni, ma ormai lo sai e non ti preoccupi.
Questa faccenda delle piaghe è un lungo incubo. Quello che fanno per guarirtele non lo vuoi sapere. Ti basta solo sentire il dolore quando grattano, fregano, spennellano.
Le piaghe, lo capite subito tu e i tuoi, sono una di quelle cose che si devono assolutamente evitare e l’accanimento con cui Franca e Renzo le preverranno, ti salva da mesi e mesi di inattività e dolore.
Vedrai gente con il corpo devastato dalle piaghe da decubito. E se le maledette si formano non ci si può sedere e sedersi su una sedia a rotelle è il tuo prossimo obiettivo.
Ogni giorno, tutti i giorni, vengono a trovarti in media dieci persone. Spesso molte di più. Non hai mai sentito tanto affetto, tanta solidarietà umana, tanto stupito e travolgente amore.
(…)
NIENTE BACI
Franca ha appeso un cartello sopra il letto. E’ talmente terrorizzata dall’idea che tu possa prenderti anche solo un raffreddore che metterebbe tutti in quarantena.
Quando vede tutte quelle persone che a frotte vengono a trovarti, sta male. Da una parte si sente confortata da tanta solidarietà, dall’altra vorrebbe mandare via tutti per proteggermi da germi, bacilli e affini. La capisci, ma tutti questi amici sono la tua salvezza. Senza di loro non riusciresti a trovare la forza di continuare a ridere. Le persone che ti stanno attorno, oltre a Franca e Renzo, sono la tua fonte. Da loro, come un vampiro, succhi linfa vitale.
(…)
- Resterà il segno? – domandi.
- Appena. Solo una leggera cicatrice.
Ti osservi la ferita sul collo: adesso è rossa e infiammata. Tra qualche anno, uno degli uomini che incontrerai sulla tua strada, ti dirà che fa di te una donna piena di mistero.
“Potrebbe nascondere chissà che segreti una cicatrice così”.
Per ora, comunque, è solo un altro segno sulla mappa del tuo corpo.
- E quella sull’anca? E’ così lunga…
- Un po’ di sole e quasi non si vedrà.
Lo sai che credono tu sia un po’ fuori di testa. Dico, con tutto quello che ha da pensare, questa si preoccupa delle cicatrici? Ma questo corpo è il tuo corpo. E’ il tuo bagaglio, la tua casa, i tuoi sogni, le tue illusioni, il tuo linguaggio segreto.
E poi, sì, è una delle tue caratteristiche: in pieno psicodramma, tu riesci a preoccuparti delle unghie. Come dice Woody Allen? “Sta per arrivare la fine del mondo e non io non so cosa mettermi”. Ecco, proprio così. Questione di stile.
(…)
Questa cosa che ti svegliano alle sei per farti i prelievi del sangue, o un’endovena, o un accidente che gli piglia proprio non ti va giù. In più, da quando ti hanno trasferita qui in fisioterapia, stai ingaggiando una battaglia con il prete che, alle sette, viene per la confessione.
- Non voglio confessarmi.
- Perché?
- Perché sono atea.
- Così giovane?
- E ho sonno.
Così per un sacco di mattine fino a quando cede. Così, ti svegliano lo stesso perché accendono le luci ma, a parte le varie punture, ti lasciano tranquilla.
(…)
- Provaci.
- Non ci riesco.
- Ma tu provaci.
- Non ci riesco!
Scrivere con quest’affare che ti hanno fatto, che s’infila sull’indice e il pollice e dentro il quale s’incastra la penna, è una tortura. La calligrafia è tutta tremolante, le lettere grandi e storte. Per scrivere una parola ci metti dieci minuti e ti stanchi come se avessi scaricato un camion di frutta. E’ avvilente. Gli altri, invece, sono tutti contenti.
- Guarda! Fai progressi!
Progressi ‘sta schifezza? Mah…
(…)
- Fra quattro giorni, parti.
Quattro giorni è un tempo lunghissimo e brevissimo. Lunghissimo perché vivi quel viaggio come il viaggio alla terra promessa, brevissimo perché non sai come farai ad abituarti all’idea di stare senza tutta quella miriade di persone che ti vengono a trovare ogni giorno, che alleviano il peso di restare in questo posto orrendo.
(…)
I quattro mesi che trascorri in Germania sono segnati soprattutto da lavoro e una diffusa sensazione di allegria e speranza. Si lavora dalle sette del mattino alle sei di sera. La mattina è dedicata al recupero dell’autonomia: lavarsi, vestirsi, truccarsi. Il pomeriggio ginnastica e attività varie, soprattutto mirate al recupero, per quanto è possibile, dell’abilità manuale. Siccome le dita non riesci a muoverle è necessario imparare di nuovo, con tecniche diverse, a scrivere, ad afferrare gli oggetti, spostarli, sollevarli. L’abilità sostituisce la forza.
Così, ti ritrovi a faticare in modo sovrumano per fare cose che per gli altri sono semplicissime, spontanee, connaturate: prendere un pennarello e scrivere (prima lenta, con calligrafia infantile, incerta, poi sempre più veloce, sino ad acquisire – nel corso degli anni. Dio mio, anni… - una velocità e una sicurezza pari a prima dell’incidente); afferrare una forchetta e mangiare (il coltello, bè, quello è un universo che non ti apparterrà più).
Cerchi di usare meno ausili possibili. Non vuoi essere schiava di oggetti che sostituiscano la tua abilità. Fatica doppia, ma la fai. E ti prefiggi mete di altissima maestria, tipo truccarti. I primi tentativi producono un risultato scompisciante: sembri truccata da un’estetista ubriaca. Si aggiungono al trucco spampanato, le lacrime prima di pianto poi di riso, nel vederti allo specchio con quella faccia. E ci riprovi. Ci riprovi fino a quando truccarti diventa un’azione naturale.
(…)
I ritorni possono essere la cosa più bella e più brutta del mondo.
Si ritorna per le ragioni più diverse. Perché non si ha altro posto dove andare. Perché si deve. Perché si vuole. Perché per quanto si sia stati in giro è nel tornare che ci si ritrova.
Il mio ritorno contiene tutte queste ragioni. Più una: per ricominciare non avrei voluto essere da nessun’altra parte se non a casa mia. Con mio padre e mia madre, che sono il posto da dove io parto e dove ritorno. Sempre. Ovunque io sia, con il corpo o con la mente. E con i miei amici, che sono la mia anima.
Avevo lasciato la mia casa reggendomi sulle gambe, ci tornavo spingendomi su una sedia a rotelle. In un anno, la vita aveva compiuto non solo un ciclo, ma una rivoluzione.
Ero morta e rinata.
Una massa di carne e metallo.
Un fiore appena sbocciato.
Un mezzo pesante in movimento.
Una sirena.
(…)
Una sera, avevo diciassette anni, un mio coetaneo mi ha fatto una domanda “Ma come farai a stare senza un ragazzo?” Quella domanda, crudele e ingenua, in quel momento mi aveva fatto più male di una pugnalata. Mi aveva fatto male perché pensavo che lui avesse ragione, che nessuno ragazzo, uomo, mai, avrebbe potuto amarmi.
Ho impiegato molti anni e molta energia per capire che sia lui che io ci sbagliavamo.
Ho impiegato molti anni per capire e sentire che il fascino, la sensualità accompagnano chiunque. E ogni volta ripenso a quella donna in Germania, avvolta, lei e la sua sedia a rotelle, in un alone di seducente mistero.
Recuperare un mondo mandato all’aria, come si fa con un puzzle. Riprendere tutto ciò che sentivo mio: corpo e mente.
E pensare che il viaggio è solo all’inizio.
Pensarlo ogni giorno, per tutti i giorni che verranno.