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Etty Hillesum, Diario





lunedì 05 maggio 2008 legge Anna Bellini 
Perchè leggere Etty Hillesum oggi?
Ogni volta che rileggo questo libro mi si rinnova un sentimento doppio, l’orrore per ciò che  è accaduto nei campi di sterminio, la profonda commozione per la forza e la consapevolezza di Etty.
La ricerca costante di una essenziale forza interiore che potesse essere barriera alle atrocità che vedeva e viveva, l’ha messa in contatto con la parte più intima di sè. Etty non è una mistica  contemplativa, Etty è l’amore per la vita in se stessa, e così senza fughe o false illusioni  è immersa nella realtà, con un’apertura costante verso gli altri. Non si fa sopraffare dalla guerra e da tutto ciò che la circonda, è lei che domina anche accettando le sue fragilità e debolezze. La sua è una lotta con le parti più profonde di sè e una continua accettazione amorosa degli uomini, tutti.
 Il nostro è un tempo di grandi violenze, aggressioni, sopraffazioni, ottundimenti e ottusità, per cui credo che Etty potrebbe esserci di esempio, aiutandoci a  rimanere saldi in noi stessi, attingendo alle parti più profonde e più autentiche delle nostre anime.


ETTY HILLESUM, DIARIO 1941 – 1943, Adelphi 2004, trad. Chiara Passanti 
Domenica, le undici  (....)
L'ordine gerarchico all'interno della mia vita è un po' cambiato. ‘Una volta' preferivo cominciare a stomaco vuoto con Dostoevskij o con Hegel, e a tempo perso, quand'ero nervosa, mi capitava anche di rammendare una calza. Ora comincio con la calza, nel senso più letterale della parola, e poi pian piano, passando attraverso le altre incombenze quotidiane, salgo verso la cima, dove ritrovo i poeti e i pensatori.(..) Martedì mattina, studiando Lermontov, scrivevo che dietro la sua testa spuntava sempre quella di S., che avrei voluto rivolgermi a quel caro viso, parlargli e accarezzarlo, che così non riuscivo a lavorare. E' passato molto tempo da allora, è già tutto un po' diverso.  Il suo volto c'è ancora, mentre lavoro, ma non mi distrae più, è diventato come un paesaggio amato e familiare che sta sullo sfondo, i suoi tratti sono sfumati, non vedo più un volto preciso - s'è dissolto in atmosfera, spirito, o altro che sia. E con ciò ho toccato un punto importante. Una volta,  se mi piaceva un fiore, avrei voluto premermelo sul cuore, o addirittura mangiarmelo. La cosa era più difficile quando si trattava di un paesaggio intero, ma il sentimento era identico. Ero troppo sensuale, vorrei quasi dire troppo "possessiva": provavo un desiderio troppo fisico per le cose che mi piacevano, le volevo avere. E' per questo che sentivo sempre quel doloroso insaziabile desiderio, quella nostalgia per un qualcosa che mi appariva irraggiungibile, nostalgia che chiamavo allora "impulso creativo". Credo che fossero queste forti emozioni a farmi pensare di essere nata per fare l'artista. Ora, d'un tratto, non è più così, anche se non so dire per quale processo interiore. Me ne sono resa conto stamattina, ripensando a una piccola passeggiata. Era il crepuscolo: tenere sfumature nel cielo, misteriose sagome delle case, gli alberi vivi col trasparente intreccio dei rami, in una parola era un incanto. Mi ricordo benissimo di come sentivo "una volta", trovavo tutto talmente bello che mi faceva male al cuore. Allora la bellezza mi faceva soffrire e non sapevo che farmene di quel dolore. Allora sentivo il bisogno di scrivere o di far poesie, ma le parole non mi volevano mai venire. E mi sentivo terribilmente infelice. In fondo io mi ubriacavo di un paesaggio simile, e poi mi ritrovavo del tutto esaurita. Mi costava un'enorme quantità di energie. Ma quella sera, solo pochi giorni fa, ho reagito diversamente. Ho accettato con gioia la bellezza di questo mondo, malgrado tutto. Ho goduto altrettanto intensamente di quel paesaggio tacito e misterioso nel crepuscolo, ma in modo per così dire "oggettivo". Non volevo più "possederlo". Sono tornata a casa rinvigorita, al mio lavoro. E quel paesaggio è rimasto presente sullo sfondo come un abito che rivesta la mia anima - tanto per dirla con paroloni -, ma non mi impicciava più. E così con S., come del resto con tutti. Mi aveva raccontato varie cose della sua vita personale: della moglie da cui è separato ma con cui è rimasto in corrispondenza, dell'amica con cui vuole sposarsi, e poi ancora di un'altra amica.(..),  forse avevo avuto la stessa reazione di quando attraverso un paesaggio che mi tocca l'anima. Lo volevo possedere e provavo odio o gelosia per tutte le donne di cui mi aveva raccontato e mi chiedevo se sarebbe rimasto qualcosa per me e me lo sentivo sfuggire. Erano sentimenti piuttosto meschini, ma me ne rendo conto solo ora. In quel momento io mi sentivo infelicissima e sola, cosa che adesso capisco benissimo, avrei voluto andar via e mettermi a scrivere(..) E' un altro modo di possedere, di attirare le cose a sé con parole e immagini. L'impulso che mi spingeva a scrivere dev'essere stato soprattutto il desiderio di nascondermi agli altri con tutti i tesori che avevo accumulato, di annotare ogni cosa e di goderla tenendomela per me. E adesso, improvvisamente, questo atteggiamento "possessivo" è cessato. Mille catene si sono spezzate, respiro liberamente e mi guardo intorno con occhi raggianti. E ora che non voglio più possedere nulla, ora possiedo tutto e la mia ricchezza interiore è immensa. Ora vivo e respiro con la mia anima, sempre che mi sia concesso usare questo termine screditato.
Venerdì mattina,le nove.
Ci si lamenta di come fa buio al mattino. Per me invece, è spesso l'ora migliore del giorno - quando l'alba s'affaccia grigia e silenziosa alle mie pallide finestre. In quel grigiore e silenzio c'è una macchia luminosa e violenta, la piccola lampada velata che rischiara il grande piano scuro della mia scrivania.(..) Ero immersa nell'Idiota, traducevo qualche riga, aggiungevo una breve annotazione mia, e di colpo erano le dieci. Ho pensato:sì così devi studiare, così assorta, così va bene.(..)Dopo giorni di vita interiore intensa, ricerca di chiarezza, doglie patite per sentimenti e  pensieri che non sono pronti per nascere, enormi pretese da parte mia, e la ricerca di una piccola forma propria che diventa di un'importanza capitale....,ecco che poi tutto quest'affanno improvvisamente mi cade di dosso; il mio cervello è piacevolmente stanco, c'è bonaccia di nuovo, sento quasi una sorta di dolcezza verso me stessa, e su di me cala un velo attraverso cui la vita filtra più mite, e spesso più ridente. Sento allora di essere tutt'uno con la vita. Inoltre: che non sono io individualmente a volere o a dovere fare questo o quello, ma che la vita è grande e buona e attraente e eterna corrente, che è appunto la vita. E' proprio in questi momenti - e quanto ne sono riconoscente - che ogni aspirazione personale mi abbandona, la mia ansia per esempio, di conoscere e sapere si acquieta, e un piccolo pezzo d'eternità scende su di me con un largo colpo d'ala. So bene che questo stato d'animo non dura a lungo: magari è già passato dopo mezz'ora, ma nel frattempo ho potuto di nuovo attingervi forza. E che poi questo senso di gran respiro e dolcezza sia dovuto alle sei aspirine prese ieri a causa di un forte mal di testa, o alla musica suonata da Mischa, oppure al caldo corpo di Han nel quale mi sono completamente seppellita stanotte - chi lo può dire, e che importa?(..) Mi sento, alla mia scrivania, con la sua grande superficie scura, come su un'isola deserta.(..) E che importa se studio una pagina di libro in più o in meno? Purchè tu viva dando ascolto al ritmo che ti porti dentro - a ciò che sale dal fondo di te stessa. Gran parte del tuo comportamento è una forma d'imitazione, oppure risponde a doveri inventati, o a preconcetti errati su come una persona debba essere. L'unica sicurezza su come ti debba comportare ti può venire dalle sorgenti che zampillano nel profondo di te stessa. E io lo dico ora con tutta umiltà e riconoscenza e sincerità, anche se so bene che tornerò a essere suscettibile e ribelle: Dio mio, ti ringrazio perchè mi hai creata così come sono.(..)Ti prometto che tutta la mia vita sarà un tendere verso quella armonia, e anche verso quell'umiltà e vero amore di cui sento la capacità in me stessa, nei momenti migliori.
19 febbraio 1942, giovedì pomeriggio, le due. Se dovessi dire che cosa mi ha fatto più impressione oggi, direi che sono state le grosse mani piene di geloni di Jan Bool. Di nuovo qualcuno è stato torturato a morte: quel dolce ragazzo della Libreria Cultura. Ricordo che suonava il mandolino; aveva una ragazza simpatica che era poi diventata sua moglie, e c'era anche un bambino. "Quelle bestie"diceva Jan Bool nel corridoio affollato dell'Università. Lo hanno fatto a pezzi. E diversi altri tra i professori più vecchi e più fragili. Ora sono prigionieri in una baracca piena di correnti, in quello stesso parco dove avevano trascorso le loro vacanze estive. Non hanno neppure il permesso di indossare il pigiama, non possono avere nulla con sè. Vogliono abbrutirli completamente, vogliono fargli venire un sentimento d'inferiorità. C'era un grande sconforto stamattina a lezione. Ma una luce c'era: una breve inaspettata conversazione con Jan Bool . Jan chiedeva con amarezza: cosa spinge l'uomo a distruggere gli altri? E io: gli uomini, dici- ma ricordati che sei un uomo anche tu. E inaspettatamente, quel testardo, brusco Jan era pronto a darmi ragione. Il marciume che c'è negli altri c'è anche in noi, continuavo a predicare; e non vedo nessun'altra soluzione, veramente non ne vedo nessun'altra, che quella di raccoglierci in noi stessi e di strappar via il nostro marciume. Non credo più che si possa migliorare qualcosa nel mondo esterno senza aver prima fatto la nostra parte dentro di noi. E' l'unica lezione di questa guerra: dobbiamo cercare in noi stessi, non altrove. E Jan era pronto a essere d'accordo con me, aperto e perplesso e non più attaccato alle durissime teorie sociali di un tempo. E non erano teorie: i nostri professori sono imprigionati, un altro amico è stato ammazzato, ma c'è ancora dell'altro -troppo per farne un elenco-, e noi ci dicevamo:sono così a buon prezzo, quei sentimenti di vendetta. Era proprio una luce, oggi.
27 febbraio 1942, venerdì mattina:
 Mi sembra presuntuoso affermare che un uomo possa determinare il proprio destino dall'interno. Quel che invece un uomo ha in mano è il proprio orientamento interiore verso il destino. I fatti esterni non bastano per capire la vita di una persona: bisogna conoscerne i sogni, il rapporto con la famiglia, gli stati d'animo, le delusioni, la malattia e la morte.(...) Mercoledì mattina presto, quando con un gruppo numeroso ci siamo trovati in quel locale della Gestapo, i fatti delle nostre vite erano tutti uguali: eravamo tutti nello stesso ambiente, gli uomini dietro la scrivania come quelli interrogati. Ciò che qualificava la vita di ciascuno era l'atteggiamento interiore verso quei fatti. Si notava subito un giovane che camminava su e giù con un'espressione palesemente scontenta, assillato e tormentato. Cercava in continuazione pretesti per urlare a quei disgraziati ebrei "Mani fuori dalle tasche.."ecc. Per me era da compiangere più di coloro a cui stava urlando; e questi a loro volta, facevano pena nella misura in cui erano impauriti. Quando mi sono presentata davanti alla scrivania, mi ha urlato improvvisamente:"Che ci trova di ridicolo?". Avrei risposto volentieri."Niente, tranne lei", ma per diplomazia m'è parso meglio lasciare stare. "Lei ride tutto il tempo" continuava a urlare lui. E io in tutta innocenza" Non me ne accorgo proprio, è la mia faccia normale". E lui "Per favore non dica scemenze, vada fffuoori!", con una faccia che voleva dire: tra poco mi sentirai. Credo che questo fosse il momento psicologico in cui avrei dovuto spaventarmi a morte.(...)In fondo io non ho paura. Non per una forma di temerarietà, ma perchè sono cosciente del fatto che ho sempre a che fare con degli esseri umani, e che cercherò di capire ogni espressione, di chiunque sia e fin dove mi sarà possibile.(..)Al ragazzo della Gestapo avrei voluto chiedere: hai avuto una giovinezza così triste, o sei stato tradito dalla tua ragazza? Aveva un'aria tormentata e assillata, anche molto sgradevole e molle. Avrei voluto cominciare subito a curarlo, ben sapendo che questi ragazzi sono da compiangere fintanto che non sono in grado di fare del male, ma che diventano pericolosissimi se sono lasciati liberi di avventarsi sull'umanità. E' solo il sistema che usa questo tipo di persone che è criminale. E quando si parla di sterminare, allora che sia il male dell'uomo, non l'uomo stesso.(...)Quel che fa paura è che certi sistemi possano crescere al punto da superare gli uomini e da tenerli stretti in una morsa diabolica, gli autori come le vittime: così grandi edifici e torri, costruiti dagli uomini con le loro mani, s'innalzano sopra di noi, ci dominano, e possono crollarci addosso e seppellirci.
 Venerdì mattina 19 giugno 1942: Certe volte ho paura di chiamare le cose per nome: forse perchè non rimarrebbe più niente, allora? Le cose devono poter essere chiamate per nome, e se non reggono a questa prova non hanno il diritto ad esistere. Spesso si cerca di salvarle con una sorta di vago misticismo. Il misticismo deve fondarsi su un'onestà cristallina: quindi prima bisogna aver ridotto le cose alla loro nuda realtà.
Sabato 20 giugno 1942, mezzanotte e mezzo: (..) Per umiliare qualcuno si dev'essere in due: colui che umilia, e colui che è umiliato e sopratutto: che si lascia umiliare. Se manca il secondo, e cioè se la parte passiva è immune da ogni umiliazione, questa evapora nell'aria. Restano solo delle disposizioni fastidiose che interferiscono nella  vita di tutti i giorni, ma nessuna umiliazione e oppressione angosciose. Si deve insegnarlo agli ebrei. Stamattina pedalavo lungo la Stadionkade e mi godevo l'ampio cielo ai margini della città, respiravo l'aria fresca non razionata. Dappertutto c'erano cartelli che ci vietano le strade per la campagna. Ma sopra quell'unico pezzo di strada che ci rimane c'è pur sempre il cielo, tutto quanto. Non possono farci niente, non possono veramente farci niente. Possono renderci la vita un pò spiacevole, possono privarci di qualche bene materiale o di un pò di libertà di movimento, ma siamo noi stessi a privarci delle nostre forze migliori col nostro atteggiamento sbagliato: col nostro sentirci perseguitati, umiliati e oppressi, col nostro odio e con la millanteria che maschera la paura. Certo che ogni tanto si può essere tristi e abbattuti per quel che ci fanno, è umano e comprensibile che sia così. E tuttavia: siamo soprattutto noi stessi a derubarci da soli. Trovo bella la vita, e mi sento libera. I cieli si stendono dentro di me come sopra di me. La vita è difficile, ma non è grave. Dobbiamo cominciare a prendere sul serio il nostro lato serio, il resto verrà da sé: e" lavorare a se stessi" non è proprio una forma di individualismo malaticcio. Quel pezzetto d'eternità che ci portiamo dentro può essere espresso in una parola come in dieci volumi. Sono una persona felice e lodo questa vita, la lodo proprio, nell'anno del Signore 1942, l'ennesimo anno di guerra.
(..)Com'è esotico il gelsomino; in mezzo a quel grigio e a quello scuro color di melma è così radioso e tenero. Non capisco niente del gelsomino. Del resto non c'è bisogno. Si può benissimo credere nei miracoli in questo ventesimo secolo. E io credo in Dio, anche se tra breve i pidocchi mi avranno divorata in Polonia.
(...) La sofferenza non è al di sotto della dignità umana. Cioè si può soffrire in modo degno, o indegno dell'uomo. Voglio dire: la maggior parte degli occidentali non capisce l'arte del dolore, e così vive ossessionata da mille paure. E la vita che vive la gente adesso non è più una vera vita, fatta com'è di paura, rassegnazione, amarezza, odio, disperazione.(..)Io sono in Polonia, su quelli che si possono chiamare dei campi di battaglia, talvolta mi opprime una visione di questi campi diventati verdi di veleno; sono accanto agli affamati, ai maltrattati e ai moribondi, ogni giorno - ma sono anche vicina al gelsomino e a quel pezzo di cielo dietro la mia finestra, in una vita c'è posto per tutto.(..) Si deve anche avere la forza di soffrire da soli, e di non pesare sugli altri con le proprie paure e coi propri fardelli. Lo dobbiamo ancora imparare e ci si dovrebbe educare reciprocamente a ciò, se possibile con la dolcezza e altrimenti con la severità. Quando dico:in un modo o nell'altro ho chiuso i conti con la vita, non è per rassegnazione. "Tutto quel che si dice è malinteso". Se mi capita di dire una cosa del genere, viene intesa altrimenti. Non è rassegnazione, non lo è di certo. Cosa voglio dire? Forse, che ho già vissuto mille volte, e altrettante volte sono morta, e dunque non può più succedere nulla di nuovo? E' un modo di esser blasè? No, è un vivere la vita mille volte minuto per minuto, e anche un lasciar spazio al dolore, spazio che non può essere piccolo, oggi. E fa poi gran differenza se in un secolo è l'Inquisizione a far soffrire gli uomini, o la guerra e i progrom in un altro? Assurdo, come dicono loro? Il dolore ha sempre preteso il suo posto e i suoi diritti, in una forma o nell'altra. Quel che conta è il modo con cui lo si sopporta, e se si è in grado di integrarlo nella propria vita e, insieme, di accettare ugualmente la vita.
5 luglio 1942, sabato mattina le nove: (...) Una volta non facevo mai vedere se mi stancavo troppo per le mie forze: non volevo pesare, facevo tutto come gli altri - passeggiate, festeggiamenti. le ore piccole. Forse c'era un pò di presunzione nel mio atteggiamento: la paura di perdere la simpatia e la compagnia degli altri se avessi disturbato i loro divertimenti con la mia stanchezza. Uno dei miei complessi d'inferiorità nasceva di lì.(..) Sempre quella paura infantile di perdere un pò dell'amore degli altri, se non ci si adegua! Bisogna saper riconoscere le proprie insufficienze, anche quelle fisiche; bisogna saper accettare di non poter essere per un altro come si vorrebbe. Riconoscere le proprie debolezze non significa lamentarsene: questa sì che sarebbe una miseria, anche per gli altri.(..) Adesso io dico con semplicità e naturalezza: ecco, le mie forze arrivano fin qui e non altro, non ci posso far niente, devi prendermi come sono. Per me, questo è un passo ulteriore verso una maturità e indipendenza a cui sembra che mi stia avvicinando di giorno in giorno.
23 luglio, giovedì sera, le nove. Le mie rose rosse e gialle si sono completamente schiuse. Mentre ero là in quell'inferno, hanno continuato silenziosamente a fiorire. Molti mi dicono: come puoi pensare ancora ai fiori, di questi tempi. Ieri sera sono ancora andata a cercare un carretto che vendesse fiori e così sono arrivata a casa con un mazzo di rose. Nella mia vita c'è posto per tante cose.(..) Ogni giorno imparo qualcosa sugli uomini e mi rendo conto che non si può trovare aiuto dagli altri, che dobbiamo sempre più contare sulle nostre forze interiori.
15 settembre 1942 , martedì mattina. Ecco l'albero è sempre lì, l'albero che potrebbe scrivere la mia biografia. Però non è più lo stesso albero- o forse sono io che non sono più la stessa persona? E a un metro dal letto c'è la libreria, basta che allunghi il braccio e ho in mano Dostoevskij o Shakespeare o Kierkegard. Ma non lo farò, ho un gran capogiro.(..) Dovrei proprio dormire, per giorni e giorni, dovrei lasciar andare tutto quanto. Il medico diceva ieri che ho una vita interiore troppo intensa, che vivo troppo poco sulla terra, anzi, che vivo quasi ai confini col cielo, che il mio fisico non può reggere a tutto ciò. Forse ha ragione. Non ho forse avuto delle ore di cui ho detto: se dovessi morire tra poco, quest'ora mi è valsa una vita? E perchè poi non dovrei vivere in cielo? Il cielo esiste, perchè non ci si potrebbe vivere? O piuttosto: il cielo vive dentro di me. Devo pensare a un'espressione di una poesia di Rilke:" spazio interno del mondo". Ora devo dormire, e lasciar andare tutto. Ho imparato che un peso può essere convertito in bene se lo si sa sopportare. Perchè non mi hai fatto poeta Dio mio? Ma sì mi hai fatto poeta, aspetterò pazientemente che maturino le parole della mia doverosa testimonianza: cioè che vivere nel tuo mondo è una cosa bella e buona, malgrado tutto quel che ci facciamo reciprocamente noi uomini. Il cuore pensante della baracca.
(..) In me c'è un silenzio sempre più profondo. Lo lambiscono tante parole, che stancano perchè non riescono a esprimere nulla. Bisogna sempre risparmiare le parole inutili per poter trovare quelle poche che ci sono necessarie. E questa nuova forma d'espressione deve maturare nel silenzio. Ora sono le nove e mezzo. Rimarrò a questa scrivania fino a mezzogiorno; petali di rosa sono sparsi tra  i miei libri. Una rosa gialla s'è schiusa al massimo e mi fissa, grande e spalancata. Queste due ore e mezzo che ho davanti mi sembrano quasi un anno d'isolamento. Sono così riconoscente per queste poche ore e anche per la concentrazione che mi sta crescendo dentro.
Più tardi. Fiorire e dar frutti in qualunque terreno si sia piantati - non potrebbe essere questa l'idea? E non dobbiamo forse collaborare alla sua realizzazione?
A due sorelle dell'Aia, dicembre 1942 ( dalle Lettere)
(..) Che cosa dovrei raccontare sulla vita a Westerbork? Era estate quando vi giunsi. Del Drenthe io sapevo che c'erano molti dolmen: ora ci trovavo un villaggio di baracche di legno incorniciato da cielo e brughiera, con un campo di lupini  gialli nel mezzo e tutt'intorno filo spinato. Laggiù si poteva trovare una grande abbondanza di vite umane.(..)incontrai persone che erano già state a Buchenwald e Dachau(..) persone che avevano girato il mondo su quella nave che non aveva avuto il permesso di approdare in nessun porto(..), ho visto molte fotografie di bambini piccoli, che nel frattempo saranno cresciuti non poco in qualche luogo ignoto di questa terra(..), era come ritrovarsi davanti a un pezzetto tangibile del "destino" ebraico degli ultimi dieci anni: e c'era chi aveva creduto che nel Drenthe esistessero soltanto dei dolmen.(..) Una sera d'estate ero seduta a mangiare il mio cavolo rosso sul ciglio del campo giallo di lupini e riflettevo con aria ispirata" Si dovrebbe scrivere di Westerbork". Un uomo anziano seduto alla mia sinistra, aveva replicato " sì, ma ci vorrebbe un poeta." Quell'uomo ha ragione, ci vorrebbe un grande poeta, le cronachine giornalistiche non bastano più. Tutta l'Europa sta diventando pian piano un unico grande campo di prigionia. Tutta l'Europa finirà per disporre di simili, amare esperienze. Sarà monotono se noi ci riferiremo i fatti nudi e crudi, e a proposito del filo spinato e di pasticcio di patate e verdure non si possono fare resoconti molto pittoreschi a coloro che sono rimasti fuori: mi domando del resto se ne rimarranno fuori molti, posto che la storia insista ancora a lungo a percorrere i sentieri intrapresi.(..) Già- Westerbork.(..) "Qui non si poteva vedere neanche una farfalla o un fiorellino, e neppure un verme", mi assicurano i primissimi residenti del campo. E ora? C'è un orfanotrofio, una sinagoga, una cappella mortuaria, un manicomio, le baracche dell'ospedale sempre più numerose, la prigione, forse suonerà un po' strano alle vostre orecchie: una prigione dentro una prigione. Ci sono crisi di gabinetti in miniatura. C'è un comandante olandese e un comandante tedesco. Di lui si dice che ami la musica e che sia un gentleman. Io non posso giudicare, ma devo dire che per essere un gentleman ricopre un ufficio un tantino singolare.(..) C'è fango, talmente tanto fango che da qualche parte fra le costole si deve proprio possedere un gran sole interiore se non se ne vuol diventare la vittima psicologica(scarpe rotte e piedi bagnati ve li immaginerete da sole). (..) Il filo spinato è una pura questione di opinioni"Noi dietro il filo spinato!" diceva un vecchio signore " sono piuttosto loro a vivere dietro il filo spinato" e indicava le alte ville, che stanno come guardiani dall'altra parte della recinzione. Di tanto in tanto si incontrano persone con graffi sul viso e sulle mani. Ai quattro angoli del nostro villaggio di legno ci sono delle torrette di vedetta(..) Lassù, un uomo con elmo e fucile si staglia contro i cieli mutevoli. Alla sera si sente talvolta sparare nella brughiera, come quando quel cieco si smarrì in un luogo troppo vicino al filo spinato...(..)Nell'insieme però c'è una gran ressa, a Westerbork, quasi come attorno all'ultimo relitto di una nave a cui si aggrappano troppi naufraghi sul punto di annegare. Tutto sommato si preferisce svernare nella provincia più povera d'Olanda e dietro un filo spinato piuttosto che essere trascinati nel cuore d'Europa, verso regioni e destinazioni sconosciute da cui solo pochissime e oscure voci sono trapelate a chi è rimasto indietro. Ma il numero dei deportati dev'essere quello stabilito e bisogna riempire il treno, che con regolarità viene a prendersi il suo carico; nè si può trattenere tutti quanti come indispensabili per il campo o troppo malati per essere trasportati. A volte si pensa che sarebbe più semplice essere deportati, che dover sempre assistere alle paure e alla disperazione di quelle migliaia e migliaia di uomini, donne, bambini, invalidi, mentecatti, neonati, malati, anziani, che in una processione ininterrotta sfilano lungo le nostre mani soccorrevoli.(..) La prima volta che uno di questi convogli passò per le nostre mani, ci accadde di pensare che mai più avremmo potuto ridere e essere lieti, che ci eravamo trasformati in persone diverse, improvvisamente invecchiate e estraniate da tutti gli amici di prima. Ma se poi si va fra la gente, ci si rende conto che là dove ci sono uomini c'è anche vita, e che questa vita si ripresenta nelle sue mille sfumature - con un sorriso e una lacrima- per dirla con un'espressione popolare.(..) C'erano bambini che non volevano mangiare un panino finchè i genitori non ne avessero ricevuto uno anche loro.(..) C'era un monaco ancora abbastanza giovane che per quindici anni non era uscito dal convento e ora si trovava per la prima volta "nel mondo".(..) I rapati a zero, i picchiati e i maltrattati, che quello stesso giorno si erano riversati a Westerbork insieme ai cattolici, incespicavano e si muovevano con gesti ancora incerti e tendevano le mani verso il pane che non bastava.(..) Bambini che cadevano addormentati sull'assito polveroso o giocavano ad acchiapparsi tra gli adulti. Due bambinetti svolazzano smarriti intorno al corpo pesante di una donna che giace in un angolo, proprio non capiscono perchè la loro mamma se ne stia immobile e non risponda.(..)  Il dolore umano è più di quanto un individuo sia in grado di assorbire in un periodo così limitato. Del resto, lo sentiamo dire ogni giorno e in tutti i toni:" Non vogliamo pensare, non vogliamo sentire, vogliamo dimenticare il più possibile", e questo mi sembra pericoloso, come se il dolore - in qualunque forma ci tocchi incontrarlo- non facesse veramente parte dell'esistenza umana.(..) Io credo che per ogni evento l'uomo possieda un organo che gli consente di superarlo. Se noi salveremo i nostri corpi e basta dai campi di prigionia, dovunque essi siano, sarà troppo poco. Non si tratta infatti di conservare questa vita a ogni costo, ma di come la si conserva. A volte penso che ogni situazione, buona o cattiva, possa arricchire l'uomo di nuove prospettive. E se non abbandoniamo al loro destino i duri fatti che dobbiamo irrevocabilmente affrontare- se non li ospitiamo nelle nostre teste e nei nostri cuori, per farli decantare e divenire fattori di crescita e di comprensione-, allora non siamo una generazione vitale.

A Han Wegerif e altri. Westerbork 24 Agosto 1943.
(..) Mi sono trovata nei guai con la Parola che è il tema fondamentale della mia vita" E Dio creò l'uomo a sua immagine". Questa Parola ha vissuto con me una mattina difficile. Ho già detto che non ci sono parole o immagini capaci di descrivere una notte come questa. Dobbiamo pur tenerci informati di ciò che accade negli angoli remoti della terra e ognuno deve portare il proprio sassolino per farlo combaciare con gli altri nel mosaico che a guerra finita coprirà tutta la terra.(..)Davanti alla baracca di punizione, i deportati raccolti nel recinto di filo spinato erano pronti con i bagagli, i più avevano un'aria intraprendente e piena di coraggio.(..) Ma i bambini di pochi mesi, le piccole grida penetranti dei bambini che sono strappati dalle loro culle nel cuore della notte per essere trasportati verso un paese lontano(..) quei bambini erano davvero la cosa peggiore.(..) Stanotte io aiuterò a vestire tutti i bambini piccoli e tenterò di calmare le madri e chiamo questo "aiutare", potrei quasi maledirmi da sola: sappiamo bene che abbandoneremo le persone indifese e malate del campo alla fame, al caldo e al freddo, alla vulnerabilità e alla distruzione, eppure le vestiamo noi stessi e le accompagniamo ai nudi carri bestiame, e se non sono in grado di camminare le portiamo in barelle. Che avviene qui, che misteri sono questi, in quale meccanismo funesto siamo impigliati? Non possiamo liquidare il problema dicendo che siamo tutti dei vili, e poi non siamo cattivi. Ci troviamo di fronte a interrogativi più profondi..............Una ragazzina mi chiama. E' seduta sul suo letto, diritta come una candela e con gli occhi spalancati. E' parzialmente paralizzata, aveva  appena ricominciato a camminare tra due infermiere, passo dopo passo " Hai sentito? Devo partire"sussurra. "Come anche tu?" Ci guardiamo per un pò senza riuscire a parlare. Il suo viso è svanito, è solo occhi. Finalmente dice con una monotona vocina grigia" Che peccato, eh? Pensare che quanto hai imparato nella tua vita è stata fatica sprecata" e " Però com'è difficile morire, eh?"
(..) Poco più in là c'è la mia piccola russa gobba. E' come intessuta di tristezza. La ragazzina paralizzata è sua amica. Più tardi si lamenterà con me" Non aveva nemmeno un piatto, volevo darle il mio ma non l'ha voluto, mi ha detto" Tanto tra dieci giorni sarò morta e allora il mio piatto ce l'avranno quegli orribili tedeschi". La russa sta davanti a me, un chimono di seta verde avvolge la sua figurina deforme. Ha gli occhi di fanciullo, molto saggi e puri. Mi scruta a lungo in silenzio e poi esclama appassionatamente" Vorrei oh, quanto vorrei nuotar via nelle mie lacrime verso un mondo migliore"
!2\10\42 (Diario)
Le mie impressioni sono sparse come stelle sfavillanti sullo scuro velluto della mia memoria.
L'età dell'anima è diversa da quella registrata all'anagrafe. Credo che l'anima abbia una determinata età fin dalla nascita, e che questa età non cambi più. Si può nascere con un'anima che ha dodici anni. Si può anche nascere con un'anima che ne ha mille.(..) Ci sono persone che hanno molto "sentimento" ma poca anima.
Un'anima è fatta di fuoco e di cristalli di rocca. E' una cosa molto severa e dura, ma è anche dolce come il gesto delicato con cui la punta delle sue dita sfiorava le mie ciglia.
Quando soffro per gli uomini indifesi, non soffro forse per il lato indifeso di me stessa?
Ho spezzato il mio corpo come se fosse pane e l'ho distribuito agli uomini. Perchè no? Erano così affamati, e da tanto tempo.
Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite.

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Etty Hillesum morì ad Auschwitz  il 30 novembre 1943