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Lorenzo Costa, Francesco Francia, Amico Aspertini



lunedì 19 maggio 2008 legge Paolo Cova
La scelta di “leggere” alla Bottega dell’Elefante un testo pittorico è dettata dalla consapevolezza che una prospettiva multidisciplinare sulla cultura sia oggi essenziale per comprendere analiticamente la complessità del reale. Il ciclo di affreschi in questione rappresenta certamente il più alto contributo artistico della piena stagione del Rinascimento bolognese. Nelle dieci scene dipinte sulle pareti dell’oratorio di S. Cecilia c’è tutta la magnificenza culturale e la varietà lessicale sorta alla corte dei Bentivoglio. Nel ciclo, del 1506, si sfidarono in singolar tenzone i più grandi pittori cittadini di quegli anni: Lorenzo Costa, Francesco Francia e Amico Aspertini. Questi artisti consumarono in questa sfida l’ultimo atto del mecenatismo di Giovanni II Bentivoglio, prima della sua cacciata. L’oratorio di Santa Cecilia è un testo straordinario che non può prescindere dalla coeva cultura letteraria e che mostra essenziali e molteplici riferimenti al coltissimo panorama culturale umanista cittadino, tanto che più volte si è avanzata l’ipotesi di una regia tematica affidata ad uno dei molteplici eruditi di corte.
Paolo Cova è specializzando in Storia dell’Arte Medievale e Moderna presso il dipartimento di Arti Visive dell’Università di Bologna e collaboratore dei Musei Civici di Arte Antica, in particolare del Museo Medievale.


A. Emiliani, Presentazione de La Chiesa di Santa Cecilia in Bologna. Riscoperte e restauri, a cura di Daniela Scaglietti Kelescian, Bologna, Costa, 2005. Novità ed aggiunte per Santa Cecilia


Impegno e, in pari tempo, misura di buona tempra critico-storica si confrontano con energia critica in questo ulteriore, aggiornato momento di meditata ricerca e di revisione che investe modalità costruttive, progetti di restauro, economie ed istituzioni liturgiche, insieme ai celebri ornati figurativi della Chiesa di Santa Cecilia. E con essa la sua intera vicenda, tanto ampia quanto spesso turbata da avvenimenti volta a volta tali da coinvolgere anche il maggiore, il più poetico complesso di affreschi dell’ultimo sogno dell’Umanesimo: le belle, raffinate, cortesi storie di Santa Cecilia e di San Valeriano, dipinte intorno alla metà del primo fatale decennio di quel Cinquecento, sulle mura della Chiesa. Furono i Bentivoglio che consentirono a sistemare definitivamente la Chiesa sull’alto della posterla di San Giacomo Maggiore, a patto di ottenere di riscontro la concessione di nuovo spazio per la costruzione della Cappella della famiglia che doveva trovare ulteriore ampiezza a fianco del deambulatorio. […]
Il Novecento, ai precedenti illustri come il restauro positivo del Cavenaghi, fece seguire e mise in campo, unitamente ad un buon intervento generale del restauratore Arturo Raffaldini, l’alta interpretazione di Roberto Longhi e purtroppo l’incerto destino di una guerra. Fu una lunga attesa; e ricordo bene qual era il clima ancora sofferente dei mesi nei quali Maurizio Calvesi, anno 1960, diede personale, impegnativa attenzione al libro che doveva essere allora realizzato. […]
Il libro di Calvesi mise in movimento e in certo qual modo accompagnò anche il passo d’una solida, crescente saggistica consensuale che di lì a poco investì anche gli studi giovanili di Daniela Scaglietti (1967), in parte uniti - questi ultimi - nella silloge che fu quella promossa e contenuta nel maggior libro monografico dedicato al cantiere plurisecolare di San Giacomo Maggiore, promosso da Stefano Bottari e guidato con eccezionale competenza da Carlo Volpe. […]
Seguirono poi altri forti e necessari restauri, come quelli nel ciclo stesso di Santa Cecilia e San Valeriano, intrapresi nel 1964-68 da Ottorino Nonfarmale con la direzione di Cesare Gnudi. Nell’ambito di questi, si diede anche una prima sistemazione all’ingresso della Chiesa; ma soprattutto ci si trovò poco dopo costretti a operare ancora e d’urgenza, per incorreggibili infiltrazioni di umidità, lo strappo di almeno due grandi comparti di affresco, e nella fattispecie La Sepoltura di Valeriano e di Tiburzio dell’Aspertini, e la attigua Cecilia davanti ad Almachio che pure in parte all’irrequieto Aspertini rinvia. Ricollocammo in quel momento sull’altare della Chiesa la pala lignea di Scuola di Francesco Francia, che giaceva nei depositi della Pinacoteca Nazionale.
Dopo la scomparsa di Cesare Gnudi e, a date vicine, quella di padre Scipioni, generoso Rettore del complesso agostiniano, decidemmo di studiare e di dare corso negli anni – ed in loro memoria - ad un programma conseguente di studi e di restauri che oggi ancora continua […]
L’intervento condotto nell’atrio della chiesa di Santa Cecilia - nella ridotta forma assunta - affidato in condizioni assai meno che felici ad Emma Biavati, restituisce pur sempre una ritrovata immagine delle decorazioni e dei soggetti liturgici di quella che era la parete terminale del tempio, con i suoi tre altari affiancati: soggetto centrale dell’analisi studiosa di oggi. Purtroppo, lungo lo spazio di anni e di decenni, per essere divenuto atrio di accesso e al Convento e alle Scuole Elementari insieme all’asilo, nonché luogo aperto offerto ad ogni genere di manomissione (esattamente come l’affresco esterno di Giovanni di Ottonello), le decorazioni parietali e dello stesso soffitto mostrano a dir poco un volto un poco nebuloso: e tuttavia questa condizione, comunque recuperata con bravura, finisce per riflettere l’immagine conservativa che, tra logoramenti e problemi interpretativi, esibiscono anche le opere che fanno parte eminente di quel paesaggio, e dunque il portico del Nadi, le arche laterali, e anche l’irrisolto problema delle belle Crosi in ceramica ingobbiata rimaste una volta ancora annegate nel letto di cemento, sede di un nuovo pavimento in cotto. […]

R. Longhi, Officina Ferrarese, Firenze, Sansoni, 1968 [1934¹], pp. 146-149.
Bologna presenta il fatto sorprendente dell’Aspertini, in favore del quale spesi a suo luogo qualche pagina dell’“Officina”. Ma era soltanto la degustazione di un caso che potrà dar luogo a chissà quant’altre revisioni. […] E’ da riscoprire intanto quasi per intero l’attività romana del maestro, tra gli ultimi del ‘4 e i primi del ‘500; e qui credo che il miglior partito sarà d’immaginarlo in rapporto con un altro bolognese a Roma…: quel Rimanda. […]
Ma anche rientrati a Bologna con lui, c’è da seguirlo nei suoi movimenti con molta più attenzione che non si sia usata fin qui. C’è, per esempio, ancora da chiarire a fondo la parte della sua collaborazione al famoso ciclo di Santa Cecilia in San Giacomo Maggiore. Tre delle storie gli erano attribuite ab antiquo, ma i moderni, persi dietro le ombre del Tamaroccio e del Chiodarolo e per non far torto ad alcuno di costoro, han finito per distribuire due storie per testa. Pure, del Tamaroccio e del Chiodarolo non è, e, si può scommettere, non sarà mai possibile restituire una fisionomia coerente. […]
In una nota dell’“Officina” dissi, di passata, che, oltre i riquadri della Decollazione e del Seppellimento di San Valeriano, mi pareva spettare all’Aspertini, per il chiaroscuro magico, per la forma lievitante, inquieta, quasi errabonda, anche quello comunemente ascritto al Chiodarolo o al Costa, dei due Santi incoronati dall’Angelo. […] Questa sarà dunque la terza storia che dell’Aspertini, a detta degli antichi scrittori, era nell’Oratorio di Santa Cecilia; e così parrebbe doversi considerar già fallito il tentativo del Malvasia di riferirgli, come terzo riquadro, quello della Santa davanti al tiranno modernamente ascritto al Chiodarolo magari su disegno del Costa. […].
Pure, qualche ombra di vero c’è, anche in questo tentativo. Sta bene che l’affresco, visto nell’insieme, sembra di un fare costesco generico, snervato, senz’ombra di persona prima; ma nelle due figure di portatori d’insegne che, sul podio, si avvolgono stranamente in un solo manto sventolante, e in certe figurine d’armigeri sulla destra, in secondo piano, non manca qualche cosa di eccentrico, in una parola di aspertiniano. E allora? Allora è probabile che su una prima traccia del Costa, partito nel tardo 1506, un debole seguace di Bologna restasse presto col pennello in secco e che, a condurre in porto la fatica, lo sovvenisse il geniale e invadente maestro Amico. […]
Ma non è tutto. Anche nei due riquadri di solito assegnati al mitico Tamaroccio, il caso dovette parzialmente ripetersi. Nel Battesimo di San Valeriano le figure, applicatissime, son ritagliate, lucidate con stento sur un fondo di paese che ha invece tutta l’aria brillante e il capriccio dell’Aspertini, anche nella figurina di Cecilia che s’avanza candida accanto alla fantesca, come Biancaneve per una serata. Nel Martirio della Santa il gruppo degli ordinatori a destra è di una banale secchezza accademica, ma la scena del martirio a mano manca è tutta diversa, a cominciar dalle proporzioni; e la bellissima invenzione del portatore di legna, dal nudo così intelligentemente sguaiato, sembra rivelar l’idea e forse anche l’esecuzione parziale dell’Aspertini, mentre il paesaggio ha, similmente, un’eleganza quasi di parco settecentesco.
Da questi rilievi par d’indovinare l’attenzione originaria che nel ciclo famoso non dovessero figurare che persone prime, probabilmente il Francia e il Costa: senonché, allontanandosi quest’ultimo con la caduta del Bentivoglio, le poche sue tracce non servirono a sorreggere i seguaci sfiatati e apparso ormai l’Aspertini come la nuova stella, o magari cometa, dell’arte bolognese, non solo egli aiutò in molti modi i mediocri esecutori ma attese a completare personalmente verso la porta il resto del ciclo, concluso infatti da lui anche nei frammenti dell’ambulacro che ora divide la cappella da quella Bentivoglio. Ciò verrà forse a protrarre la data del ciclo un poco oltre il 1506 segnato in uno degli affreschi precedenti, e occorrerà pertanto accordare questo indugio con i termini del soggiorno lucchese dell’Aspertini: ma la cosa non riveste importanza effettiva perchè, in ogni caso, è certo che la parete dell’Aspertini a Santa Cecilia e i dipinti di Lucca sono, almeno “internamente”, contemporanei.

M. Calvesi, Gli Affreschi di Santa Cecilia in Bologna, Milano, Grafiche Amilcare Pizzi, 1960
Costruita, secondo le fonti, nel 1319, la Chiesa di Santa Cecilia fu poi concessa in uso, e riunita (1324), al limitrofo Convento dei Padri Agostiniani di San Giacomo Maggiore, che la riedificarono nel 1356. Ma l’attuale fisionomia risale al 1484, quando Giovanni Bentivoglio, per ingrandire la sua cappella in San Giacomo Maggiore, ebbe il consenso di accorciare la chiesa confinante, che fece sistemare e ricoprire, in nuova foggia, da Gaspare Nadi. E’ possibile (ma è pura ipotesi) che in quella stessa occasione il Bentivoglio rilasciasse ai Padri Agostiniani la promessa di far degnamente decorare, con un ciclo pittorico in onore della Santa titolare, la Chiesa da lui mutilata in lunghezza e ridotta a dimensioni, piuttosto, di oratorio. L’attuazione del progetto, in ogni caso, non ebbe luogo che vent’anni più tardi, e chissà che non siano stati i flagelli abbattutisi sulla città tra il 1504 e il 1505 ad indurre il Signore di Bologna allo scioglimento di un voto troppo a lungo protratto. Le due pareti lunghe della Chiesa furono suddivise in dieci riquadri, con storie dei Santi Cecilia e Valeriano, per la cui sequenza e significato iconografico si rimanda ai brani di commento raccolti in appendice. Certo è comunque che quest’atto di devozione non fruttò, al Bentivoglio, il rimerito forse sperato, giacché di lì a breve (novembre 1506) dovette precipitosamente battere in ritirata, e fu il principio della fine. […]
Benché il ciclo di Santa Cecilia non abbia ancora trovato, presso il pubblico stesso della sua città, il grido che indubbiamente merita, non si può dire che la relativa tradizione letteraria e critica sia stata esigua, o comunque scarsa di lodi: anche se queste furono quasi sempre riservate alle idealizzanti figurazioni del Francia, e soltanto in epoca recente, con il Longhi, fu a pieno rivalutata la assai più viva ed affascinante personalità dell’Aspertini che ha, per altro, una parte anche quantitativamente maggiore nell’impresa.
Presso gli altri scrittori, lo spirito irrequieto, la vivacità sottile e prensile dell’Aspertini eran tenuti poco più che in conto di “bizzarria”, cioè di originalità soltanto apparente mentre non se ne intendeva l’originalità sostanziale. Doveva toccare al nostro secolo, lo stesso che ha rivalutato il manierismo e il barocco, di recuperare anche questo episodio di autentica libertà espressiva. Il solo Malvasia, cui il ciclo di Santa Cecilia apparve “una virtuosa emulazione a que’ tempi tra la Scuola del Francia, e Mastro Amico”, mostrò di aver compreso in qualche modo il sostanziale contrasto che, alla classica misura del Francia, oppone la mobile fantasia dell’Aspertini (per solito classificato come seguace dello stesso Francia); e di aver afferrato almeno un barlume della genialità del secondo, se lo poneva a confronto con il primo, la cui arte si valutava per altissima. […]
Quella dell’Aspertini potrebbe, per certi aspetti, dirsi una pittura popolare, se non in senso storico e sociale, certo come attributo linguistico di fondo, cioè dialettale e popolaresca, locale. Proprio in senso storico è invece d’apertura borghese e italiana la dolce “volgata” del Francia.
Se Giotto, come dice il Cennini, “rimutò l’arte del dipingere di greco in latino”, Raffaello si può dire che voltò in “italiano” il latino degli umanisti. E in effetti, il fenomeno Raffaello nasce, con l’indipendenza del genio, da una condizione tuttavia potenziale del gusto, che andava oltre il carattere regionale umbro o toscano, e interessava ormai un’area diffusa, a raggio già quasi nazionale. Ora, al Francia, spetta proprio il merito di avere, con la conversione degli aspri modi ferraresi verso l’addolcita cadenza degli umbri, favorito tra i primissimi, se non per primo, la diffusione di quel gusto, ovvero di averne intuito le condizioni di diffusione.
Del resto era logico che proprio all’Emilia, per la sua posizione confinante con l’Italia centrale, spettasse questo compito di propalazione verso il nord; e non è a caso che, a chiusura del secolo, sia ancora a Bologna con i Carracci, che si istituiscono di nuovo, dopo il ciclo del manierismo, le condizioni per lo sviluppo di un linguaggio a raggio nazionale. […]
Anche la nuova configurazione del Costa, che procede dallo scadere del ‘400, è un portato della diffusione del gusto umbro, anche attraverso il Francia, ma vitalizzato in un linearismo toscano, desunto da Filippino Lippi. Minore o più distratta intelligenza è forse nel Costa, rispetto al Francia, delle motivazioni storiche di questa diversione, dal comune ceppo ferrarese; ma anche, almeno in questa fase, minore stasi e stanchezza, certo più estro e gusto del racconto, dolcezze più affettuose, più malizia negli ovali appuntiti dei visini, più dialogo nei gesti; la stessa composizione riflette un umore più vario, sparsa di figure tutte riallacciate dalla cadenza elastica dei profili, come virgole in un periodare fitto; più amor di pittura nella stilatura fresca e sbozzata delle figurine di fondo, nel tremolio arguto dei fusti snellissimi e delle frasche, nell’impronta macchiata dei cespugli: come nel delizioso brano del cavaliere e dei pastori, nel lontano della Conversione di Valeriano, che è forse il riquadro più tenuto. Un confronto tra particolari permette di leggere la diversità tra l’andamento continuo, rotondo, del segno a graffito di contorno, nel Francia, e lo scatto, minuto ma nervoso dello stesso segno, spesso più frammentato, nel Costa.
Ma sulla tradizione letteraria istituitasi intorno al ciclo di Santa Cecilia occorre, più particolarmente, applicarsi per un controllo filologico, al fine di chiarire, ripercorrendone dall’origine le fasi, certo meccanismo attributivo che si è tramandato con gran confusione.
Francesco Francia, Lorenzo Costa, Amico Aspertini, Giovan Maria Chiodarolo, Cesare Tamaroccio, Giacomo Francia, Giulio Francia, Bartolomeo Bagnacavallo: questi sono i nomi che cronisti, storici e scrittori d’arte ci hanno, a varie riprese, tramandato come autori dei dieci riquadri ad affresco. Gli approfonditi strumenti della critica moderna ci permettono di riconoscere, con certezza, la mano di Francesco Francia nella prima e nell’ultima storia del ciclo (Nozze di Cecilia e Valeriano, Sepoltura di Cecilia); quella del Costa nella seconda e nella penultima (Conversione di Valeriano, Elemosina di Santa Cecilia); infine quella dell’Aspertini nelle tre storie centrali del ciclo (Cecilia e Valeriano coronati di rose dall’Angelo, Martirio di Valeriano e Tiburzio, Sepoltura di Valeriano e Tiburzio), oltre che, frammentariamente, nei rimanenti tre episodi, con il Battesimo di Valeriano, Cecilia davanti ad Almachio, il Martirio di Santa Cecilia. Restano inidentificati, in questi ultimi tre episodi, il collaboratore o i collaboratori dell’Aspertini, le cui parti, alquanto modeste, siamo tuttavia in grado di distinguere. Dobbiamo allora assegnare questi mediocri spezzoni al Chiodarolo, o al Tamaroccio, a Giacomo o Giulio Francia, al Bagnacavallo? E’ una questione sostanzialmente irrilevante, e in pratica non solubile, ma i cui termini possono essere sfrondati e presentati con chiarezza.

M. Lucco, La cultura figurativa padana al tempo del Codice Hammer, in Leonardo: il Codice Hammer e la Mappa di Imola presentati da Carlo Pedretti. Arte e Scienza a Bologna in Emilia e Romagna nel primo Cinquecento, Firenze, Giunti Barbera Editore, 1985, pp. 143-152.
Negli anni Settanta e Ottanta del Quattrocento, l’opera dei due maggiori ferraresi a Bologna, Francecso del Cossa ed Ercole de’ Roberti, aveva impresso una sterzata profonda alle sorti della pittura emiliana, calamitando su Bologna i vertici della qualità artistica più sostenuta, e spostando dalla Ferrara estense alla città dei Bentivoglio il ruolo di maggior produttrice di cultura figurativa nella regione. […]
Nell’ultimo decennio del Quattrocento sembrano dunque opacizzarsi gli astri del Cossa e di Ercole e, in un momento di più aperte tensioni sperimentali, crescere ed affermarsi, con leggere scalature di tempi, i tre alfieri della pittura bolognese, Francesco Francia, Lorenzo Costa ed Amico Aspertini, nell’ordine. Le intese mentali del Costa, fortunatamente scandite ad intervalli spesso molto ravvicinati da opere firmate e datate, sono state ben chiarite dalle aperture del Longhi fino ai più recenti interventi, per poterci esimere di ripercorrerle in esteso. Diverso è invece il caso del Francia, cui la moderna storiografia stenta a riservare quell’interesse dimostrato invece dal Vasari che lo riteneva, assieme al Perugino, la più idonea introduzione alla “maniera moderna” cinquecentesca….
I suoi modelli sono tutti oltre Appennino, a Firenze, e sono forse più quelli di scultori come Luca della Robbia, Mino, il Verrocchio, che di pittori. Una simile scelta può sembrare strana, ma affonda le sue radici nelle iniziali propensioni e consuetudini tecniche di orafo e plasticatore (e sia pure solo di conii per medaglie) del Francia: al quale sarà certo risultata singolarmente parlante la prima attività bolognese di Francesco di Simone Ferrucci, dai finestroni sulla fiancata occidentale di San Petronio al bellissimo monumento funebre ad Alessandro Tartagli, morto nel 1475, in San Domenico a Bologna. […]
Nessun dubbio che, arrivato a simili posizioni di eccellenza già nel nono decennio, Francia sia la personalità leader della pittura bolognese nel primo lustro dell’ultimo. […]
L’astro dell’Aspertini matura indubbiamente in fretta….egli doveva sembrare alla corte il portatore della massima novità del giorno, l’antico….; per di più, lo sfrenato emozionalismo della sua pittura non poteva non far breccia in una società che, suggestionata dalla lirica contemporanea, era arrivata ad un gradiente psicologico molto sensibile ed eccitato. E infine, egli si proponeva come un artista per la prima volta in possesso di una cultura figurativa molto ampia e diramata…. e dunque il solo, a Bologna, in grado di dare alla Pittura un nuovo status nel sistema della vita culturale… e di inventare canoni e modelli figurativi che delle aspirazioni intellettuali ben vive nella corte bentivogliesca, fossero l’espressione insieme più vera e più moderna. […]
Entriamo dunque fra le mura dell’Oratorio. Dei dieci riquadri colà affrescati, quattro rimangono ancora in attesa di una definizione critica affidabile; gli altri sei spettano all’Aspertini, al Costa ed al Francia, che ne dipinsero due ciascuno, affrontati sulle pareti. Poiché la regola di una rispondenza simmetrica di ciò che spetta ad un artista, rispetto all’occhio di uno spettatore che si muova lungo l’asse longitudinale dell’edificio, dalla porta all’altare, è seguita nel 60% della decorazione, non si vede perché dovrebbe essere infranta nel restante 40%; essendo così altamente probabile che chi dipinse l’affresco con S. Cecilia e S. Valeriano incoronati dall’Angelo sia responsabile anche della Disputa col Prefetto Almachio, e che ad una stessa mano si debba il Battesimo di Valeriano ed il Martirio di Santa Cecilia. Se è vera questa logica distributiva, essa sembra avere alla base l’idea di una tenzone artistica fra i migliori pittori bolognesi dell’epoca. E sarà a causa dell’omogeneità linguistica qui raggiunta che le fonti scorsero la mano dell’Aspertini in tre dei riquadri, quasi a riconoscergli la funzione di leader; di fatto, solo due sono inequivocabilmente suoi. Nell’Incoronazione di Cecilia e Valeriano, che pur tanto gli si approssima da aver occasionato una attribuzione di Longhi in favore dell’amatissimo maestro bolognese, Paolo Venturosi ha scorto invece la stessa mano della pala di Bagnocavallo…E’ possibile che il Bagnacavallo si reggesse su una traccia compositiva di Aspertini, ma, per quanto si sa oggi della grafica di quest’ultimo, non pare probabile che il disegno degli Uffizi con la Disputa di Almachio, riferitogli dal Longhi, gli spetti, e sia dunque preparatorio per l’affresco. [….]
Rimangono altre due scene dalla paternità sinora incerta; e, anche qui, i vecchi riferimenti a Tamaroccio sono stati permutati dal Longhi a favore di un “Anonimo bolognese e Aspertini”, nella convinzione che il caposcuola bolognese fosse intervenuto a sostegno di artisti poco dotati con invenzioni moderne come il portatore di legname, di schiena, nel Martirio di Santa Cecilia, o del paesaggio nel Battesimo di Valeriano. Il fatto è che il Longhi pensava al Tamaroccio e per estensione anche al Chiodarolo, più come a miti storiografici che come a persone, non essendo disposti nemmeno ad accreditare l’autenticità indiscutibile della firma del primo sulla Madonna con bambino (inv. N. 307) del Museo Poldi Pezzoli a Milano; non par dubbio, in ogni caso, che, chiunque abbia dipinto la tavola di Milano, egli è responsabile anche della donna dietro la caldaia del Martirio di Santa Cecilia. Vi è poi un fatto nuovo, per quanto riguarda Chiodarolo; nel corso delle ricerche per questa esposizione, infatti, Elisabetta Sambo ha potuto identificare la tela dell’Accademia Carrara di Bergamo (cat. 9), la cui vicenda critica non risaliva più indietro dell’attribuzione del Venturi (1914) in favore del Tamaroccio, con quella descritta dal Malvasia (1686) nella Chiesa della Maddalena di Stra’ San Donato, sotto il nome del Chiodarolo. Non siamo ancora alla certezza assoluta, evidentemente, ma la scrupolosità dell’informazione dello storico bolognese sui pittori della patria fa sì che quel riferimento abbia fondate probabilità di esser vero. […]
Ora, mentre il Malvasia non cita il Tamaroccio fra gli autori degli affreschi dell’oratorio, ricorda bensì chiaramente il Chiodarolo, sia pure in una storia diversa da quelle che riteniamo sue; del resto, ad un confronto qualitativo fra la tavola milanese e la tela bergamasca, pare abbastanza ovvio riconoscere al Chiodarolo una statura superiore, e dunque la possibilità di una direzione dell’impresa per i due riquadri affrescati, lasciando al Tamaroccio il ruolo di mero esecutore. […]
La valenza indubbiamente gentilizia e cortigiana di quel ciclo, dalla scelta del tema ai modi della realizzazione, fino alla stessa ubicazione, rendono assai probabile che all’epoca della cacciata dei Bentivoglio esso fosse del tutto concluso; in caso contrario, è difficile pensare che in un momento in cui si andavano distruggendo anche le effigi simboliche del potere signorile (quel palazzo di Stra’ San Donato che resta la perdita più grave per la storia di Bologna rinascimentale) si potessero reperire l’entusiasmo ed i fondi per portarlo a compimento.