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Sei lettere - Claudio Monteverdi



giovedì 28 febbraio 2008 legge Antonio Baroncini
Claudio Monteverdi, (Cremona 1567 – Venezia 1643), è uno dei più grandi musicisti del mondo occidentale, fra le mirabili geometrie dell’ “antica” polifonia rinascimentale e le avanguardie della nascente opera italiana. Dotato di un eccezionale talento, non si contentò mai di licenziare lavori soltanto ben fatti e alla moda, e divenne un instancabile indagatore delle possibilità offerte alla musica di raccontare “gli affetti”, per i quali le conquiste tecniche ed estetiche a lui precedenti risultavano tanto meravigliose quanto insufficienti.
Il suo Epistolario, (circa 130 lettere redatte fra il 1601 e il 1643, studiato ed ordinato soltanto negli ultimi anni) ci pernette di comprendere le pieghe e i movimenti dell’uomo e dell’artista e il suo“sermo humilis”, talora involuto e occulto, ci offre straordinarie visioni in tempo reale sul paesaggio umano dei primi decenni del Seicento. Barocco, molto barocco, ed imperdibile. Della raccolta monteverdiana presentiamo, nella lingua originale restituitaci dagli ultimi studi filologici di settore, sei lettere: la musica e i viaggi, le piaggerìe e il denaro, la teoria e la prassi, i figli i cantanti gli amici e i “padroni collendissimi”, la voglia di rappresentare a tutti i costi “il patetico” e “l’irrazionale”. 


Edizione di riferimento: Claudio Monteverdi. Lettere, a cura di Eva Lax. Firenze 1994)

MANTOVA, 28 NOVEMBRE 1601
AL DUCA VINCENZO GONZAGA, KANIZSA


(Claudio Monteverdi, Lettera 1. Archivio di Stato di Mantova, Autografi, busta 6, carte 77-78)


[Indirizzo:] Al Serenissimo Signore, mio Signore Colendissimo/ Il Signor Ducca di Mantoa / Canisa

Serenissimo Signore, mio Signore Colendissimo,

S’io non coressi a chiedere alla bona grazia di Vostra Altezza Serenissima con la propria voce, in questa occasione de la morte del Pallavicino, il titolo che già il signore Giaches aveva sopra la musica, forsi che a mio cordoglio la invidia ne li effetti altrui potrebbe, più oratoriamente che musicalmente, con sifatti modi apparenti adoperarsi che, machiando la bona mente de l’Altezza Serenissima Sua verso di me, li potrebbono dar a credere che ciò nascesse da qualche temenza de inabilitate mia, o da qualche troppo credere di me stesso, che perciò me ne stassi aspetando ambiziosamente quello che doveva (come debole servitore che sono) con particolar umiliate dimandar affettuosamente e cercare; né parimente, se non cercassi di più aver occasione di servir alla Altezza Serenissima Sua, tanto più quanto che Ella si rapresenta, averebbe particolar argomento di lamentarsi giustamente d’una negligente servitù mia e, insieme, il mio debole sapere a bone conclusioni non cercandole maggior adito di mostrarsi al finissimo gusto del udito Suo ancora ne’ motetti e messe valere qualche poco, potrebbe di me lamentarsi con giusta causa. E finalmente il mondo, avendomi visto nel servizio de l’Altezza Serenissima Vostra con mio molto desiderio e con bona grazia Sua dopo la morte del famoso signor Striggio perseverare, e dopo quella del eccellente signor Giaches, e ancora per terza dopo quella del eccellente signor Franceschino, e finalmente ancora dopo questa del soffiziente messer Benedetto Pallavicino, e che io non ricercassi (non per merito di virtute, ma per merito di fedele e singolar devozione che ho sempre tenuto verso il servizio di Vostra Altezza Serenissima) il loco ora vacante in questa parte de la Chiesa, e che, in tutto e per tutto, non dimandassi con grande instanza e umiliate il sudetto titolo, con ragione potrebbe mormorare de la mia negligenza.
Pe tutte le sudete ragioni dunque, e per quelle forsi, per mia bona ventura, che la bontà Sua potrebbe aggiungere, non avendo sdegnato mai di udir li deboli componimenti miei, io Li chieggio supplichevolmente d’esser mastro e de la Camera e de la Chiesa sopra la musica, il che, facendomi degno la bontà e grazia Sua, io lo riceverò con quella umiltà che a debole servitore conviene quando che da gran principe come è l’Altezza Serenissima Sua vien favorito e agraziato, alla Quale m’inchino e Li facio umilissima riverenza, pregandoLe ogni giorno da Dio quel contento maggiore che servitore devoto e fedele può desiderare con grande affetto al suo signore.

Da Mantova, il 28 novembre 1601

Di Vostra Altezza Serenissima
umillissimo e obbligatissimo servitore
Claudio Monteverdi


VENEZIA, 9 DICEMBRE 1616
AD ALESSANDRO STRIGGI, MANTOVA


(Claudio Monteverdi, Lettera 19. Archivio di Stato di Mantova, Autografi, busta 6, carte 144-145)

Illustrissimo mio Signore e Padrone Colendissimo,

Ho riceùto con ogni allegrezza d’animo dal signor Carlo de’ Torri la lettera di Vostra Signoria Illustrissima e il librettino contenente la favola maritina delle Nozze di Tetide.
Vostra Signoria Illustrissima mi scrive che Lei me la manda aciò la vegga diligentemente e dopo Glie ne scriva il parer mio, dovendosi porre in musica per servirsene nelle futture nozze di Sua Altezza Serenissima. Io, Illustrissimo Signore, che altro non desidero che valere in qualche cosa per servizio di Sua Altezza Serenissima, altro non dirò , per prima risposta, che prontamente offerirmi a quanto sua Altezza Serenissima sempre si degnerà comandarmi, e sempre, senza replica onorar[e] e riverire tutto che Sua Altezza Serenissima comandarà; sì che se l’Altezza Serenissima Sua aprobasse questa, questa per consequenza sarebbe e bellissima e molto a mio gusto; ma se Lei mi agionge ch’io dicca, io sono ad ubbidire alli comandamenti di Vostra Signoria Illustrissima, con ogni riverenza e prontezza, intendendo che il mio dire sia un niente, come persona che vaglia poco in tutto, e persona che onora sempre ogni virtuoso, in particolare il presente signor poeta che non so il nome, e tanto più quanto che questa professione della poesia non è mia.
Dirò dunque, con ogni riverenza, per ubidirLa, poiché così comanda, dirò, dico, prima in genere, che la musica vol essere padrona del’aria e non solamente del’acqua: volio dire, in mio linguaggio, che li concerti descritti in tal favola sono tutti bassi e vicini alla terra – mancamento grandissimo alle belle armonie, poiché le armonie saranno poste ne’ fiati più grossi del’aria della sena, fatticose da essere da tutti udite e, dentro alla sena, da essere concertate (e di questo ne lasciola sentenza al Suo finissimo gusto e intelligentissimo), ché, per tal difetto, in loco d’un chitarrone ce ne vorà tre, in loco d’un’arpa ce ne vorrebbe tre e va discorendo; e in loco d’una voce delicata del cantore ce ne vorrebbe una sforzata; oltre di ciò la imitazione propria del parlare doverebbe, a mio giudizio, essere appoggiatasopra ad ustrimenti da fiato piuttosto che sopra ad ustrimenti da corde e delicati, poiché le armonie de’ tritoni e altri dèi marini credderò che siano sopra a tronboni e cornetti, e non sopra a cettere o clavicenbani e arpe, poiché, questa operazione essendo marittima, per consequenza è fuori dela città: e Pattone insegna che “cithara debet esse in civitate et tibia in agris”; sì che o che le delicate saranno inproprie, o le proprie non delicate.
Oltre di ciò ho visto li interlocutori essere Venti, Amoretti, Zeffiretti e Sirene, e per consequenza molti soprani faranno de bisogno; e s’aggionge di più che li Venti hanno a cantare, cioè li Zeffiri e li Boreali! Come, caro Signore, potrò io imitare il parlar de’ venti,se non parlano?! E come potrò io con il mezzo loro movere li affetti? Mosse l’Arianna per essere donna, e mosse parimente Orfeo per essere omo, e non vento. Le armonie imittano loro medesime, e non con l’orazione, e li strepiti de’ venti, e il bellar dele pecore, il nitrire de’ cavalli e va discorendo, ma non imitano il parlar de’ venti che non si trova!
Li balli, poi, che per entro a tal favola sono sparsi, non hanno piedi da ballo.
La favola tutta, poi, quanto alla mia non poca ignoranza, non sento che ponto mi mova, e con difficoltà anco la intendo, né sento che lei mi porta con ordine naturale ad un fine che mi mova: l’Arianna mi porta ad un giusto lamento e l’Orfeo ad una giusta preghiera; ma questa – non so a qual fine. Sì che, che vole Vostra Signoria Illustrissima che la musica possa in questa? Tuttavia il tutto sarà sempre da acettato con ogni riverenza e onore quando che così Sua Altezza serenissima comandasse e gustasse, poiché è padrona di me senza altra replica.
E quando Sua Altezza Serenissima comandasse che si facesse in musica, vedendo che in questa piùdeitati che altri parlano, le quali mi piace udire, le editati, cantar di garbo, direi che le Sirene, le tre signore sorelle, cioè Andriana e altre, le potrebbono cantare e altre sì comporsele (così il signor Rasso la sua parte, così il signor don Francesco parimente, e va discorendo neli altri signori), e qui imitare il signor cardinal Mont’Alto che fece una commedia che ogni sogetto che in essa interveneva si compose la sua parte; ché se fosse cosa questa che tendesse ad un sol fine, come l’Arianna e l’Orfeo, ben sì ci vorrebbe anco una sol mano, cioè che tendesse al parlar cantando e non come questa, al cantar parlando. E la considero anco in questo pensamento troppo longa in ciascheduna parte nel parlare, dale sirene in poi, e certa altra ragionatela.
Mi scusi, caro Signore, se troppo ho detto, non per detraere cosa alcuna, ma per desiderio di ubbidire alli Suoi comandamenti, ché, avendola da porre in musica, se così mi fosse comandato, possi Vostra Signoria Illustrissima considerar li miei pensamenti.
Mi tenghi, La supplico con ogni affetto, devotissimo e umilissimo servitore a quella Serenissima Altezza alla quale faccio umilissima riverenza; e a Vostra Signoria Illustrissima bacio con ogni affetto le mani e Li prego da Dio il colmo d’ogni felicità.

Da Venezia, il 9 decembre 1616

Di Vostra Signoria Illustrissima, alla Quale auguro con ogni
Affetto le bone feste,
umilissimo servitore e obbligatissimo
Claudio Monteverdi




VENEZIA, 9 FEBBRAIO 1619
AD ALESSANDRO STRIGGI, MANTOVA


(Claudio Monteverdi, Lettera 31. Archivio di Stato di Mantova, Autografi, busta 6, carte 170-171)

Illustrissimo mio Signore e Padrone Colendissimo,

E la passata e la presente lettera di Vostra Signoria Illustrissima ho riceùto, ma ben sì con questa differenza che, io essendo andatto ad accompagnare Francesco, mio figliolo primo, a Bologna, passate che furno le prime feste di Natale, con occasione di levarlo da Padoa, per levarlo dal bon tempo che l’illustrissimo signor abbate Morosini li somministrava per il mezzo della sua gentilezza, per godere d’un poco del cantare del putto, qual alla fine mi sarebbe riuscito più tosto bon cantore, con li altri agionti, come sarebbe a dire… (ma è meglio ch’io me li taccia), che mezzano dottore – e purre il mio pensiere vorrebbe che fosse in questo secondo bono e nel primo mediocremente e per adornamento. Sì che per causa di giovare al putto, come ho ben fatto, e alla mia soddisfazione, me ne andai, dicco, ad acomodarlo in Bologna in dozina de’ Padri de’ Servi, nel qual convento vi si legge quotidianamente e si disputa; e ivi son statto per tal accidente da 15 giorni. Siché, tra l’andare, tornare e stare, appena posso dire d’essere gionto in Venezia, nel cui mio arrivo la detta prima di Vostra Signoria Illustrissima mi fu consegnata.
E se questa presente seconda, or ora dalla posta riceùta, non avessi aùto, come debitore ch’io ero in rispondere alla umanissima lettera di Vostra Signoria Illustrissima, per questo presente coriere che si ritorna, avevo determinato far sapere a Vostra Signoria Illustrissima quanto anco al presente ho a Lei di sopra narato. Spero, come gentilissima, acetterà la mia vera scusa per leggitima; assicurandoLa certo che se a tempo io avessi a§to la prima lettera e che io non fossi statto da urgente necessità inpedito, di già averei mandato ad effetto quanto si è degnata comandarmi. Ma poiché Vostra Signoria Illustrissimasi contenta aver il ballo per questa Pasca, siane sicura d’averlo, né farei questo così gran mancamento apresso di me, di non far tutto ch’io possa per servirLa, per mantenermi tanto Suo servitore con li effetti, quanto faccio professione d’esserLe e in voce e in iscritto.
Dio Nostro Signore conceda il colmo d’ogni conpita felicità a Vostra Signoria Illustrissima, alla Quale per fine facioLe riverenza e Li bacio le onorate mani.

Da Venezia, il 9 febraio 1619

Di Vostra Signoria Illustrissima
servitore devotissimo
Claudio Monteverdi


VENEZIA, 22 OTTOBRE 1633
A GIOVANNI BATTISTA DONI, ROMA


(Claudio Monteverdi, Lettera 124. Firenze, Conservatorio di musica “Luigi Cherubini”, fondo Basevi 2438, 15° volume, carte 7-9)

Molto Illustre e Reverendissimo mio Signore e Padrone Colendissimo,

Ad una lettera umanissimadell’illustrissimo signor vescovo Corsaro, mio singolar signore e padrone colendissimo, inviatami da Padova, era annessa una di Vostra Signoria Reverendissima, a me diretta, ricca de frutti di onore e di lode cotanta verso la debil persona mia che ne restai quasi ammirato. Ma considerato poscia che da una pianta virtuosissima e gentilissima come la persona di Vostra Signoria Reverendissima non poteva nascere altro frutto che di simile natura,, mi tacqui, non recevendo però la raccolta come degno, ma ben sì per conservarla alli singolari meriti di Vostra Signoria Reverendissima, conoscendomi ben sì essere pianta verde, ma di quella natura che altro non produce che frondi e fiori di niun odore. Si degnerà dunque di accettar da me, per risposta, le degne lodi dela Sua nobillissima lettera, tenendo per gran favore che mi onori d’essere da Lei riceùto per Suo umillissimo servitore.
Monsignor Vicario di Santo Marco, avendomi favorito in trattar dele nobil qualità e singolar virtù di Vostra Signoria Reverendissima , mi notificò come che Ella scriveva un libro di musica, nel qual accidente soggiunsi che anch’io ne scrivevo un altro, ma con tema dela mia debolezza per dover giongere al creduto fine. Qual signore essendo molto servitore al signore illustrissimo Vescovo di Padova, vo credendo che per tal via sua signoria illustrissima abbi inteso del mio scrivere, ché per altra non so, non curandomi che si sappia. Ma poiché sua signoria illustrissima si è degnata onorarmi cotanto presso alla gentilezza di Vostra Signoria reverendissima, La supplico ad intendere di più anco il rimanente.
Sappia dunque come che è vero ch’io scrivo, ma però sforzatamente, essendo che l’accidente che già anni mi spinse a così fare, fu di così fatta natura che mi tirò, non accorgendomi, a promettere al mondo quello che, dopo avedutomene, non potevano le debil forze mie. Promisi, dicco, in istampa di far conoscere ad un certo teorico di prima pratica che ve ne era un’altra da considerare intorno all’armonia, non conosciuta da lui, da me adimandata seconda; e la causa fu perché si pigliò per gusto di far contro, purre in istampa, ad un mio madrigale, cioè in alcuni passi armonici suoi, fondato sopra alle ragioni di prima pratica, cioè sopra lle regole ordinarie come che se fossero statte solfe fatte da un fanciullo che incominciasse ad imparar notta contra notta, e non in ordine alla cognizione melodica; ma udito egli una certa divisione mandata in istampa in mia difesa da mio fratello, si quetò in maniera che per l’avenire non solamente si fermò di passar più oltre, ma, volgendo la penna in lode, cominciò ad amarmi e a stimarmi. La promessa publica però non volle che mancassi alla promessa, per loche sforzatamente tendo a pagar il debito. La supplico dunque a tenermi per scusato del’ardire.
Il titolo del libro sarà questo: Melodia overo seconda pratica musicale. Seconda (intendendo io) considerata in ordine alla moderna, prima in ordine all’antica. Divido il libro in tre parti rispondenti alle tre parti de la melodia: nella prima discorro intorno al’orazione, nella seconda intorno all’armonia, nella terza intorno alla parte ritmica. Vado credendo che non sarà discaro al mondo, posciaché ho provato in pratica che quando fui per scrivere il Pianto del’Arianna, non trovando libro che mi aprisse la via naturale alla imitazione, né meno che mi illuminasse che dovessi essere imitatore, altri che Platone (per via di un suo lume rinchiuso così che appena potevo scorgere di lontano, con la mia debil vista, quel poco che mi mostrava), ho provato, dicco, la gran fatica che mi bisognò fare in far quel poco ch’io feci d’immitazione, e perciò spero sii per non dispiacere. Ma rieschi come si voglia: alla fine son per contentarmi d’essere piuttosto poco lodato nel novo che molto nel’ordinario scrivere; e di questa altra parte d’ardire ne chieggio novo perdono.
Quanta consolazione poi abbi sentito in aver inteso che a’ nostri tempi si sia ritrovato un novo istromento, Dio lo dichi per me, Qual prego con ogni affetto mantenghi e feliciti la virtuosissima persona del signor inventore che è statta la persona di Vostra Signoria reverendissima. In verità ho molte e molte volte fra pensato sopra la causa, per ritrovarla, sopra la quale, dicco, ove si fondavano gli antichi per ritrovarne di cotante differenze come hanno fatto, ché non solamente sono molte quelle che usiamo, ma molte quelle che si sono perse, né vi è statto pur un teorico de’ nostri tempi (e pur hanno fatto professione di saper il tutto del’arte) che pur uno ne abbia mostrato al mondo. Spero però dir qualche cosa nel mio libro intorno a tal capo che forsi non spiacerà.
Dala consolazione mia narata ben puote argomentare Vostra Signoria reverendissima se mi sarà caro il favore promessomi dala Sua gentilezza a suo tempo, cioè in essere favorito di una copia di così degna lettura aportante cose recondite e nove, perciò La supplico a tenermi per Suo umilissimo servitore e obbligato. E qui facendoLe umilissima riverenza, con tutto l’affetto Gli bacio le onoratissime mani.

Da Venezia, gli 22 ottobre 1633

Di Vostra Signoria Molto Illustre e Reverendissima
servitore devotissimo e obbligatissimo
Claudio Monteverdi


VENEZIA, 2 FEBBARIO 1634
A GIOVANNI BATTISTA DONI, ROMA


(Claudio Monteverdi, Lettera 125. Firenze, Conservatorio di musica “Luigi Cherubini”, fondo Basevi 2438, 15° volume, carte 13-15)

Molto Illustre e Reverendissimo mio Signore e Padrone Colendissimo,

Due lettere di Vostra Signoria Reverendissima ho riceùto: l’una avanti Natale, in tempo che mi trovavo tutto occupato nel scrivere la messa per la notte di Natale, messa aspettata dal’uso de la cità, nova, dal maestro di capella; l’altra quindici giorni fa dal corriere, quale mi ritrovò in stato non ben guarito da una discesa catarrale che poco dopo Natale mi cominciò a sopravvenire sopra al’occhio sinistro, la quale mi ha tenuto lunghi giorni lontano non solamente dal scrivere, ma dal leggere; né paranco mi trovo libero affatto, ché ancora mi va alquanto travagliando. Per gli quali duoi veri impedimenti, vengo a supplicar Vostra Signoria Reverendissima a perdonarmi l’errore dela tardanza mia nel scrivere.
Lessi quindici giorni fa, e non prima, la cortesissima e virtuosissima prima lettera di Vostra Signoria Reverendissima, dala quale ne cavai affettuosissimi avisi e degni tutti da essere molto considerati da me, per lo che Glie ne vengo a rendere infinite grazie. Ho però visto non prima d’ora, anzi, venti anni fa il Galilei colà ove nota quella poca pratica antica. Mi fu caro all’ora l’averla vista, per aver visto in questa parte come che adoperavano gli antichi gli loro segni praticali a differenza de’ nostri, non cercando di avanzarmi più oltre ne lo intenderli, essendo sicuro che mi sarebbero riusciti come oscurissime zifere, e peggio, essendo perso in tutto quel modo praticale antico. Per lo che rivoltai gli miei studi per altra via, appoggiandoli sopra a’ fondamenti de’ migliori filosofi scrutatori de la natura. E perché, secondo ch’io leggo, veggo che s’incontrano gli effetti con le dette ragioni e con la soddisfazione dela natura mentre scrivo cose praticali con le dette osservazioni, e provo realmente che non ha che fare queste presenti regole con le dette soddisfazioni, per tal fondamento ho posto quel nome di seconda pratica in fronte al mio libro e spero di farla veder così chiaro che non sarà biasimata, ma bensì considerata dal mondo. Lassio lontano nel mio scrivere quel modo tenuto da’ greci con parole e segni loro, adoperando le voci e li carateri che usiamo nela nostra pratica; perché la mia intenzione è di mostrare, con il mezzo dela nostra pratica, quanto ho potuto trarre da la mente de que’ filosofi a servizio dela bona arte, e non a principii dela prima pratica, armonica solamente. Piacesse a Dio che mi trovassi vicino alla singolar amorevolezza e singolar prudenza e avisi di Vostra Signoria Reverendissima, come che il tutto a bocca, supplicandoLa ad udirmi, il tutto, dicco, Gli direi, così intorno all’ordine, come alli principii e alle divisioni dele parti del mio libro, ma questo essere lontano me lo vieta.
Per grazia speziale riceùta dala somma bontà dela Santissima Vergine l’anno contagioso di Venezia son in obligo d’andar alla Santissima Casa di Loreto di voto; spero nel Signore presto scioglierlo; con la qual occasione son per giungere sino a Roma, che piacia al Signore, me ne facci la grazia, per potermi constituir di presenza servitore a Vostra Signoria Reverendissima e godere e dela vista e del nobillissimo suono del Suo nobillissimo istromento e ricever l’onore de’ Suoi virtuosissimi discorsi. L’ho visto in dissegno sopra ad una particella da Lei mandatami, la quale, in guisa di semarmi la volontà, per lo contrario me l’ha fatta più crescere.
E perché nella detta seconda lettera mi comanda ch’io mi adoperi con Scapino aciò possa io mandare a Vostra Signoria Reverendissima gli dissegni de’ suoi molti istromenti stravaganti che egli tocca, per il desiderio grande ch’io tengo d’incontrar occasione di servirLa, e in questo non avendo potuto, per recitar egli in Modena e non in Venezia, perciò ne ho sentito molto disgusto. Ho però usato questa poca di diligenza con certi amici che almeno mi discrivano quelli che loro si ponno ricordare; così mi hanno datto la presente cartina che ora qui invio a Vostra Signoria Reverendissima. Non ho mancato di scrivere ad amico che vegga de essi di averne de’ più differenti dal’uso gli dissegni. Io non gli ho mai visti, ma, dala detta poca informazione ch’io mando, mi pare che siano novi di forma, ma non d’armonia, poiché tutti cadono nele armonie de gli ustrimenti che usiamo.
Quello che ho visto io, già trenta anni fa, in Mantoa, tocco e fatto da un tal arabo che all’ora veneva da Turchia (e questo era loggiato in corte di quella Altezza di Mantoa, mio signore), era una cettera dela grandezza dele nostre, cordata con le stesse corde e parimente sonata, la quale aveva questa differenza che il coperto di essa era mezzo di legno da la parte di sotto, ben tirata e incolata intorno ad esso cerchio dela cettera; le corde dela quale erano attacate ben sì al cerchio di sotto di essa cetera e si appoggiavano sopra al scanello, quale era posto nel mezzo di essa carta pecora; e il deto piciolo dela mano dela penna facendo ballare la detta carta pecora mentre toccava le armonie, esse armonie uscivano con il moto del tremolo, che rendevano un gratissimo effetto. Altro di più novo non ho udito, al mio gusto. Starò sul’aviso, e se mi sarà acennato cosa che possa portarLe gusto, non mancherò di subbito mandarLiene un dissegnetto.
SupplicoLa a conservarmi servitore nella Sua bona grazia, mentre con tutto l’affetto e riverentemente Gli bacio la mano e da Nostro Signore Gli prego ogni più conpita felicità.

Da Venezia, gli 2 febraro 1634

Di Vostra Signoria Molto Illustre e Reverendissima
servitore devotissimo
Claudio Monteverdi



VENEZIA, 9 GIUGNO 1637
AI PROCURATORI DI SAN MARCO, VENEZIA


(Claudio Monteverdi, Lettera 126. Venezia, Archivio di Stato, Procuratori di San Marco de supra, serie Chiesa, busta 91, procedimento 208 (ex sala Regina Margherita), carte 96-103; la metà inferiore della carta è molto slavata, difficilmente leggibile; manca un pezzo dell’angolo inferiore destro)

Illustrissimi ed Eccellentissimi Signori e Padroni Collendissimi,

Io, Claudio Monteverdi, maestro di capella di Santo Marco, umillissimo servo deleVostre Eccellenze e dela Serenissima Republica, vengo umilmente alla Loro presenza ad esporLe come che Domenico Aldegati, cantore in Santo Marco, basista, eri matina che fu alli 8 del presente mese di giugno 1637, avanti alla porta grande di essa chiesa, nel’ora del maggior concorso del popolo e nel quando eravi maggior numero de’ cantori e sonatori – vi era anco un tal Bonivento Boniventi, musico, che andaseva destribuendo a’ cantori e sonatori certi denari dattili da le signore illustrissime monache di Santo daniele per la fonzione del vespero che fecero avanti il levar procesionalmente il corpo di santo Giovanni, duca di alessandria – o fosse la causa questa, perché forsi non glie ne toccò de detti denari, o fosse perché meno fosse la sua distribuzione rispetto alle altre distribuzioni (che non lo so, perché mai m’intrico negli interessi de denari de’ cantori), fuori d’ogni causa e di ogni giustizia, non portando rispetto né alla carica ch’io tengo da la Serenissima Republica, né alla mia età, né al mio sacerdozio, né all’onor de la mia casa e de la mia virtù, ma spinto da una voluntà, tutto in furia e ad alta e strepitosa voce, dopo alcuni minuti primi strapazzamenti di mia persona, fatto perciò radunare a semi cerchio più di cinquanta persone, parte de’ quali erano forastieri, fra’ quali che erano presenti forno:
- il signor Giovanni Battista, detto il Bolognese, cantor di capella;
- signor Gasparo Zerina, bresciano, che sona di contrabasso;
- signor Alovigi Lipamani;
- signor don Anibale Romano, cantor di capella;
- signor Giovanni Battista Padoano, che sona di tronbone;
e il detto messer Bonivento Boniventi, che distribu[iva] gli detti danari, disse le formate parole (come ben mi hanno riferto alcuni de’ detti testimoni): “Il maestro di capella è di una razza bozerona; ladro becco fotuto” – con molte altre ingiurie scelerate; poi soggionse: “E ho in culo lui e chi lo protegge. E aciò che ogni uno m’intenda, dicco essere quel ladro becco fotuto di Claudio Monteverde. E a te dicco, o Bonivento, aciò glie lo vadi a riferire da mia parte”.
Vengo per tanto a’ piedi dele Vostre Eccellenze a supplicarLe, non come Claudio Monteverdi sacerdote (ché, come tale, il tutto gli perdono e ne prego Dio che faccia il simile), ma come maestro di capella, la quale autorità derivando dala regia mano dela Serenissima Republica, non vogli consentire che resti in tal modo strapazzata e ingiuriata né lamia virtù, né l’onor di mia casa, che si protegge sotto alla serenissima mano di questa Serenissima Republica, ma con aricordo a questo tale che gli altri cantori piglino esempio a star ne’ termini onorevoli verso ad ogni uno, specialmente verso di chi tiene il nome di maestro di capella. In altra maniera, per onor mio, sarei sforzato, per schivar la seconda occasione per bocca di lui o per altri suoi simili pari, dimandar una bona licenza per andarmene sotto alla protezione de’ miei beni lassiatimi da’ miei antecessori, pochi sì, ma però bastevoli in mantenermi lontano da simili male e licenziose occasioni; il che sperando come cosa giusta, qui me Gli inchino a terra.

Io, Claudio Monteverdi, ho scritto e supplico
[che ne] la vita di questo non sii fatto danno.