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Retorica e logica - Giulio Preti


lunedì 04 maggio 2009 legge Sandro degli Esposti
Quali aspetti differenziano le "forme del pensare" implicite nella scienza e nella letteratura? E quali rapporti si stabiliscono tra i due differenti modelli di riflessione? In questa prospettiva il filosofo italiano Giulio Preti, nella sua opera Retorica e logica, ripropone la problematica delle "due culture", a quasi dieci anni dalla pubblicazione del celebre libro di Snow, con l’obiettivo di individuare le modalità fondamentali con cui l’uomo contemporaneo elabora il proprio patrimonio intellettuale ed emotivo.
Dopo l’acceso e stimolante dibattito sviluppatosi in seguito alla lettura de Le due culture di Snow, era doveroso riprendere la discussione su questo tema di grane fascino ed evidentemente sentito da molti come urgente.


Giulio Preti, Retorica e logica, Torino, Einaudi, 1968

Due forme del pensiero
L’opposizione è piuttosto tra due "forme" – forme mentali, se si vuol parlare con linguaggio mentalistico; forme della cultura o dello spirito oggettivo: due diverse scale di valori, due diverse nozioni di 'verità', due diverse strutture del discorso [...]
Queste "forme" hanno un loro tipo di esistenza – se si vuol dire così, un’esistenza storica. Nel corso dei secoli hanno sviluppato le loro forme specifiche – forme, naturalmente, indefinitamente aperte a contenuti svariati, eppure determinanti al loro interno certi rapporti, certe direzioni intenzionali, certi schemi di discorso. Così il letterato porta dentro alla sua attività la sua esperienza di uomo, ma si trova di fronte a, ed entro, la forma della letteratura; così lo scienziato.
In un breve, ma luminoso ed equilibrato contributo in un fascicolo dedicato all'unità della scienza, John Dewey ha messo bene in evidenza, naturalmente nel suo linguaggio e nei limiti di esso, una distinzione tra "scienza come atteggiamento e scienza come corpo di dottrina [subject matter]". L'unità della scienza, comunque si risolva la cosa dal secondo punto di vista, esiste certamente dal primo: come atteggiamento e metodo la scienza non solo è unitaria, ma trascende persino le scienze, né è confinata agli scienziati. In che cosa consiste l'atteggiamento scientifico? «Nei suo lato negativo, è libertà dal dominio dell'abitudine, del pregiudizio, del dogma, della tradizione acriticamente accettata, dal mero egoismo. Positivamente, è volontà di ricercare, esaminare, decidere, trarre conclusioni solo sulla base delle prove e solo dopo essersi data la pena di procurarsi tutte le prove disponibili. È intenzione di raggiungere credenze, e di mettere alla prova quelle che si ritengono, sulla base del fatto osservato, riconoscendo però che i fatti sono privi di significato se non rimandano a idee. E viceversa è atteggiamento sperimentale che riconosce che, anche se le idee sono necessarie per operare con i fatti, tuttavia sono ipotesi di lavoro che devono essere saggiate mediante le conseguenze che producono».
Ora non è il caso di entrare a discutere la caratterizzazione deweyana dell'atteggiamento scientifico – se tale caratterizzazione sia corretta, se sia sufficiente, eccetera. Qui e ora possiamo prenderla per buona: essa basta a mostrare come esista un "atteggiamento" genericamente scientifico, ossia una forma che definisce l'eidos'scientificità' e informa, appunto, la cultura scientifica nel suo complesso. […]
È ugualmente caratterizzabile la cultura delle humanae litterae? Tentativi per caratterizzarla ce ne sono stati moltissimi (e lo si è visto anche negli interventi nell'attuale controversia): ma disgraziatamente sono stati fatti non con mentalità scientifica (come invece è stata fatta, dagli scienziati stessi, la caratterizzazione della scienza), bensì da letterati con mentalità letteraria. Donde l'ineliminabile caos. (E forse questo fatto potrebbe essere un avvio, peraltro alquanto negativo, a caratterizzare l'atteggiamento e la forma mentis letterari). Tenteremo nel seguito di farlo. Qui ci preme di osservare una cosa: che anch'esso è un atteggiamento, unaforma mentis, aperto, come quello scientifico, ad ogni subject-matter.
L'una e l'altra sono due "culture" – due forme universali, due atteggiamenti universali, con cui l'uomo prende posizione di fronte al mondo, ai suoi simili e a se stesso. Non si può fare una "spartizione" irenica di interessi: i moti degli astri come il destino (più o meno "tragico") dell'uomo – e tutti gli argomenti che stanno in mezzo – interessano tanto la letteratura quanto la scienza. Se la letteratura oggi suole stare, in genere, prudentemente alla larga da certi argomenti scientifici che una volta invece arditamente trattava; se molti argomenti intorno all'uomo, alle sue angosce, i suoi problemi, la sua situazione nel cosmo sono oggi dominio quasi esclusivo delle lettere – bene, queste sono situazioni contingenti, transitorie. Tornerà ad esserci una poesia del cosmo ed una scienza dell'uomo.
Contro una cosa devo qui, subito, chiaramente e decisamente protestare: contro l'identificazione della scienza con la tecnica – contro questa colpevole, ignobile, castrazione della scienza e del suo altissimo significato teoretico. La scienza è conoscenza: forse nell'unico senso possibile di questa parola. La scienza è visione, o costruzione, del mondo – certo nell'unico senso possibile di questa frase, 'visione (o costruzione) del mondo'. Che essa sia suscettibile di molte e importanti applicazioni tecniche, che sia un importantissimo, e l'unico sicuro, strumento di instaurazione del regnum hominis, è un fatto indiscutibile; ma ciò non autorizza a ridurne il significato a quello banausico della tecnica. La riflessione scientifica è nata dalla riflessione tecnica come il discorso teologico è nato dalla prassi magica: ma non c'è niente di piu stupido che l'identificare l'essenza con l'origine. Dal punto di vista del realismo del senso comune basterebbe osservare che se la scienza "serve", e serve in maniera così sistematica e sicura, è perché è vera: il suo successo pratico è, in fondo, la verificazione fattuale, sperimentale, delle sue ipotesi. Da un punto di vista piu elaborato, possiamo dire che in essa è fondamentale la nozione di 'verità', di cui un momento è costituito dalla verificazione sperimentale: una tale verificazione (che, del resto, non è di per se stessa e necessariamente un fatto tecnico – mentre un successo tecnico è sempre una verificazione sperimentale) è tale solo entro un complesso apparato teorico, di simboli e concetti astratti. E questo reticolato di simboli e concetti costituisce una struttura per una interpretazione sistematica dei contenuti fattuali, ossia per la costruzione di un quadro del mondo, di una "natura".
Lo Snow pure non accetta l'identificazione semplice e pacifica di scienza e tecnica. Anzi, come dice lui stesso, egli in opere precedenti ha tentato di tracciare tra le due «una linea di separazione»: ora la crede meno netta, e parla di una «complessa dialettica tra la scienza pura e quella applicata», che è, secondo lui, «uno dei problemi più gravi della storia della scienza», problema del quale «attualmente vi sono molti aspetti ... che ancora sfuggono alla nostra comprensione». Perché, secondo lui, «il processo scientifico ha due motivazioni: una è la comprensione del mondo naturale, l'altra è il controllo su di esso. Entrambe queste motivazioni possono essere dominanti in ogni singolo scienziato; i diversi campi della scienza possono trarre dall'una o dall'altra i loro stimoli originari». Ma, a prescindere dagli "stimoli" eteronomi (psicologici e/o storici), la motivazione strettamente, autonomamente scientifica è la prima – la "comprensione del mondo naturale".
Ma lo Snow parla a lungo di un altro fatto, apparentemente simile, però, come egli fa giustamente notare, profondamente diverso dalla applicazione tecnica della scienza (del tipo della medicina o dell'ingegneria tradizionali): la rivoluzione scientifica nell'industria. Un fatto nuovo nella storia, caratteristico degli anni in cui viviamo, e che forse un giorno sarà considerato come uno dei tratti propri del neocapitalismo dei secolo XX. Cibernetica, teoria della comunicazione, teoria delle macchine logiche, costituiscono gli esempi più salienti di questo fatto, di una scienza che non si "applica", ma diviene industria. Lo Snow la considera una gran bella cosa, un punto decisamente a favore della cultura scientifica, in cui sono riposte le supreme speranze dell'umanità. Personalmente, io non ne sono altrettanto entusiasta: si tratta, in realtà, di un'appropriazione capitalistica della scienza. È indubbio che tale situazione dà alla scienza mezzi materiali di ricerca altrimenti insperabili, le apre nuovi grandi orizzonti. Ma ci sono enormi pericoli: l'uno è quello di abbassare la scienza ad attività banausica, servile, soggetta a fini che non le sono propri – in altri termini, riabbassarla a tecnica, confinata ad elaborare strumenti di potenza e successo per fini che le sono estranei. Anche psicologicamente e sociologicamente la cosa non è soddisfacente: con la rivoluzione francese lo scienziato è divenuto un professore – e forse non è stato del tutto un bene per la libertà della scienza. Ma segnerà veramente la fine della civiltà scientifica il momento in cui lo scienziato sarà divenuto un impiegato dell'industria! Andrà perduta la sovranità della scienza: la sua libertà, il suo spirito critico, il suo isolamento da valori e da fini, la sua costituzionale irresponsabilità (nel senso che il re è irresponsabile, cioè non può venir giudicato). Non solo: ma come risultato si rischierà di avere una scienza magari sviluppatissima nel lato tecnico-sperimentale, però svuotata di ... mentalità scientifica. Un certo magismo che comincia a circolare tra giovani entusiasti della cibernetica o della teoria delle comunicazioni è veramente preoccupante. [...]
Letteratura e scienza: non due "culture" in senso antropologico, come pretendeva Snow e accettavano i suoi oppositori, ma due forme di riflessione, due modi di sapere, due diverse maniere di rapportarsi verso l'esperienza, il mondo e il senso comune, l'ego e gli altri. E due modi diversi di linguaggio.
Giustamente lo Huxley insiste su questo punto, cui dedica molte pagine ed osservazioni - mi sembra, molto interessanti. Sia la scienza che la letteratura devono "purificare il linguaggio della tribu", che è inadeguato sia come mezzo di espressione scientifica sia come mezzo di espressione letteraria. Ma le due forme procedono in modo diverso: la scienza creando un linguaggio semplificato e tecnicizzato (jargonized) – al limite, il linguaggio matematico. Invece «l'artista letterario purifica il linguaggio della tribù in un modo radicalmente diverso. Lo scopo dello scienziato è, come abbiamo visto, dire una cosa, e una cosa sola, per volta. Con la massima energia bisogna sottolineare che questo non è lo scopo dell'artista letterario. La vita umana è vissuta simultaneamente a molteplici livelli e ha molteplici significati. La letteratura è un accorgimento per riferire i fatti molteplici ed esprimere i vari significati. Quando l'artista letterario si mette a dare un senso più puro alle parole della sua tribù, lo fa con il proposito espresso di creare un linguaggio capace di esprimere non il singolo significato di qualche scienza particolare, ma la multipla significanza dell'esperienza umana, ai suoi livelli più privati come ai suoi livelli più pubblici. Purifica, non semplificando e gergalizzando, ma approfondendo ed estendendo, arricchendo con armonici allusivi, con sovratoni di associazione e sottotoni di magia sonora».
La pagina è molto bella e interessante. Il linguaggio della poesia non è quello della scienza. Le esigenze di quest'ultimo – univocità semantica, controllabilità sintattica, riferimento a esperienze intersoggettive – non sono quelle della poesia, in cui predominano la polivalenza, l'allusività ed evocatività del discorso, attraverso i suoi valori semantici propri, ma anche i suoni, i toni, i ritmi...


I rapporti tra le due "forme" e i problemi conseguenti

Possiamo ora tentare di cogliere il significato dell'antitesi letteratura-scienza come coppia dialettica. La civiltà (e per 'civiltà' intendo sempre la nostra, quella europea occidentale) si è sviluppata storicamente, in un miscuglio di valori, di norme, di procedimenti, di idee, che è irto di contraddizioni: contraddizioni sempre presenti, sempre operanti, ma che tuttavia si fanno sentire in modo particolare in quei momenti di più acuta crisi, quale è quello che attraversiamo in questo secolo. In questa civiltà "ci sono" tante cose: poesia e teatro, religione, arte figurativa, politica, retorica, scienza ... In esse si rispecchiano – attorno ad esse si polarizza la coscienza dei contrasti profondi che dividono i popoli, le società, gli uomini stessi in quanto singoli. [...]
Nella storia di questa civiltà ad un certo momento sorge la scienza, dapprima identica in generale con la mentalità scientifica, con la "razionalità". Essa ha per criterio base il valore del 'vero', o meglio, forse, del 'vero razionale', ed opera entro il mondo della cultura, dei valori, delle tradizioni, delle istituzioni, delle credenze, in una direzione critica, a discriminare le esperienze e i contenuti validi secondo un ideale criterio di obiettività razionale da quelli di mera opinione, soggettività, sentimento. [...]
Di contro, però, la grande tradizione letteraria (che nell'epoca platonica come all'epoca della querellesecentesca è simboleggiata in Omero) tende a sua volta a riorganizzare la cultura secondo prospettive opposte – della soggettività, del sentimento, dei valori, della tradizione. Essa diventa, per esempio, "umanità" e "spiritualità" di fronte alla "materialità" o "naturalità" della scienza, conoscenza del più profondo di fronte alla conoscenza del superficiale, ecc. [...]
Dobbiamo osservare che entrambe tendono ad una portata universale, non solo in senso critico, ma anche in senso costruttivo. Né la "scienza" né la "letteratura" vogliono in fatto eliminare dalla civiltà i loro opposti-presupposti dialettici, ma solo subordinarli secondo un proprio criterio di valore. Ripetiamo: i "c'è anche" hanno ragione – ci saranno sempre e una scienza una letteratura. Nessuno pensa che non sia per esserci sempre una scienza e una letteratura; scienziati e poeti e letterati ci saranno sempre. Ma proprio in questo sta la futilità del "c'è anche" – nel mettere pace dove non occorre. Solo che in una civiltà della scienza il ruolo delle attività letterarie (e quindi anche i loro scopi, di conseguenza le loro forme, mezzi, ecc.) sarà subordinato, complementare, confinato a determinati momenti e aspetti della vita. E in una civiltà delle lettere il ruolo della scienza sarà a sua volta marginale, subordinato, strumentale: tipica a questo proposito è la tendenza a considerare la scienza solo come tecnologia, o comunque un momento teorico della tecnica. [...]
La coppia dialettica 'cultura umanistica/cultura scientifica' presenta un singolare e gravissimo problema. La scienza è wertfrei: non valuta, ed anzi è essenziale all'atteggiamento scientifico dell'εποχή di ogni valutazione. Ma la vita è intrisa di valori, e il mondo della vita è un mondo di valori. Qui sta il limite – in verità un autolimite – della scienza, per cui il termine I della coppia non si lascia ridurre senza residui nella scienza stessa. È proprio qui l'appiglio più forte della polemica che i partigiani della cultura letteraria muovono alla cultura scientifica: di essere non soltanto libera da valori, ma cieca ai valori. È qui il punto da cui può muovere il tentativo, che da secoli si ripete, di abbassare la scienza a mera tecnica (o meglio tecnologia): un'attività subordinata, strumentale, che piega la "materia" ai fini dello "spirito". In questa visione concorrono, con le forme più stupide ed oscene di spiritualismo e idealismo, anche forme più sottili, più esperte, persino apparentemente "scientistiche", come il materialismo storico-dialettico e certe forme di pragmatismo.
Il problema merita un'indagine a sé. Va ricercato se, e come, ci sia un "posto della ragione" nel giudizio e discorso valutativo; se, e come, possa riinnestarsi una sfera di valori sopra una concezione del mondo ottenuta con una serie di operazioni, tra le quali c'era anche una previa purificazione teoretica dai valori.
Possiamo dire che, in un certo senso, nelle due culture i valori materiali sono i medesimi – sono i medesimi, perché nell'una e nell'altra ci sono tutti i valori. Non è una scelta di valori quella che le caratterizza e le oppone, bensì una diversa gerarchia dei valori stessi, il fatto che sono scelti diversamente i valori centrali e superiori rispetto a quelli marginali e subordinati. Naturalmente, la cosa non è affatto priva di importanza: nella vita di una cultura, come nella moralità di un singolo, la gerarchia è tutto. Ed un valore, rigorosamente parlando, non rimane identico se gli si muta il posto nella gerarchia: divenendo diverso il suo significato, diversa la sua funzione in seno alla vita culturale complessiva, anche le sue realizzazioni concrete tendono a mutare: persino i contenuti ne risentono. […]
Così in una cultura fortemente politicizzata l'arte oscillerà tra l'assumere compiti di propaganda ("io lancio il verso come una parola d'ordine d'agitazione") nel suo momento eteronomo, o divenire rifugio di anime solitarie, nel suo momento di autonomia. In una cultura fortemente scientificizzata l'arte oscillerà invece tra una funzione didascalica e una funzione di surrogato della metafisica (dadaismo e simili). E invece la scienza, per esempio in una civiltà così prevalentemente letteraria come quella del Rinascimento, oscillerà tra atteggiamenti iperutilitaristici (tecnica o addirittura magia) da una parte, e atteggiamenti invece di purezza formale, teoretica (neoeuclidismo della geometria rinascimentale) dall'altra: in entrambi i casi, con la rinuncia ad essere conoscenza e concezione del mondo.
Se questa gerarchia di valori la consideriamo nel concreto pratico-umano, dei rapporti scambievoli e comportamenti degli uomini, essa diviene una moralità. Da questo punto di vista le due culture sono due diverse moralità, due diversi tipi di rapporto e comportamento umano – due modi diversi di venire o non venire in contatto, di comunicare o non comunicare, due diversi modi di definirsi della persona singola di fronte alla sostanza sociale. […]
Essenziale ad una cultura è il suo tipo di discorso – la cultura è discorso (discorsi). Ed il tipo di discorso riflette, per così dire, la forma dominante, o l'ideale dominante, di rapporti umani. C'è una stretta correlazione, in un certo senso un'equivalenza, tra moralità e tipo di discorso.
E connesso con ciò c'è un terzo elemento: la nozione o idea di 'verità'. Nella sua genericità, l'idea di 'verità' esprime il valore formale supremo di ogni cultura, di qualsiasi tipo: è l'idea stessa della validità del conoscere, di autenticità del rapporto umano, di genuinità del valore, in quanto contenuti dei discorsi. […]
Scopo di questo saggio è appunto mostrare come humanae litterae e scienza siano caratterizzate da due diverse gerarchie di valori e moralità, due diversi tipi di discorso, due diverse nozioni di verità.



L’antitesi tra le due forme: la scelta etica

Non è ad una comunità di anime che si rivolge il discorso scientifico, ma ad una comunità di intelletti - o, più esattamente, poiché (essenzialmente) 'intelletto' non ha plurale, è all'intelletto simpliciter che esso si rivolge. E qui tocchiamo un ultimo, più profondo punto, col quale, credo, arriviamo ai limiti irriducibili della polemica delle "due culture". Ogni attività umana (e forse dovremmo dire ogni comportamento animale in genere) è sempre rivolta a realizzare valori, ed è sempre lealtà a quei determinati valori che in e mediante essa si costituiscono nella loro concreta attualità, mentre, in astratto, ne costituiscono le guide o modelli trascendentali. Anche l'attività della scienza non sfugge a questa legge – che forse è tautologica. La scienza èwertfrei; ma non lo è l'attività umana che produce il discorso scientifico (la contraddizione è solo apparente: ché siamo a due livelli logici differenti). La stessa Wertfreiheit è un valore, o la condizione per un valore – poniamo, per la "validità conoscitiva" o "verità".
Ma ci sono molte specie o classi di valori; ci sono valori della vita, valori dell'anima, valori dell'intelletto. In una civiltà ci sono tutti (se si vuole, questa la si può anche prendere per una definizione di 'civiltà'), né è concepibile una civiltà che manchi di una classe di essi. E forse impossibile, e certo comunque non auspicabile, volerne sopprimere una classe o l'altra: e se la polemica delle due culture mirasse ad uno scopo del genere, non varrebbe neppure la pena di occuparsene. Ma diversa è la gerarchia in cui i valori si dispongono: in una civiltà barbarica o neobarbarica (quale la civiltà nordamericana di oggi) prevalgono i valori della vita, e gli altri vengono a questi subordinati; in una civiltà di tipo letterario prevalgono i valori dell'anima; in una civiltà di tipo scientifico prevalgono i valori dell'intelletto.
Tutti indistintamente gli apologeti e i sostenitori di una civiltà letteraria sono stati espliciti a questo proposito: i valori supremi sono quelli dell'anima (la bellezza, la giustizia, l'intima comprensione di sé e degli altri, ecc.), mentre i valori dell'intelletto sono mediati, strumentali: i più fanatici hanno cercato di ridurli addirittura a valori strumentali della vita. Non è la verità che conta, ma l'efficacia pragmatica del sapere – e hanno condannato la lealtà ai valori dell'intelletto via via come rozzezza, barbarie, insensibilità etica, materialismo... e, da ultimo, come "oggettivismo borghese", strumento ideologico della bieca reazione capitalistica.
Al contrario, l’uomo di scienza - almeno fino a che è tale - è leale ai valori dell'intelletto e alla "verità" (scientifica) in cui tutti si accentrano. Ogni deviazione inconsapevole da essa è errore; ogni deviazione consapevole e volontaria è disonestà, cattiva fede, mistificazione. L'essere precede il dover-essere: qualunque cosa avvenga del mondo, bisogna sapere che cosa è il mondo; qualunque siano le conseguenze per l'anima, occorre che l’intelletto determini ciò che è vero. Se l'anima ha bisogno di miti o di illusioni, tanto peggio per l'anima.
A questo punto si arresta la possibilità di discorso tra i fedeli di una cultura e dell'altra. Molte discussioni sorte recentemente a proposito di tentativi di applicare a "scienze umane" e alla definizione di contenuti fattuali di tipici valori dell'anima il metodo del sapere scientifico hanno rivelato chiaramente che questo era il punto della reciproca incomprensione: il pathos per l'ordine concettuale, per la definibilità dei contenuti, per la riduzione degli enunciati a proposizioni verificabili non ha trovato comprensione negli uomini dell'anima, che se ne sono sentiti urtati, turbati, scandalizzati; mentre il loro patetico belare sulla sacertà dei valori, sugli ideali di giustizia, libertà, ecc., è apparso agli altri anche più ridicolo che pietoso. Sono in gioco due gerarchie – da ultimo due strutture axiologiche, due tipi umani, destinati a collaborare senza comprendersi e senza incontrarsi entro il grande fiume di una antica e vitale civiltà, che è nata dalle contraddizioni e di esse vive.



Il rapporto tra scienza e valutatività

[…]
La scienza non valuta. Anche quando è normativa, quando si fa tecnologica, essa addita soltanto delle vie da seguire, dei possibili procedimenti operativi secondo fini-in-vista: ma non dice nulla circa il valore di questi fini stessi; né, in ultima analisi, circa il valore degli stessi procedimenti operativi. Si dice spesso, soprattutto da parte di pensatori influenzati dal pragmatismo o, comunque, da forme di scientismo pragmatico, che la scienza può indicare i procedimenti operativi più razionali; e perciò, aggiungerebbe Dewey, reca anche delle indicazioni sulla razionalità degli stessi fini-in-vista. Ma, chiediamoci, che significa 'procedimenti operativipiù razionali'? Per esempio (per prendere un caso molto frequente), può significare 'più economici': il procedimento "più razionale" è, in questa ipotesi, quello che consegue un dato fine, con determinate caratteristiche, con il minor costo, nel modo più economico. La scienza, però, non insegna che il procedimento più economico è il più razionale: insegna una varietà di procedimenti possibili, e ne valuta i relativi costi - e qui si arresta il suo compito. Nello scegliere il più economico tra di essi entra in gioco un criterio valutativo, che in sé non è né più né meno scientifico, quindi né più né meno (scientificamente)razionale, di altri possibili: la razionalità o meno della scelta è del tutto relativa a quel criterio, sta e cade con esso. Tanto è vero che ove entri in gioco un altro interesse può persino apparire "più razionale" l'adozione di altri procedimenti operativi, anche se meno economici: per esempio, ragioni di politica sociale possono indurre a seguire procedimenti più costosi, perché, poniamo, i più economici implicherebbero licenziamenti di mano d'opera, con aumento della disoccupazione, ecc. – Così io posso acquistare un oggetto in un negozio in cui è venduto più caro, o perché ho qualche gratitudine verso il padrone del negozio, o perché sono abituato a servirmi in esso, o perché sono innamorato della commessa ...
La scelta "più razionale" dei mezzi può dunque non coincidere con la più economica: i mezzi stessi si presentano investiti di valori - spesso non si tratta del semplice rapporto mezzi-fini, ma anche di criteri di valore che entrano in gioco nella scelta dei procedimenti. I racconti di guerra sono pieni di problemi del genere: un generale non esita, per ottenere un certo risultato militare, a mandare migliaia di uomini ai massacro; un altro invece esita, cerca altri modi per risolvere il problema militare, oppure si rassegna addirittura ad una momentanea sconfitta pur di evitare la strage. Conflitti di questo genere sono problemi morali, non problemi di scienza militare: è solo alla luce di certi criteri di valore che una strategia può apparire "più razionale" di un'altra. E questo si vede persino nei caso più semplice, in cui sembra che il problema della scelta sia meramente scientifico, addirittura puramente matematico: quello della strategia nei giochi; dove c'è sempre il presupposto, sottaciuto perché ovvio, che il giocatore voglia vincere la partita. Ma ci possono essere circostanze in cui è invece "più razionale" perdere la partita anziché vincerla, o metterci il tempo più lungo anziché il più breve.
Così per la considerazione della "razionalità" dei fini-in-vista. La conoscenza può indicare quali mezzi, quali "costi", implichi la realizzazione di un fine; oppure quali ne saranno le conseguenze una volta che esso venga raggiunto. E alla luce di tali conoscenze può apparire, a volte, "più ragionevole" rinunciarvi che perseguirlo. "Alla luce" delle Conoscenze non significa però 'come conseguenza logica' delle conoscenze stesse: per quante informazioni queste possano dare, lasciano pur sempre sospeso il problema valutativo – questo è deciso alla luce di una struttura normativo-valutativa che pone le conoscenze in determinate relazioni axiologiche che la pura struttura teorica non contiene.
Ma la vita non è, non può essere wertfrei. In senso lato, vivere è valutare - già al livello biologico più elementare, l'organismo compie atti di scelta: e questi, se allarghiamo il concetto di 'valutazione', sono già valutazioni. Ma comunque una civiltà priva di momenti axiologici non esiste, né è concepibile. Per questo la scienza può tenere il posto centrale in una civiltà, ma non può esaurirla o risolverla tutta nella propria forma. Dunque, ci troviamo qui di fronte ad un'altra coppia: 'cultura axiologica/cultura scientifica' .
Come abbiamo già avuto occasione di vedere, molti autori tendono a riportare a questa la coppia delle "due culture", identificando la cultura letteraria con la cultura axiologica.
[…]
Forse tutto ciò va ammesso con riserve. In primo luogo anche se spesso la letteratura si è mostrata legata ai problemi axiologici e ai sentimenti, non si può dire a priori, senza un atto di arbitrio, che essa sia tutta, sempre e necessariamente così. In secondo luogo, scienze, come l'economia politica pura o la dottrina pura del diritto elaborano in maniera formale, cioè scientifica, strutture axiologiche specifiche, mostrando come, almeno di principio, la scienza, in sé sempre wertfrei, possa ciononostante portare su valori e strutture valutative. Né è detto che l'argomentazione retorica, con la sua profonda invalidità dal punto di vista logico, sia l'unica possibile forma di discorso valutativo - che nel discorso axiologico la ragione in senso autentico (ossia nel senso che si connette alla verità scientifica) non possa avere un posto più importante, una funzione fondamentale, anche se non decisiva.
Ma pur con queste riserve vogliamo qui, in questo ultimo capitolo di questo saggio, assumere come ipotesi l'identificazione della coppia 'cultura letteraria/cultura scientifica' con la coppia 'cultura axiologica/ cultura teoretica', per indagare la problematica del loro rapporto.
Infatti, un risultato appare subito: che fino a che si discute di valori intrinseci, il valore di una buona teoria scientifica, quello di una buona istituzione sociale, quello di una bella poesia, eccetera, sono inconfrontabili: non è possibile, non ha neppure senso metterli in gerarchia. È solo sul piano pratico che possono, in determinate circostanze, entrare in conflitto – cioè solo nei loro momenti estrinseci, quando da valori divengono fini, che possono entrare in conflitto e, in tal caso, devono venire gerarchizzati. Così le "due culture" possono (e ciò, del resto, avviene di fatto) convivere l'una accanto all'altra fino a che non si presentano circostanze che, nei loro momenti estrinseci, le pongano in conflitto pratico.
Ma il discorso che vogliamo fare è un po' più profondo, più filosofico.
Il "mondo" il cui quadro è costruito dal sapere scientifico è un sistema di oggetti - e questi oggetti sono di primo grado, nella cui costituzione non entrano categorie (predicati) di valore. Il mondo della scienza non è né bello né brutto, né buono né cattivo: l'atteggiamento dello scienziato, in quanto tale (nel momento che è tale, e tale rimane) è quello dell'ascetica atarassia del saggio stoico-spinoziano. […] Ma questo non è l'atteggiamento della vita - di nessun essere vivente, di nessun uomo; non può essere neppure l'atteggiamento definitivo dello scienziato, o del filosofo, in quanto uomo-che-vive. La vita è praxis, e il mondo della vita è un mondo di valori. E’ costituito di cose che sono υοήματα di secondo ordine, sono "beni" (o "mali"); è costituito di azioni, di opere, che tendono a realizzare valori, ad attuarli in fatti e cose. Ma un "mondo" è un insieme universale di rapporti; e un "mondo di valori" è un insieme di rapporti axiologici. Cioè, in parole povere, un mondo di valori è costituito da una molteplicità di valori - almeno se deve essere un mondo reale. Ora, come le idee della mente divina secondo Leibniz, tutti i valori sono possibili, ma non tutti sono compossibili per quanto riguarda la loro attuazione in un "mondo". E, di conseguenza, non tutti si collocano al medesimo livello. Un mondo di valori è quindi costituito da due sfere: da una sfera di cose e di fatti, con i loro presupposti categoriali-teoretici; e poi da una sfera di beni, che ha per presupposto trascendentale una sfera di valori gerarchizzati e/o organizzati attorno a qualche valore centrale.
Abbiamo di fronte due strutture, due modi di fondare un "mondo": teoretica e axiologica. […] Si può parlare di "persona sociale" con l'attualità della persona al livello della sfera dei valori socialmente ammessi e costituiti: valori principalmente etico-giuridici e religiosi, ma anche, sebbene in modo meno ovvio, estetici, edonistici (vitali), strumentali (si pensi, ancora una volta, alla storiella del porco arrostito). Questi valori si organizzano in maniera più o meno coerente (a seconda delle società e delle epoche storiche) secondo sistemi di categorie valutative e si dispongono in gerarchie, le quali sono tipiche delle varie culture (axiologiche). Vivendo entro i conflitti della nostra cultura e come membri attivi della medesima non sempre scorgiamo nitidamente questo fatto: ma ce ne accorgiamo non appena, viaggiando e/ o studiando, ci troviamo di fronte a culture molto lontane dalla nostra nello spazio o nel tempo: allora, per così dire per effetto della prospettiva data dalla distanza, scorgiamo più facilmente quando ci sforziamo di capirli, gli schemi formali e i contenuti di tali diverse culture, non tanto in questo o quel singolo, ma come culture sociali.
Lo stesso discorso vale per il soggetto del conoscere. A partire dal linguaggio comune, che è tipica istituzione sociale, per giungere ai linguaggi scientifici (che nascono da convenzioni linguistiche ammesse nella società dei dotti), fino ai tempi di inferenza ammessi, già le strutture linguistico-formali del sapere sono di istituzione sociale: si "apprendono", si "comunicano", e, fuori dei gradi di libertà che esse eventualmente permettono, ogni deviazione da esse porta alla non-validità dei discorsi, delle teorie, delle proposizioni. È stato molto spesso (e forse anche troppo) sottolineato il fatto che teorie, convenzioni scientifiche, assiomi – insomma, ciò che molto globalmente potremmo chiamare la "verità" scientifica, si pone ed è tale in un concreto sociale, ed ha una validità sociale. Anche qui, istituzioni (come scuole, accademie, ecc.) costituiscono la fonte autoritativa e l'appoggio sociale di questa verità – quella che deve "sapere" ogni cittadino che aspiri a titoli di studio o si presenti a concorsi per esami.
Ma ciò vige anche a livelli più profondi – anche al livello dell'esperienza sensoriale, Non alludo soltanto all'Erfahrung scientifica, all'esperienza (di osservazione o sperimentale che sia) che verifica teorie scientifiche e, in forma di enunciati protocollari, fornisce la base per le induzioni che conducono alle costruzioni teoriche; ma anche alla comune Erlebnis, a ciò che si vede o si crede di vedere. Vediamo il mare azzurro e la moneta circolare: ma questo non è mai ciò che realmente (otticamente) vediamo: è invece uno standard sociale, che, attraverso i complessi e molteplici condizionamenti subiti da ognuno di noi fin dalla prima infanzia, guida le nostre integrazioni percettive e gestaltiche. L'esperienza sensibile che conta, quella che è vera, è quella esperita da organi sensoriali e apparati nervosi "normali": ma lo stesso normotipo, che fa da campione, da termine di riferimento, per la valutazione della sensibilità di ogni singolo, è una creazione sociale e vige in una società. È noto, per esempio, che mentre nella nostra società le parole di un uomo stimato pazzo non sono attendibili, in altre civiltà succede il contrario: le parole di un pazzo (o presunto tale) sono rivelazioni della divinità.
Reticolati di categorie teoriche, sistemi logico-linguistici, regole per l'osservazione e la sperimentazione, normotipi sensoriali - tutto ciò costituisce quel piano di attualità del soggetto del conoscere che si può chiamare "soggetto sociale". E così possiamo parlare, senza pericoli di metafisica e di misticismo romantico, di un soggetto sociale e di una persona sociale, correlati di due culture sociali, una scientifica ed una axiologica.
Ma l'istanza nominalistica resta vera nel senso che, sul piano esistenziale dell'attualità, esistenti sono soltanto i singoli (gli individui come residuo dell'analisi, cioè elementi costitutivi, della società). E da questo punto di vista si può, entro certi limiti e con le dovute cautele, parlare di 'cultura' nel senso antropologico di Snow - proprio nel senso di gruppi professionali di singoli, di individui, dediti ad una cultura o all'altra: di scienziati, di magistrati, di preti e…di letterati. E qui si può parlare di una cultura scientifica e di una cultura axiologica, formate da coloro che, professionalmente o per vocazione, operano in un campo. o nell’altro, che sono ricercatori o professori o educatori, o scrittori, incarnando le forme concrete e le istituzioni dell'ego sociale.

Ora, chiediamoci: le due culture si identificano o sono diverse e distinte? Prescindiamo dagli uomini: permettendoci forse un eccessivo ottimismo, possiamo postulare che ogni professionista persegua lealmente i valori della sua professione: che lo scienziato sia leale alla verità, il magistrato alla giustizia, ecc. - In questa ipotesi, ci sarà un costante, accordo tra le culture sociali, oppure potranno esserci divergenze o conflitti?
Consideriamo le forme in astratto (il che ci è permesso appunto dall’ipotesi della lealtà). La Scienza, abbiamo detto e ripetuto fino alla noia, è wertfrei: conosce, non valuta. La cultura axiologica valuta, e persegue nella praxis un mondo di valori. Così stando le cose, non ci dovrebbe essere conflitto alcuno.
Ma, come abbiamo già osservato, le valutazioni si appoggiano su motivazioni: e queste sono conoscenze, valide o non valide come conoscenze, cioè vere o false. Razionalmente, un conflitto di credenze deve portare, o per lo meno può portare, ad un conflitto di valutazioni. E’ qui, e solo qui, che tra la cultura teorica e la cultura axiologica può sorgere, indirettamente, un conflitto. E cioè quando mutamenti intervenuti nel sapere scientifico scalzano la verità delle conoscenze che motivano valutazioni attuali, facendole regredire a pregiudizi. Una motivazione scientificamente invalida rende invalido il giudizio di valore che essa appoggia: e la civiltà di un popolo si misura dalla scientificità delle motivazioni dei suoi giudizi di valore. Un popolo che appoggia le sue valutazioni a motivazioni prescientifiche o antiscientifiche è un popolo incivile: tutto il suoethos scade ad imposizioni bestiali e tiranniche. Gli esempi sono a portata di mano. Il più banale, ma anche il più clamoroso, è quello delle streghe e degli indemoniati. Non per nulla il Malleus maleficarum dichiarava contraria alla religione e alla "vera" filosofia la miscredenza scientifica nelle streghe (qualche secolo appresso diverrà ugualmente contrario alla religione e alla "vera" filosofia il non credere che i comunisti siano figli e incarnazioni del diavolo in persona): tolta la credenza nella possibilità della stregoneria cade anche, come reato impossibile, il reato di stregoneria, e con esso la liceità di colpire in sede giudiziaria persone antipatiche ai preti o alla comunità, ricerche scientifiche di ricercatori isolati non inseriti in tradizioni e in corpi scientifici ufficiali, ecc. - Ma più importante, anche se meno cinematografico, è il caso degli indemoniati. Già nei Corpus Hippocraticum c'è uno scritto medico in cui si cerca di provare che la "malattia sacra" (cioè, credo, l'epilessia) non è affatto "sacra", ma è una malattia come le altre: ciononostante per millenni, fino al Settecento avanzato, si continuò a pensare che malattie nervose e mentali fossero malattie "sacre", dovute cioè alla presenza di demoni o spiriti maligni comunque qualificati. Ciò portava ad un pesante giudizio di valore morale negativo sulle disgraziate persone che (consenzienti o no) ospitavano il Maligno – la malattia mentale era una cosa da punire piuttosto che da guarire. E così atti compiuti in stato di follia, come infanticidi compiuti da puerpere impazzite, erano considerati orrendi delitti (e più orrende ancora ne erano le punizioni). Lo studio scientifico del sistema nervoso, che appunto si inizia nel Settecento (Haller ecc.) porta alla convinzione (che già Lamettrie afferma decisamente con tutte le sue implicazioni valutative in campo morale) che si tratta di malattie vere e proprie, non di malignità né immanenti né soprannaturali: e che di conseguenza i malati vanno curati, non puniti. Oggi tutto ciò è, per noi, ovvio - sebbene in pratica non ci si comporti sempre come se fosse tale.
Più attuale è il caso, tuttora discusso, del "diritto di natura": un venerando concetto di origine metafisico-religiosa che oggi molti giuristi e filosofi del diritto ritengono (e, io penso, ben a ragione) affatto mitologico, ma che alcuni giuristi (soprattutto di "destra") invece vorrebbero rivalutate, ad onta della sua assoluta improbabilità (ed anzi insignificanza) teoretica. Ammesso un sistema di norme "di natura", esso costituisce un sistema assoluto di riferimento e valutazione di tutte le norme di un diritto storico (e di tutti gli atti in conformità o meno a queste ultime) - e quindi diventa relativamente facile rendere tabù certi istituti (per es. il matrimonio, la famiglia, la proprietà privata), rendere "contro natura" certe rivoluzioni o anche semplicemente certe prassi legislativamente ammesse o imposte. È inutile obiettare che se per 'natura' si intende (e credo che sia l'unico modo per dare un senso a tale termine) l'insieme dei fenomeni in quanto compreso e ordinato secondo leggi scientifiche, tutto ciò che accade, e comunque accada, è "naturale" - in tal caso l'idea che certi fenomeni siano "innaturali" o "antinaturali" è solo il segno di una deficienza dei nostro sapere. Di fatto, fuori dell'uso filosofico e scientifico, chiamiamo 'naturale' o ciò che è conforme a nostre abitudini, o ciò che è in armonia con una selezione dei nostri impulsi, o ciò che ci giova e che ci piace. In questo senso il rapporto eterosessuale non-parentale, la salute, il riposo alternato al lavoro, ecc., sono "naturali", mentre il rapporto omosessuale o incestuoso, la malattia, il sopralavoro sono "contro natura". È chiaro però che se 'natura' si concepisce così, un tale concetto non serve più a fondare nessun valore e nessuna norma in modo assoluto: serve più a dichiarare che non a fondare l'eticità o la non-eticità di certe prassi e di certi istituti. Tanto più che in genere dall'essere e dal fatto non si possono dedurre il dover-essere, il valore, la norma. […]
Ritornando al filo del discorso, è certo che anche se valutazioni e norme perdono le loro vecchie motivazioni, con ciò non è detto che non si possano rimotivare. Però questo, della rimotivazione, è un procedimento che sempre, più o meno, cambia il significato dei giudizi di valore – o più esattamente ne muta il campo (estensionale) di riferimento: in parole tradizionali, ne muta la casistica sottostante. Stevenson fa l'esempio di "il rapporto sessuale extramatrimoniale è cosa cattiva", motivato con il pericolo della nascita di figli fuori del matrimonio, ecc.; ma la conoscenza di norme igieniche e dell'impiego di anticoncettivi (o altre tecniche anticoncettive) toglie tale motivazione: e con ciò il giudizio cadrebbe, se non venisse rimotivato. Si può allora rimotivare: per esempio, con le complicazioni emozionali che (soprattutto nelle donne) tale rapporto porta con sé. Ma in tale caso il tabu è portato su di un altro piano: ha perduto di oggettività, e quelle medesime considerazioni degli aspetti emozionali e sentimentali dell'atto possono, in determinati casi, servire proprio agiustificazione dell'atto stesso (ossia a motivarne una valutazione positiva). […]
L'elemento importante in tutto ciò è costituito dalla solidarietà degli istituti del costume: sì che una rimotivazione, e conseguente mutamento di senso, di una norma, potenzialmente mette in crisi tutto il costume - e questo ben lo sanno i conservatori.
Questo punto è molto importante per intendere la tensione dinamica, e in alcuni casi il conflitto aperto, traethos e cultura scientifica. Quest'ultima infatti è in genere più mobile – e comunque è più aperta ai mutamenti, più progressiva: non solo, ma le motivazioni dei suoi cambiamenti, della dottrina che adotta e di quella che confuta, obbediscono soltanto al valore essenziale e immanente alla scienza stessa, il valore della verità scientifica, l'unico che in essa risulti decisivo. L'ethos è più statico, meno incline ai mutamenti: e in genere in ogni società non solo sono molto numerosi gli individui conservatori, ma le istituzioni stesse tendono decisamente all’autoconservazione…[…]
Dunque: esperienze di adattamento, soluzioni vitali si fissano, e divengono costume. Divengono anche standards valutativi, che operano sugli uomini formandoli e, comunque, determinandone il destino entro ilmilieu sociale. Ciò determina la tendenza del costume, appunto, a istituzionalizzarsi, a fissarsi, a divenire autoconservativo, anche al di là dell'originaria sua funzione vitale e pragmatica: il costume diventa tradizione, inerzia storica. Di qui la sua crisi immanente, perpetua: perché, mutando le circostanze vitali (storiche, ambientali), anche le istituzioni dovrebbero mutare, non essendo esse altro che metodi di risposta a circostanze mutevoli; non solo, ma le stesse istituzioni, operando una selezione nel materiale umano, mutano la stessa situazione umana, e così vengono a mutare anche le precedenti condizioni che le avevano fatte nascere.
Perciò si può dire che le istituzioni del costume "nascono già vecchie": sono sempre in ritardo, mai adeguate agli sviluppi della situazione umana. E allora vengono in conflitto o con la situazione reale o con il "materiale umano" che esse stesse sono venute creando: a questo punto, da vitali divengono antivitali, e la selezione comincia a funzionare in senso inverso. Sorte con un determinato valore, per rispondere a determinati scopi, nelle mutate situazioni mutano senso e valore e spesso agiscono come un freno al progresso od evoluzione, sbarrando la via alla formazione di istituzioni più adeguate.
L'inerzia delle tradizioni (sostenuta praticamente dal coagularsi intorno ad esse degli interessi di alcune classi, o caste o ceti) dà origine a quel complesso atteggiamento che è il conservatorismo. Ma qui, a questo proposito, ci interessa soltanto un fatto, peraltro molto importante: il fatto che, in generale, le istituzioni sono tra loro solidali - nel senso che si sorreggono, si motivano le une con le altre; in una specie di movimento circolare in virtù del quale il costume si chiude nella sua immanenza, diviene "sostanziale". Questa sostanza del costume, che si suol chiamare anche "l'ordine sociale", costituisce lo sfondo della vita quotidiana, lo sfondo delle normali attività degli uomini, e perciò ha, indubbiamente, per se stessa un valore vitale, quasi animale (non certo spirituale, come pretendono i conservatori): romperla, mutando in tutto o in parte le istituzioni (ma, data la circolarità, o sostanzialità che dir si voglia, il mutamento parziale rischia di mettere in crisi ogni volta l'intero sistema!), è un rischio, un' "avventura spirituale", che molte persone (tanto più quando ne sono minacciati interessi dominanti) corrono mal volentieri: richiede una disperazione, o un'ascesi, che pochi hanno. […]

Siamo così giunti al termine di questo capitolo - e di questo volume. Il momento propriamente teoretico, conoscitivo, della cultura – la cultura scientifica – si configura in un peculiare rapporto con la vita degli uomini e con la civiltà complessiva. In virtù della sua strutturale Wertfreiheit, in virtù della sua libera universalità umana, la cultura scientifica appare come il momento del negativo, come negazione liberante, come strumento della stessa autotrascendenza della vita e della storia: e appunto per questo la sua struttura è essenzialmente a-storica.
Ci richiamiamo qui a quanto hanno messo in evidenza molti filosofi, forse a partire dallo stesso Platone – ma per stare in tempi meno remoti, richiamiamoci a filosofi come Simmel o come Scheler. La cultura, ogni cultura, nasce dalla vita: ma, una volta sorta, esercita rispetto alla vita una specie di ascesi, la sospende, le "volta le spalle", ed elabora forme ideali di validità che obbediscono a criteri immanenti, non più a quello della loro immediata vitalità. Questo vale per quello specifico e peculiare valore che è la verità, come per ogni altro valore. Ma, a questo punto, le forme di cultura mettono in crisi la vita stessa: la sconcertano nel momento stesso che tendono a riorganizzarla entro orizzonti più vasti, più ricchi, più comprensivi. Onde ritornano alla vita come "più vita".
Come abbiamo detto, la cultura axiologica, per le sue motivazioni, per le stesse progettazioni pratiche che implica nella sua tendenza ad attuate i valori nell'essere, si appoggia alla cultura scientifica: e un quadro axiologico del mondo presuppone sempre un quadro scientifico dell'essere (della natura, della storia, eccetera). La non-coincidenza del quadro del mondo utilizzato dalla cultura axiologica con quello presentato dalla scienza produce una crisi storica di civiltà, e quindi rappresenta un elemento dinamico di mutamento (parlo sempre in seno alla civiltà, ossia sul terreno della vita riflessa, culturale).
Ma la cultura axiologica, in quanto si organizza in un sistema di istituzioni etiche, tende a chiudersi nella sua sostanziale immutabilità, nella sua immanenza - come abbiamo visto. E chiudendosi diviene non solo extravitale ("più che vita"), ma antivitale ("meno vita ). E ciò accade quando i suoi presupposti reali sono mutati, ossia quando si fonda su un quadro dell'essere erroneo - erroneo proprio dal punto di vista del sapere.
Il sapere, in quanto regolato dal solo autovalore della verità, è meno vischioso dell'ethos: naturalmente tende anch'esso a conservarsi, ma la legge della verità, con l’accentuato ascetismo che richiede, neutralizza gran parte dei motivi di vischiosità. La scienza è più spregiudicata, e quindi, per il suo stesso ufficio, più aderente ai mutamenti che intervengono nella rea!tà. Onde essa, operando criticamente contro l'invecchiata base pseudo-teoretica che sorregge un arcaico sistema di istituzioni etiche (e quindi di valori), la costringe a mutarsi, costringendo con ciò l'intero sistema a rimotivarsi, quindi a riorganizzarsi: con il risultato che nasceranno istituzioni etiche diverse, e spesso molto diverse, dalle precedenti.
E così l'ascesi scientifica è strumento di riadattamento dell'ethos alle esigenze della vita: restituisce al mondo dei valori la sua fondazione, la condizione stessa della sua efficacia – mantiene aperte le vie della sua stessa autotrascendenza.
Questa, e non altra, è la funzione primaria della conoscenza scientifica, in quanto conoscenza, entro la dialettica storica della civiltà. Chiederle altro – chiederle di divenire teologia oppure tecnologia, ideologia oppure progettazione pratica, è chiederle di tradire la sua funzione, di sparire come tale dalla civiltà. Ma è anche chiedere alla vita di chiudersi in una immanenza antivitale, in una pace e sicurezza che è la pace della morte.