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La traduzione come ascolto dell’altro.Dai classici a Paul Ricoeur. - Saffo,Catullo, Canfora, Cambiano, Sanguineti, Traina





lunedì 16 dicembre 2002 legge Camillo Neri
Che vi sia la necessità di tradurre, da Babele in poi, è ovvio per tutti. Ma che si debba continuare a tradurre i classici, e in particolare i classici greci e latini è oggi argomento di discussione. “Perché tradurre da lingue morte?”. “Perché tradurre testi che in gran parte sono già stati tradotti?”. “Perché tradurre proprio i Greci e i Latini?”. “Perché”, infine, “cominciare a tradurli a scuola?”. Senza entrare nel merito dell’abbondante bibliografia sulla teoria e sulle tecniche della traduzione (sul tema si stampano riviste specifiche, atti di convegni, ponderosi volumi … tradotti in molte lingue), l’incontro-lettura La traduzione come ascolto dell’altro. Dai classici a Paul Ricoeur passa in rassegna alcuni tentativi di risposta a queste domande, suggerendone nel contempo altre: “e se la traduzione fosse un modo per costringere la letteratura a parlare anche per noi?” “E se fosse un esercizio intellettuale di cui non si è ancora trovato l’equivalente?” “E se fosse un modo di rileggere il passato che consente di metterne in evidenza le possibilità non realizzate, il futuro incompiuto?” “E se”, infine “quella forma di ‘ospitalità linguistica’ (per dirla con Ricoeur), cui la traduzione ci invita, non fosse un atteggiamento del tutto inutile, neppure nel mondo di oggi?”.

1) Catullo 51

Ille mi par esse deo videtur,
ille, si fas est, superare divos,
qui sedens adversus identidem te
spectat et audit

2) Sapph. fr. 31 (trad. I. Nievo)
Pari e maggior d’un Dio quegli che assiso
Dinanzi a te, dolci parole ottenne,
O nel soave lampeggiar d’un riso
Co’ rai s’avvenne!
Riso, desio d’amor, pel quale oblia

Fin di battere il cuore innamorato.
Ti veggo appena, che alla voce mia
Vien meno il fiato;
Anzi torpe la lingua, e nel diffuso
Incendio guizza l’esile persona,
E la luce m’è tolta, ed un confuso
Ronzio m’introna.
E in sudor freddo, e in tremiti mi struggo
E in più smorto pallor mi discoloro
Di quel dell’erba. Fuor de’ sensi io fuggo,
Oh Dei, già moro!

3) Sapph. fr. 31 (trad. F. Ferrari)

Mi sembra pari agli dei quell’uomo che siede di fronte a te e vicino ascolta te che
dolcemente parli
e ridi un riso che suscita desiderio. Questa visione veramente mi ha turbato il cuore nel petto: appena ti guardo un breve istante, nulla mi è più possibile dire,
ma la lingua mi si spezza e sùbito un fuoco sottile mi corre sotto la pelle e con gli
occhi nulla vedo e rombano le orecchie
e su me sudore si spande e un tremito mi afferra tutta e sono più verde dell’erba e poco lontana da morte sembro a me stessa.
Ma tutto si può sopportare, poiché …

4) Sapph. fr. 31 (trad. A. Aloni)

Sembra a me simile agli dèi
quell’uomo, che di fronte a te
siede e da presso il dolce tuo
parlare ascolta,
e il riso amabile; proprio questo a me
il cuore nel petto fa balzare:
se ti vedo subito non so più
nulla dire,
ma la lingua si spezza, sottile
presto sotto la pelle corre un fuoco,
con gli occhi niente più vedo, rombano
le orecchie
sopra di me si versa sudore, un tremito
tutta mi assale, più verde dell’erba
divento, e dal morire poco lontana
mi sembro;
ma tutto si può sopportare …

5) L. Canfora, Il fiume si scava il suo letto

La perdita sarebbe troppo grande. Naturalmente ci possono anche essere i secoli bui, come quelli dopo Giustiniano, ma non sta a noi agevolare un processo del genere. Al tempo stesso però dobbiamo cercare di dare alle scuole ordinamenti tali che non siano totalmente deprivati di preziosi elementi di conoscenza quali appunto le lingue antiche accanto allo studio delle civiltà antiche. Io sono convintissimo, nonostante possa sembrare un discorso passatista, che lo studio mirante all’interpretazione, alla traduzione dal latino e dal greco comporti una mobilitazione intellettuale straordinaria, pari per lo meno allo studio delle più elevate matematiche. Si tratta infatti di passare da un sistema espressivo ad un altro, dando senso, cogliendo quelli che Ortega chiamava “i silenzi del testo”, perché il testo cela dei silenzi, tra una parola e l’altra, tra una frase e l’altra. Se si prende l’esperienza degli Umanisti che traducono i greci, si può vedere come un Hieronymus Wolf faccia miriadi di errori, cioè – si potrebbe dire ricorrendo ancora alla atessa metafora – non colmi i silenzi del testo. È una lunga tradizione esegetica e lessicografica, che ha giovato a sanare questi guasti, attraverso un esercizio che viene rivissuto ogni volta dal singolo nella sua vita individuale, nella sua esperienza personale di studioso. La traduzione è l’operazione più esaltante dal punto di vista della mobilitazione delle forze intellettuali.
Non a caso, tutti constatiamo, se siamo onesti con noi stessi, che non riusciamo mai ad essere soddisfatti di come abbiamo tradotto. E non perché il gusto estetico ci fa soffrire, ma perché sappiamo che non abbiamo cavato tutto quello che si doveva. Questa è la prova provata della modernità estrema di quella prova. Far parlare il silenzio: Ortega l’ha detto benissimo. È esperienza di tutti noi sapere che non riusciamo a farcela. Questo è vero anche storicamente, come abbiamo detto poco fa: se guardiamo lo sviluppo di secoli volti all’interpretazione constatiamo la stessa cosa. Se si prende il cosiddetto Apparatus criticus et exegeticus di Gottfried Heinrich Schaefer a tutto Demostene o il commento di Poppo a Tucidide, vi si trova tutta la stratificazione interpretativa messa in spaccato come se si trattasse di ere geologiche: uno dopo l’altro, tutti gli sforzi, gli ‘andirivieni’ di persone dabbene tra le quali, per gli oratori, c’è nientemeno che Reiske. Quello è un caso concreto, empirico, che raffigura il tormento del traduttore, e del traduttore di rango, perché questa gente non era certo gente da poco.
A scuola, ai professori di liceo che si arrabbiano per gli sbagli degli allievi, dico sempre: state calmi, perché hanno sbagliato fior di umanisti. L’errore, certo, l’errore grossolano, che si sana rapidamente, quello dovrebbe essere il più presto possibile rimosso, ma il fatto che il testo sia aperto, che l’interpretazione sia un problema e che la traduzione abbia molte “uscite”, questo insegnatelo ai giovanotti. Sarebbero più interessati che non al feticismo di una misteriosa traduzione unica e vera, che forse nessuno riesce ad acciuffare …
Per questo io ritengo che gli antichi ci siano utili, non perché Cicerone ha detto parole immortali senza le quali non mi so orientare nel mondo. È chiaro. La traduzione è un tipo di esercizio che, rispetto alle lingue classiche, proprio perché sono prive di contesto o sono dotate di un contesto che ti devi faticosamente conquistare, è più difficile e quindi più utile, più ‘mobilitante’. Ed è, si badi, un modo di mobilitare il cervello che non ha ancora trovato l’uguale: io non vedo perché se ne debba fare a meno. Platone diceva che si debbono far studiare musica e matematica: non c’è nulla di più astratto e di più “inutile” dell’una e dell’altra.
(in Di fronte ai classici, a c. di I. Dionigi, Milano 2002, pp. 51-54)

6) G. Cambiano, Libertà e schiavitù dei classici

L’unica risposta possibile diventa allora quella di mostrare che questo “altro” rappresentato dai testi dei filosofi greci è venuto però ad annidarsi, attraverso lunghi e svariati processi, nel corpo stesso della nostra cultura occidentale: di fatto è diventato un altro dentro di essa, camuffato sovente come se fosse identico a noi o modificato, corretto, distorto o più semplicemente assunto in maniera anche inconsapevole. Occorre precisare che questo non è un giudizio di valore e non si trasforma automaticamente in un primato assiologico, valutativo, della cultura greca, ma è la constatazione di un fatto. Per questo il rapporto con i greci e, in particolare, con quella specifica loro produzione culturale, che sono determinati testi filosofici, è ancor più complicato di quello pur complicato con culture altre extraeuropee. Per giustificare la continuazione di un contatto con i testi filosofici antichi, forse l’argomentazione più forte anche nei confronti di interlocutori scarsamente benevoli è proprio questa, che non va confusa con l’argomento più tradizionale delle “radici”. Ovviamente questi testi hanno lasciato le loro tracce dentro il tessuto della tradizionale filosofica occidentale, talvolta anche in maniera occulta: ho già fatto l’esempio del neoplatonismo non detto in Heidegger di un essere (uno) che si disvela, senza mai esaurirsi nel suo disvelamento e quindi anche sempre occultandosi, in modo da serbare la sua differenza dall’ente, caratterizzato invece dal fatto di essere semplicemente presente. E si potrebbero menzionare innumerevoli altri casi. Ma se fosse soltanto questione di mostrare che nei filosofi anche più recenti permane la presenza di tracce dei testi filosofici antichi, questo ancora non giustificherebbe la necessità di farli studiare nelle scuole a giovani che per la maggior parte non diventeranno non dico filosofi – cosa che non sono neppure la maggior parte di quelli che si proclamano tali – ma neppure cultori di filosofia. Questo studio potrebbe appunto essere lasciato alla cura dei filosofi “professionali”. Il fatto è che i testi filosofici antichi mantengono una presenza nascosta dove meno ce l’aspetteremmo, rappresentano con le loro alternative sovente radicali una sorta di multiculturalismo che si è venuto annidando nel cuore stesso di una cultura, quella occidentale, giungendo a condizionare lo stesso sguardo dell’antropologo e le categorie con le quali egli interpreta le culture altre, a meno che non si illuda di poterle osservare con uno sguardo vergine, cadendo in tal modo in una sorta di miraggio antropologico. Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche sostenne che la tradizione filosofica aveva solo costruito trappole di pseudo-problemi attraverso un uso scorretto del linguaggio comune, di per sé in ordine, sicché sarebbe bastato smascherarle lasciando sussistere nella sua sanità il linguaggio ordinario. In realtà esse – siano o no trappole – si sono di fatto storicamente insinuate anche nel linguaggio ordinario e in comuni modi di pensare. Senza arrivare a ritenere con Heidegger che la storia dell’intero Occidente sia segnata e determinata dal destino di parole chiave del primo pensiero greco – una forma di filosofocentrismo dalle sinistre conseguenze –, penso tuttavia che la storia occidentale sia stata caratterizzata anche da una immissione – attraverso innumerevoli mediazioni, non sempre facili da ricostruire – di linguaggio filosofico e strutture argomentative filosofiche, con le credenze da esse veicolate, anche nel tessuto del linguaggio di altre discipline (per es. nelle modalità di presentazione o esposizione di vari campi del sapere) e dello stesso linguaggio comune. Questa è la ragione che oggi mi pare meglio giustificare l’utilità di non precludere istituzionalmente ai giovani un accesso a questi testi e consentire loro invece almeno qualche sondaggio.
Queste considerazioni non sono riducibili all’argomento degli antenati, che introduce una metafora fallace: gli antenati biologici sono condizioni necessarie imprescindibili, senza di essi non saremmo nati; gli antenati storici sono invece diventati tali perché le generazioni successive (intellettuali romani, la Chiesa, l’introduzione dell’insegnamento universitario, le ricerche di identità nazionali, le difese contro la scienza o la modernità e così via) li hanno fatti, volontariamente o involontariamente, diventare tali. Inoltre la metafora degli antenati genera l’implicita convinzione che ad essi vada tributato un culto, ma i luoghi dove si tributano culti sono le chiese, non le scuole e gli antenati “culturali” possono anche essere oggetto di critica o di rifiuto. Gli antenati, come i classici, sono precari, non fanno parte di un eliminabile patrimonio biologico. È ciò che è venuto dopo che ha cercato di rendere il passato identico a sé, ma in tal modo questo passato è diventato ovvio, si è per così dire “naturalizzato”, non è più stato percepito e riconosciuto come altro, né visto nelle sue correlazioni con le distorsioni, esclusioni e rimozioni successive, che ne hanno sovente azzerato le alternative che ne costituivano le nervature. Insegnare le vicende della filosofia antica attraverso i suoi testi classici non come storia continua o teleologica, ma come terreno mobile di alternative potrebbe consentire di attraversare almeno in qualche piccolo punto la coltre delle nostre credenze ovvie e mostrare che l’ovvio sovente non è tale, ma è un risultato e, come tale, lascia intravvedere anche il possibile, altro da esso.
Facciamo l’ipotesi peggiore di voler azzerare completamente il passato, perché lo giudichiamo completamente falso o obsoleto e inutilizzabile oggi, e lasciare spazio soltanto al presente. Il rischio sarebbe di credere di essersi sbarazzati degli antichi filosofi e di continuare invece a essere vittime del passato senza rendersene conto, di continuare a coltivare e nutrire dentro di sé credenze e “pregiudizi” che vengono proprio dal passato. Anche questa ipotesi richiederebbe dunque di rendere consapevoli di queste presenze, attraverso un confronto proprio con i testi del passato. Una delle funzioni “educative” della rilettura dei classici filosofici greci può consistere nel mostrare che ciò che per noi è ovvio non è necessariamente tale, ma è il risultato di premesse (che posso trovare in questi testi e che, a loro volta, o erano frutto di deduzioni ricavate da altre premesse o si radicavano nel tessuto delle credenze correnti) e, più in generale, di costruzioni umane sotto certe condizioni. Diventando “tradizione”, queste costruzioni si sono per così dire naturalizzate come credenze comuni.
(in Di fronte ai classici, a c. di I. Dionigi, Milano 2002, pp. 38-41)

7) E. Sanguineti, Classici e no

Un mio amico filologo, molto tempo fa, era solito dirmi che è classico tutto ciò che sopravvive a un medioevo. Mi parve, e mi pare, una definizione eccellente. Si tratta, dunque, di un’etichetta storica, relativa, che addita, per intanto, un chiaro archetipo costitutivo, per noi: il mondo grecolatino. Un classico, in qualche modo, è sempre scritto in una lingua morta. E questo significa che i classici ci interessano perché sono da noi radicalmente diversi. Sono radicalmente esotici, oserei dire, temporalmente come spazialmente, almeno per metafora. Importano perché additano forme di esperienza da noi remote, anche impraticabili, e anche, non di rado, incomprensibili, ma che, appunto per questo, ci aprono a dimensioni diverse, altrimenti ignote e insospettabili. E questo, ben inteso, vale anche per i classici moderni, e persino per i classici che, in stretta cronologia, ci sono contemporanei, e, in rigida geografia, conterranei. Di qui deriva quell’effetto intimidatorio che Brecht deplorava, ma che, come reazione preliminare, come accessus, non mi sembra evitabile, né biasimevole.
I classici, quando sopravvivono, possono sopravvivere ai più diversi livelli. Qui torna utile Benjamin, quando discorre del patrimonio culturale, che i vincitori trascinano trionfalmente come preda storica. Il vero problema, dunque, è operare in modo che il classico giovi, oggi, agli oppressi, e non agisca come testimone del dominio ma come stimolo alla rivolta.
Un classico vive, ad ogni modo, in primo luogo, in traduzione. Ben inteso, questo vale anche per Leopardi, anche per Beckett. Anche il più prossimo, tra i classici, opera perché ogni suo lettore lo converte nel proprio codice, non soltanto e non tanto individuale, in arbitrario e caotico soggettivismo, ma storico e sociale, concretamente. In breve, si traduce sempre, come si vive, secondo moduli che appartengono, in ultima istanza, a una classe determinata.
I classici servono perché aprono a un possibile futuro, in quanto sono lì a dichiararci, di fatto, che si può cambiare la vita e modificare il mondo. Ammaestrano, documentatamente, intorno alla dialettica storica, e ci orientano in un autentico storicismo assoluto. Non importano affatto come immagini di durata, come monumenti di eternità. Anzi, ci dicono splendidamente che c’è un’areté di Achille e una di Socrate, che la virtus di Tommaso non è quella di Machiavelli. E questo ci viene certificato sperimentalmente, in parole, in immagini, in suoni, in forme.
Tradizione, dunque, è traduzione. E significa dunque una reinterpretazione perpetua, inarrestabile, di un corpus mutevole di testi, iscritti in un mutevole canone. E la storia culturale è, per questo riguardo, una storia di canoni, espliciti e impliciti, in costante divenire. E poi, l’Omero di Virgilio è forse l’Omero di Monti? E il Virgilio di Dante è forse quello di Caro? Il fondatore del codice europeo, nella sua forma esplicitamente moderna, fu, per molti aspetti, Curtius. Ma nell’età della globalizzazione, è evidente, non si tratta più nemmeno di un codice occidentale, soltanto. Con l’immediata avvertenza, però, si intende, che un codice egemone è in continuo conflitto con altri codici, alternativi. E che la storia della cultura europea, comunque, è anche e forse soprattutto, la storia, non già della fortuna, ma delle varie sfortune ricorrenti di Omero, di Virgilio, di Dante, di Shakespeare, di Goethe…
I classici nascono con la filologia, e sono condizionati alla filologia. Dove non si ha filologia, non si ha classico, propriamente. E la filologia si converte sempre, vichianamente, in filosofia. È filosofia della storia. È storia, in assoluto, precisamente. (in Di fronte ai classici, a c. di I. Dionigi, Milano 2002, pp. 211-213)

8) A. Traina, Io e il latino

La mia vocazione letteraria è stata precoce. Da sempre ho divorato libri, e ho cominciato presto a far versi. Con questi presupposti, ero predestinato a fare il professore di lettere, lo sapevo fin dal ginnasio. Non me ne sono pentito. Perché insegnare è comunicare, uscire da se stessi per ritornarvi arricchiti dal contatto con gli altri. Questo era essenziale per un temperamento come il mio, così incline all’individualismo e così poco aperto ai rapporti e ai valori sociali. E poi contatto coi giovani, con la loro freschezza, con la loro fiducia nella vita, a controbilanciare il pessimismo di chi veramente giovane, forse, non è stato mai. Ma questo è solo un aspetto della nostra professione. L’altro è l’attività scientifica, che in me si è quasi sempre radicata nell’attività didattica, sia perché lo sforzo di chiarire i problemi agli altri mi aiutava a chiarirli a me stesso, sia perché da questa tensione interpretativa (la filologia per me è essenzialmente esegesi) mi nascevano spunti e occasioni per la ricerca scientifica. La quale poi, una volta pubblicata, mi offriva la possibilità di un contatto più ampio, quello col pubblico dei lettori. Non penso, naturalmente, ai lavori puramente tecnici, destinati, se mai, agli specialisti; penso a quei commenti scolastici, e soprattutto a quelle edizioni divulgative che, in anni più maturi, mi hanno permesso di attingere un pubblico più vario e più vasto, a cui far giungere, attraverso le voci dei classici, la mia piccola voce.
Ma perché proprio il latino? Le letture della mia adolescenza erano i grandi scrittori di tutte le letterature, dall’italiana alle orientali. La scelta del latino fu, almeno in parte, casuale. Si potrebbe dire che non fui io a scegliere il latino, ma il latino a scegliere me. In quello che era un tempo il ginnasio inferiore ebbi la fortuna d’incontrare un professore – un vecchio prete – che con metodi del tutto tradizionali mi inculcò, negli anni più ricettivi della vita, le basi del latino e l’amore per il latino. Forse anche perché la sua lapidaria concisione si accordava con la mia tendenza alla concettosità e alla sintesi (non per nulla il mio prosatore preferito è Seneca). Poche lingue potrebbero concentrare tanto significato in due parole come il latino di un’iscrizione funeraria: moritúri resurrectúris (“i destinati a morire ai destinati a risorgere”). (Quando, se mi consenti un ricordo personale, mi chiesero di redigere per una medaglia dedicata a san Benedetto una legenda di questo tenore: “Rifulse come una luce in un mondo che stava per sprofondare nelle tenebre” me la cavai con tre parole: tenebrescénti século illúxit). La lunga frequentazione del latino, irrobustita poi da studi grammaticali e lessicali, ne ha fatto per me come una seconda lingua, che sin da giovane mi ha sollecitato ad esprimermi in essa, con tutti i limiti di una lingua “morta”, a livello sia di sermo cotidiánus che di sermo poéticus. Lingua morta, certo, purtroppo sempre più morta sul piano della comunicazione, ma ancor viva come spontaneo veicolo di esperienze soggettive. Che è il malinconico paradosso di tutta la letteratura moderna.
Ma il latino veicola, e con ciò mi accingo a concludere, anche le esperienze dei grandi del passato. Io non condivido il rigido storicismo di quegli studiosi che mettono sullo stesso piano grandi, minori e minimi. Certo, ogni scrittore è un momento della nostra storia e ha diritto al nostro interesse. Ma solo i grandi hanno arricchito la nostra conoscenza dell’uomo – ossia di noi stessi. Confrontarmi con essi è stata l’altra faccia, che chiamerei esistenziale, della mia filologia. I miei autori sono stati i poeti dell’età repubblicana e augustea, un poeta della prosa come Seneca e un poeta bilingue come Pascoli. Non mi hanno dato solo un’emozione estetica (in cui può esaurirsi il pirotecnico latino di Plauto), ma mi hanno aiutato a capirmi e quindi, negli angusti limiti in cui la mia problematica coincideva con la loro, a capirli: è la conflittualità catulliana fra sesso e amore, l’accettazione virgiliana di un destino che si può non amare, l’ansia oraziana del tempo, l’ideale senecano di una saggezza che conti solo sulle sue forze interiori, il nichilismo pascoliano appena temperato dall’appello alla solidarietà nel dolore. Mi hai chiesto anche una definizione di “classico”. Ecco: uno scrittore che ha parlato per noi.
(in Di fronte ai classici, a c. di I. Dionigi, Milano 2002, pp. 261-263)



9) P. Ricoeur, La traduzione. Una sfida etica

Il rischio con il quale deve fare i conti il desiderio di tradurre – e che rende una sfida l’incontro con lo straniero nell’ambito della propria lingua – è davvero insuperabile. Franz Rosenzweig ha dato a questa sfida la forma di un paradosso: tradurre – egli dice – è servire due padroni, lo straniero nella sua estraneità e il lettore nel suo desiderio di appropriazione. Prima di lui, Schleiermacher scomponeva il paradosso in due frasi: “portare il lettore all’autore”, “portare l’autore al lettore”. Mi arrischio, da parte mia, ad applicare a questa situazione il vocabolario freudiano e a parlare – oltre che di lavoro della traduzione – di lavoro del lutto, nel senso in cui Freud parla di lavoro della rimemorazione.
Lavoro di traduzione, dopo aver vinto le resistenze intime motivate dalla paura, al limite dall’odio per lo straniero, percepito come una minaccia diretta contro la nostra stessa identità linguistica. Ma anche lavoro del lutto, applicato alla rinuncia all’ideale stesso di traduzione perfetta. Quest’ideale, in effetti, non ha soltanto nutrito il desiderio di tradurre e talvolta la felicità del tradurre, ma è stato anche la causa dell’infelicità di Hölderlin, spezzato dall’ambizione di fondere la poesia tedesca e la poesia greca in una iper-poesia nella quale sarebbe stata abolita la differenza degli idiomi. E chissà se non è proprio l’ideale della traduzione perfetta a far sopravvivere, in ultima analisi, la nostalgia della lingua originaria o la volontà di controllo sul linguaggio tramite l’espediente della lingua universale? L’abbandono del sogno della traduzione perfetta resta l’ammissione dell’insuperabile differenza tra il ‘proprio’ e lo straniero. Resta la sfida dello straniero.
E torno qui al mio titolo: il paradigma della traduzione. Mi sembra, in effetti, che la traduzione non richieda soltanto un lavoro intellettuale, teorico e pratico, ma ponga anche un problema etico. Portare il lettore all’autore, portare l’autore al lettore, con il rischio di servire e di tradire due padroni, è praticare ciò che mi piace chiamare l’ospitalità linguistica. Essa costituisce il modello di altre forme di ospitalità che mi sembrano appartenere alla stessa famiglia: le diverse confessioni, le religioni, non sono forse come delle lingue straniere le une alle altre, ciascuna con il suo vocabolario, la sua grammatica, la sua retorica, la sua stilistica, che occorre studiare per poterle comprendere dall’interno? E l’ospitalità eucaristica, non va assunta anch’essa con gli stessi rischi di traduzione-tradimento, ma anche con la stessa rinuncia all’ideale di traduzione perfetta?
[…]
Ospitalità linguistica, quindi, ove al piacere di abitare la lingua dell’altro corrisponde il piacere di ricevere presso sé, nella propria dimora d’accoglienza, la parola dello straniero.
[…]
Si deve quindi dimorare presso l’altro, per condurlo presso di sé a titolo di ospite invitato.
(P. Ricoeur, La traduzione. Una sfida etica, a c. di D. Jervolino, Brescia 2001, 66s., 50, 78)



Dibattito :
Camillo Neri insegna storia della lingua all’università di Bologna. La sua formazione è quella di filologo classico, avvezzo alla traduzione e alla tradizione, che ci ha tramandato i classici.
E’utile leggere i classici, magari a discapito di una formazione incentrata sulle nuove tecnologie comunicative? La lettura dei classici è un confronto con qualcosa che è totalmente altro da noi. Il greco e il latino ci impongono la traduzione. Un testo così distante ci impone un iniziale abbandono di soggettività. In altre parole tradurre significa spogliarsi di se stessi per capire l’altro, gettare un ponte tra la nostra visione del mondo e quella di un antico che in molti sensi straniero. La tesi di Camillo Neri è che la traduzione sia una sfida etica, per riprendere un’espressione di Paul Ricoeur.
Camillo Neri legge dalla Genesi XI vv. 1-9. Si scopre come cambiando la traduzione del termine Babele – non ‘confusione’ bensì ‘porta’ di Dio- si possa riconoscere nell’intervento divino la difesa della diversità e della traduzione.
La traduzione è possibilità, mobilitazione intellettuale, stimolo all’innovazione e infine comprensione dell’altro, come straniero.