Un gruppo di ventenni delle colline a sud di Bologna. E' questa memoriAttiva. Un gruppo di ventenni legati alla storia del loro territorio. Lotte per i diritti, lavoratori, cooperative, antifascismo, Resistenza. Giorni tristi e bui, quelli dell'autunno del 1944, quando la morte in camicia nera cancellò la vita a Monte Sole. Ma anche speranza, vittoria della vita sulla morte, rinascita. Un gruppo di ventenni, memoriAttiva, che dal 2004 è impegnato nel tentativo di non far morire la memoria, di ridarle vita, forza. Iniziative culturali, spettacoli teatrali, azioni artistico comunicative, manifestazioni celebrative, per mettere in comunicazione storia e vita, valori e aspirazioni, passato e futuro, anziani e giovani. Un gruppo di giovani, memoriAttiva, che si è ritrovato una fredda sera di metà aprile davanti ad alcuni libri. Il televisore nella sala parlava di sconfitta, di disastro elettorale, di perdita di rappresentanza, di tempi bui a venire. Dopo ore di sconforto trascorse a leggerci pagine di Brecht, Benni, Vittorini e Fortini abbiamo capito cosa possiamo ancora fare.
Stefano Benni, Saltatempo, Feltrinelli “Ci fu anche una grande scoperta culturale. Baruch frugando in una cassa di vecchi libri, trovò niente meno che il diario di guerra di Ghigna, cento pagine scritte a mano. Venne un editore d’assalto e disse che ci avrebbe fatto un libro, che quelle cose erano storia e mai sarebbero state dimenticate. -Sì, per un po’ le ricorderemo- mi disse Baruch –ma non so quanto. Tuo padre una volta mise il piede in una tagliola da volpi. Mentre era lì che soffriva disse: giuro che se ne vengo fuori non sparerò più a nessun animale. Riuscì a liberarsi con polpaccio stracciato, si curò, la cicatrice sbiadì, e qualche anno dopo lo vidi tornare dalla caccia con due lepri nel carniere. Passato il dolore, passato il giuramento, e tuo padre non è un uomo disonesto. Ma la memoria non è fatta solo di giuramenti, parole e lapidi, è fatta di gesti che si ripetono ogni mattino del mondo. E il mondo che vogliamo noi va salvato ogni giorno, nutrito, tenuto vivo. Basta mollare un attimo e tutto va in rovina. Baruch scrutò verso i monti, come se cercasse le orme dei suoi passi, e di quelli dei suoi compagni. -Torneranno- disse tristemente – tra vent’anni o trent’anni ma torneranno. Non vedremo i cingolati entrare in paese, non parleranno in tedesco. Sorrideranno e avranno delle belle auto ammirate da tutti. Vestiranno giacche di sartoria invece della divisa di ordinanza. Non gireranno le squadracce, ma si sparirà in silenzio, cancellati in qualche nuovo modo elegante. Così sarà. Oppure mi sbaglio, forse è la cicatrice della tagliola che ogni tanto ritorna a far male e mi fa sragionare. La pendola del bar ticchettava, ma non feci partire l’orobilogio. Avevo paura che Baruch vedesse giusto.” (p.91)
“Dopo il funerale tornai a casa. Disposi le statuine sul tavolo. Quasi senza accorgermene misi da una parte i vivi e dall’altra i morti. Solo noi ragazzi eravamo ancora insieme, sul piedistallo della nostra infanzia, quando eravamo amici. E di colpo tutto fu chiaro. Quelle statuine e la vita preziosa che racchiudevano, la fatica lenta di mio padre per fare uscire i loro volti dal legno del bosco, legandoli per sempre a questi luoghi. Li aveva costruiti e nascosti alla ferocia e all’avidità, perché qualcosa restasse di loro, perché la frana degli anni non li portasse via. Quelle statuine erano uomini e donne e ora mi guardavano. Qualcuno aveva giocato con la loro vita, li aveva venduti, corrotti, piegati. Adesso doveva pagare. Forse Fefelli era vecchio e stanco, ma era lui che aveva aiutato l’Ombra a entrare in città, lui aveva allevato nel suo cadavere i Pastori, Ossobuco, Arcari. E io avevo allevato nella mia rabbia quel pensiero che mi aveva tormentato fin da piccolo. Presi per mano la statuina di Baruch, che sembrò brillare, i lineamenti diventavano sempre più vivi. La pendola divideva in due il silenzio. L’orobilogio mi avvolse, mi strappò dal tavolo e mi fece volare attraverso la finestra, sopra il bosco, fino alla vasca di pietra. Faceva freddo e tremavo, la statuina di Baruch vibrò e mi disse: -Posami a terra, sono stanca. La posai sul mucchio, e mise delle piccole radici, poi dei rametti, e crebbe sotto i miei occhi, invecchiò e diventò un albero, una grande quercia, in cima al ramo più alto era appesa la giacca di Baruch. -Ti ricordi – disse l’albero – quando avevi scoperto che il nonno di Fulisca era stato ammazzato dai partigiani, e venisti da me confuso? Ricordi cosa ti dissi? - Sì, Querciabaruch – risposi io – mi dicesti: ringrazia ogni giorno in cui puoi svegliarti in pace, senza dover dividere il mondo in amici e nemici. - E poi? - Poi non ricordo… - Poi ti dissi: perché a molti è capitato di svegliarsi quel giorno, il giorno di combattere. Non è un bel risveglio, è un risveglio doloroso e crudele. Quel giorno non chiedere agli altri chi sei, gli amici diranno che sei un eroe, gli altri che sei un assassino. Solo tu puoi saperlo, e pagherai ogni ora di questa tua decisione. Solo dopo molto tempo potrai vedere sa hai aggiunto dolore al mondo o lo hai aiutato a guarire, se hai fatto crescere più vita di quella che hai spento. Questo si chiama responsabilità. - E’ tutto troppo grande per pensarlo – dissi, tremando di freddo – tu sei un vecchio albero, Baruch, io non ho la tua lunga vita, la tua linfa, il tuo tronco, dimmi qualcosa che mi aiuti. La chioma dell’albero sospirò, volarono via le gazze bianche e nere. -Ricordati, piccolo albero Saltatempo. Quel giorno ti sembrerà di essere solo, ma non lo sei. E ricorda una cosa ancora più importante. Guarda intorno al tiranno che tu odi e troverai mille servi e mille complici. Guarda intorno a loro, e ne troverai altri mille e ancora mille. Sono nati in un giorno solo? Combattere prima di quel giorno, vuol dire combattere quel giorno. -Sei oscuro – dissi . - Sono un oracolo, non un gazzettino meteorologico – disse un po’ risentito Querciabaruch, scosse la chioma e m’inondò di una pioggia di bachi pelosi.” (pp.250-251)
Elio Vittorini, Uomini e no, EinaudiVIII. –Ti sembra strano?- Selva disse. – Non è strano. Non ti abbiamo mai veduto con una tua compagna, e desideriamo che tu abbia una compagna. Non possiamo desiderare che tu abbia una compagna? – Guardava ardentemente uomo e donna. - Non possiamo desiderare questo per un uomo che ci è caro? Un uomo è felice quando ha una compagna. Non possiamo desiderare che un uomo sia felice? Io desidero che tu sia felice.- - Grazie- disse Enne 2. –Grazie Selva. Ma….- - Ma, un corno- la vecchia Selva disse. –Non possiamo desiderare che un uomo sia felice? Noi lavoriamo perché gli uomini siano felici. Non è per questo che lavoriamo?- - E’ per questo- disse Enne 2. - Non è per questo?- Selva disse. E sempre guardava uomo e donna. - Perdio!- disse. –Bisogna che gli uomini siano felici. Che senso avrebbe il nostro lavoro se gli uomini non potessero essere felici? Parla tu, ragazza. Avrebbe un senso il nostro lavoro?- - Non so- rispose Berta. Ed era come se non avesse risposto, era seria; e alzò un momento la faccia, ma era come se non l’avesse alzata. - Avrebbe un senso tutto il nostro lavoro?- - No, Selva. Non lo credo.- - Niente al mondo avrebbe un senso. Vero, ragazza?- - Non so- rispose di nuovo Berta. - O qualcosa avrebbe lo stesso un senso?- - No- rispose Enne 2. –Non lo credo.- - Avrebbero un senso i nostri giornaletti clandestini? Avrebbero un senso le nostre cospirazioni?- - Non lo credo.- - E i nostri che vengono fucilati! Avrebbero un senso? Non avrebbero un senso.- - No. Non avrebbero un senso.- - C’è qualcosa al mondo che avrebbe un senso? Avrebbero un senso le bombe che fabbrichiamo?- - Credo che niente avrebbe un senso.- - Niente avrebbe un senso. O avrebbero un senso i nemici che sopprimiamo?- - Neanche loro. Non lo credo.- - No. No. Bisogna che gli uomini possano essere felici. Ogni cosa ha un senso solo perché gli uomini siano felici. Non è solo per questo che le cose hanno un senso?- - E’ per questo.- - Dillo anche tu, ragazza. Non è per questo?- (pp. 12-13)
Franco Fortini, Traducendo Brecht Un grande temporale Per tutto il pomeriggio si è attorcigliato Sui tetti prima di rompere in lampi, acqua. Fissavo versi di cemento e di vetro Dov’erano grida e piaghe murate e membra Anche di me, cui sopravvivo. Con cautela, guardando Ora i tegoli battagliati ora la pagina secca, ascoltavo morire la parola d’un poeta o mutarsi in altra, non per noi più, voce. Gli oppressi sono oppressi e tranquilli, gli oppressori tranquilli parlano nei telefoni, l’odio è cortese, io stesso credo di non sapere più di chi è la colpa.
Scrivi mi dico, odia Chi con dolcezza guida al niente Gli uomini e le donne che con te si accompagnano E credono di non sapere. Fra quelli dei nemici Scrivi anche il tuo nome. Il temporale È sparito con enfasi. La natura Per imitare le battaglie è troppo debole. La poesia Non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi.
Bertold Brecht, A coloro che verranno (trad. F. Fortini)Davvero, vivo in tempi bui! La parola innocente è stolta. Una fronte distesa Vuol dire insensibilità. Chi ride, la notizia atroce non l’ha ricevuta. Quali tempi sono questi, quando Discorrere d’alberi è quasi un delitto, perché su troppe stragi comporta silenzio! E l’uomo che ora traversa tranquillo la via Mai più potranno raggiungerlo dunque gli amici Che sono nell’angoscia?
E’ vero: ancora mi guadagno da vivere. Ma, credetemi, è appena un caso. Nulla Di quel che faccio m’autorizza a sfamarmi. Per caso mi risparmiano. (Basta che il vento giri, sono perduto.)
“Mangia e bevi, - mi dicono: - e sii contento di averne”. Ma come posso io mangiare e bere, quando Quel che mangio, a chi ha fame lo strappo, e Manca a chi ha sete il mio bicchiere d’acqua? Eppure mangio e bevo. Vorrei anche essere un saggio. Nei libri antichi è scritta la saggezza: lasciar le contese del mondo e il tempo breve senza tema trascorrere. Spogliarsi di violenza, render bene per male, non soddisfare i desideri, anzi dimenticarli, dicono, è saggezza. Tutto questo io non posso: Davvero, vivo in tempi bui! II Nelle città venni al tempo del disordine Quando la fame regnava. Tra gli uomini venni al tempo delle rivolte E mi ribellai insieme a loro. Così il tempo passò Che sulla terra m’era stato dato.
Il mio pane, lo mangiai tra le battaglie. Per dormire mi stesi in mezzo agli assassini. Feci all’amore senza badarci E la natura la guardai con impazienza. Così il tempo passò Che sulla terra m’era stato dato.
Al mio tempo, le strade si perdevano nella palude. La parola mi tradiva al carnefice. Poco era in mio potere. Ma i potenti Posavano più sicuri senza di me; o lo speravo. Così il tempo passò Che sulla terra mi era stato dato.
Le forze erano misere. La meta Era molto remota. La si poteva scorgere chiaramente, seppure anche per me Quasi inattingibile. Così il tempo passò Che sulla terra mi era stato dato. III Voi che sarete emersi dai gorghi Dove fummo travolti Pensate Quando parlate delle nostre debolezze Anche ai tempi bui Cui voi siete scampati. Andammo noi, più spesso cambiando paese che scarpe, attraverso le guerre di classe, disperati quando solo ingiustizia c’era, e nessuna rivolta.
Eppure lo sappiamo: anche l’odio contro la bassezza stravolge il viso. Anche l’ira per l’ingiustizia Fa roca la voce. Oh, noi Che abbiamo voluto apprestare il terreno alla gentilezza, noi non si poté essere gentili. Ma voi, quando sarà venuta l’ora Che all’uomo un aiuto sia l’uomo, pensate a noi con indulgenza.
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