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L’ultima lezione - La solitudine di Federico Caffè scomparso e mai ritrovato - Ermanno Rea



lunedì 30 ottobre 2006 legge Guido Bonelli
Ermanno Rea, il nostro migliore scrittore storico-realista scrive questo suo libro inchiesta nel 1992. Nel riesaminare gli eventi relativi alla misteriosa scomparsa di Federico Caffè di cinque anni prima, Rea ripercorre gli ultimi momenti della carriera del celebre docente e studioso di economia,  coincidenti con lunghi anni di tormentata vita politica, economica e sociale italiana.
Federico Caffè fu economista spesso ‘anomalo’, maestro di generazioni di allievi. «E se l’interesse per lo studio dell’economia consistesse nella speranza che la povertà e l’ignoranza possano essere gradualmente eliminate?»
Considerava il proprio mestiere come una scelta etica e presagì il cambiamento epocale.
Il neoliberismo avanzante gli apparve come una catastrofe inevitabile. E’ per questo che decise di scomparire,  forse come un Majorana? O fu rapito? E da chi? Portava indosso l’orologio d’oro che i suoi allievi gli avevano appena regalato per la sua pensione.


Da Ermanno Rea, L’ultima lezione. La solitudine di Federico Caffè scomparso e mai più ritrovato,Torino, Einaudi, 1992

(pag 79 e segg.)
Erano tempi d’inaudita durezza, in cui un’Italia lacera e umiliata viveva «in attesa dell’arrivo di una nave americana con generi alimentari essenziali», tra cumuli di macerie e «compromessi» pubblici e privati compiuti in nome della «sopravvivenza». In questo sfacelo, in cui «la vita civile e politica sembrava disgregarsi in mediazioni opportunistiche», prese corpo lo «sforzo intellettuale» di un certo numero di persone che, impegnate in un’opera di ricognizione conoscitiva «dello stato delle cose», s’illusero di poter prospettare soluzioni e vie d’uscita [n. 3: F. Caffè, Alcuni aspetti del riassetto economico italiano nel secondo dopoguerra, IPEM, Roma 1983].
Caffè viveva già da anni con le orecchie tese. Nel saggio Compiti e limiti della politica economica, del 1943, aveva passato in rassegna tutti i più scottanti problemi dell’Italia che stava per nascere scandagliandoli con una lucidità che nulla aveva da invidiare alla lucidità con la quale affronterà le stesse questioni trenta o quarant’anni dopo. Nello scritto, l’approccio sociale alla sua professione appare già tutto evidente; così come è evidente il quadro ideologico, a sua volta già pervaso da quello spirito keynesiano che costituirà la spina dorsale del suo riformismo. Il saggio, come si è detto, è del ‘43. La guerra è ancora lontana dal concludersi, ma in Italia già si discute dei nuovi ordinamenti che il paese dovrà assumere a pace raggiunta. Ognuno dice la sua, avanza proposte, formula ipotesi. E’ lo stesso Caffè a informarci di questo intenso lavoro di «progettazione», per lo più effimero e che forse non meriterebbe neppure di essere ispezionato se non, spiega, per la necessità di individuare i grandi princìpi ispiratori che presiedono a ognuna di queste «costruzioni» e che saranno, essi sì, destinati a costituire i poli dello scontro politico prossimo venturo. «Individuare questi princìpi ispiratori - scrive dunque nel 1943 - può condurre infatti ad accertare quali siano gli orientamenti di pensiero rispetto a determinati problemi: ad esempio, rispetto a quello, di così vivo interesse, dell’intervento dello Stato nella vita economica».
La guerra, quindi, è ancora in corso quando Caffè fa già rullare i tamburi sul Grande Nodo: liberismo oppure governo dell’economia? Due anni dopo, nel 1945, è ancora la stessa questione a mobilitarlo, ma questa volta non più nelle vesti, apparentemente distaccate, dello studioso, bensì in quelle dell’attore, anche se non di primissimo piano, di una vera e propria battaglia politica: forse l’unica vera battaglia mai condotta in Italia in nome del radicalismo riformista.
Quando Meuccio Ruini collocò nel proprio staff Federico Caffè, di fatto se non di nome, ne fece il suo principale consigliere economico. Il capo demolaburista, anche se non voleva che il suo segretario gli scrivesse i discorsi e decidesse troppo di testa sua, trovava le sue idee e i suoi suggerimenti forse non sempre ispirati a prudenza, ma indubbiamente di grande fascino e di sicura competenza.
Ma quali erano le idee e i suggerimenti di Caffè? Conoscendo il suo radicalismo, non è difficile immaginare le une e gli altri. In quel momento predominava soprattutto un problema: l’impegno per il mutamento della classe dirigente, che non si riduceva però a una mera questione di epurazione, cioè di eliminazione dal potere delle persone che si erano compromesse in maniera più o meno diretta con il fascismo, ma era problema più complesso che riguardava i mandanti meno visibili, più nascosti, del regime. In una parola, coloro che avevano detenuto e che certamente avrebbero continuato a detenere le leve economiche del paese, se non fossero stati messi in condizione di reale impotenza.
Il partito che più di ogni altro premeva per questo generale ricambio nelle strutture dello Stato e dentro allo stesso sistema produttivo era il Partito d’ Azione. La «rivoluzione democratica», infatti, non sognava un altro Stato, antiborghese e sovietizzante, bensì la radicale ristrutturazione di quello esistente, in maniera che all’Italia fosse data la possibilità di recuperare il filo spezzato del proprio liberalismo progressista che già nell’Ottocento, se vogliamo proprio attraverso i professori «alemanni», aveva dato così tangibili segni della propria esistenza e della propria forza propulsiva.
Caffè è un azionista convinto: né estremista né conservatore già allora, ma profondamente persuaso della necessità di nazionalizzare le grandi industrie a regime monopolistico e di attuare «la gestione pubblica senza interferenze private delle attività economiche di base, accompagnata da una politica economica di sostegno alla piccola e media impresa», in maniera da garantire «una libertà economica concepita come eguaglianza di opportunità per tutti» [n. 4: Giuseppe Mammarella, L’Italia dopo il fascismo. 1943-1973, il Mulino, Bologna 1974].
Quando Caffè cominciò a lavorare per Meuccio Ruini a Roma, la situazione politica era di totale stallo. Dopo quasi due anni di confronti e di tensioni, gli entusiasmi iniziali apparivano fortemente affievoliti, resi opachi dal gioco dei personalismi, delle beghe e dei piccoli compromessi.
Diversa invece la situazione al Nord, appena emerso dal fervore resistenziale. Qui i rappresentanti del CLNAI, pur appartenendo agli stessi partiti, chiedevano il rinnovamento con ben altra energia che non i leader romani, forti di un consenso che saliva da una società provata, oltre che da incalcolabili distruzioni, da una vera e propria guerra civile, timorosa di perdere politicamente quel confronto vinto in ambito militare.
Sul «vento del Nord» sono state scritte pagine di grande efficacia. Non è perciò il caso di insistervi troppo, se non per ricordare l’esatta natura della posta in gioco e per individuare le linee di una sconfitta (sconfitta del riformismo) che coinvolge Caffè direttamente, facendogli conoscere per la prima volta l’amaro sapore dell’isolamento intellettuale e politico.
«Nelle settimane successive alla liberazione del Nord - racconta lo storico Giuseppe Mammarella - l’azione di rinnovamento sembrò assumere nuovo slancio... Le richieste concordate al CLNAI con il CLN centrale, in una serie di riunioni tenute a Roma e a Milano, riflettevano nei quattro punti seguenti quelle aspirazioni: 1) lotta contro le concentrazioni monopolistiche e capitalistiche dominatrici dello Stato; 2) graduale inserimento dei lavoratori negli organi direttivi delle aziende; 3) ripresa dell’epurazione; 4) riconoscimento di funzioni consultive ai CLN locali. Era un programma che riproponeva grosse riforme di struttura; era facile prevedere che esso avrebbe riacceso nel paese nuovi e violenti contrasti».
Inizialmente, il «vento del Nord» sembrò avere la meglio. Dopo molti patteggiamenti, l’incarico di formare il governo fu affidato a Ferruccio Parri, leader del Partito d’Azione, milanese, capo partigiano, uomo di prestigio ma nel segno della semplicità e dell’antiretorica (il suo discorso d’insediamento fu definito «conversazione del caminetto» per lo stile familiare e accattivante). Molti s’illusero, e forse Federico Caffè tra questi, che finalmente l’Italia avesse imboccato la strada giusta. Ma l’illusione durò pochissimo, cinque mesi soltanto. Tanti bastarono, infatti, a seppellire la prospettiva di un cambiamento radicale della società italiana nel segno di quella «rivoluzione democratica» propugnata dal Partito d’Azione e da quanti si riconoscevano in un riformismo non di maniera né succubo della suggestione togliattiana. Ne bastarono così pochi perché l’Italia (l’Italia democristiana, liberale, fascista) non aveva nessuna voglia di cambiare, mentre Parri aveva avuto il torto di denunciare la sua intenzione di smantellare la grossa industria monopolistica per ricostruirla su basi di maggiore equilibrio a vantaggio dei piccoli e medi operatori.
A questo piano economico, tutto incentrato sulla funzione direttrice dello Stato e sul ripudio del liberismo come strada maestra per la ripresa del paese distrutto dalla guerra, collaborò anche il ministero della Ricostruzione, il cui capogabinetto si chiamava Federico Caffè. Fu scritto da lui personalmente? Una cosa è certa: quel progetto corrispondeva perfettamente alle sue idee.
Naturalmente, anche sui motivi che sono alla base della sconfitta di questo esperimento sono state scritte molte pagine. Un’interpretazione degli avvenimenti comunque la diede lo stesso Presidente del Consiglio il giorno in cui presentò le dimissioni. A silurarlo - disse - era stata «la quinta colonna» presente nel suo governo, cioè democristiani e liberali. Essi, dopo aver «sistematicamente minato» la sua posizione, si accingevano, dopo avere ottenuto il proprio scopo, «a restituire il potere a quelle forze politiche e sociali che avevano formato la base del regime fascista».
Tutta colpa di democristiani e liberali, dunque? C’è chi dice: anche i comunisti fecero la loro parte. «Il partito comunista... pur ostentando solidarietà e simpatia a Parri - scrive ancora Mammarella - non fece molto per sostenerlo, nel timore che la politica di mediazione storica seguita dal Partito d’Azione potesse rappresentare un’alternativa per quella sinistra democratica che il PCI mirava ad attirare nella propria sfera d’influenza».
Mammarella non è il solo storico ad essere convinto di ciò. Si tratta in sostanza di una tesi che addebita ai comunisti esplicite responsabilità in ordine alla mancata realizzazione di una trasformazione della società italiana in senso laburista. E ciò perché una tale svolta avrebbe compromesso la propria egemonia a sinistra. Anche Caffè lo sostiene, benché in modo meno esplicito. Nelle sue Lezioni di politica economica, analizzando proprio il periodo che ci interessa, si chiede come mai le esigenze dei ceti popolari non fossero state «più energicamente sostenute» dalle forze politiche che più direttamente erano chiamate a rappresentarle. «La risposta a questo quesito - scrive Caffè - è ancora controversa: ma ha indubbiamente contribuito al costante accantonamento di “riforme economiche” sollecitate soltanto nelle enunciazioni verbali, la persuasione che si trattasse del prezzo da pagare per il perseguimento di obiettivi politici considerati prioritari».
E ritorna sullo stesso concetto, in maniera se possibile ancora più esplicita, in un articolo del 1986 (pubblicato su «L’Ora» di Palermo) nel quale afferma che «... a partire dal 1944, vi è sempre stata nel nostro paese una politica economica potenziale che avrebbe potuto essere realizzata, verosimilmente con maggiore vantaggio per la collettività, alla luce delle conferme ricevute» [n. 5: Lo storico Furio Diaz, in un libro di «riflessioni sulla vita civile in Italia» (La stagione arida, Mondadori, Milano 1992) descrive con una certa ampiezza la diffidenza («quasi disprezzo») mostrata dal PCI verso gli azionisti e il «fiacco» sostegno a Parri nel suo tentativo di dare un governo riformatore all’Italia. Fu così che, afferma Diaz, «perdemmo la possibilità di realizzare un’unione a sinistra che si avvalesse di uomini come Calogero, Lussu, Calamandrei, Codignola, Riccardo Lombardi, Vittorio Foa, Parri, Ernesto Rossi»].
Che uno dei grandi ispiratori di questa politica economica «alternativa» fosse stato lui stesso, l’articolo lo lascia trasparire in modo sin troppo chiaro. Soprattutto laddove dice che «è stata appunto la mancata comprensione, il mancato appoggio di forze politiche anche minoritarie a privare di risonanza le indicazioni rimaste semplici testimonianze di un pensiero non conformista». .

Dopo l’esperimento Parri, il governo passò a De Gasperi. Per l’Italia, la strada era ormai segnata: il potere, tutto nelle mani della Democrazia Cristiana; l’opposizione, tutta nelle mani dei comunisti. Quanto ai princìpi ispiratori della politica economica, è lo stesso Caffè a spiegarci che è semplicemente ridicolo parlare di «elementi di socialismo», di dirigismo statale o di altre amenità del genere a proposito delle scelte che presiedettero allo sviluppo del nostro paese da quel momento in poi. Lo Stato fu presente nella vita economica italiana soltanto per tamponare falle o per mantenere in vita aziende non remunerative rifiutate dai privati. In un unico caso, spiega Caffè, si può parlare di rinuncia alla privatizzazione per ragioni di principio, e questo caso riguarda le grandi banche. «Attualmente, il dibattito intorno al settore pubblico dell’economia è profondamente inquinato da polemiche che traggono origine da addebiti di clientelismo, cioè di infeudamento di imprese del settore pubblico a gruppi e sottogruppi della forza politica egemone, con frequenti connessioni tra tale infeudamento e la nomina di dirigenti rivelatisi inclini all’arricchimento individuale, più che al progresso sociale. L’autore di queste pagine è stato costantemente un critico tenace della “formula IRI”, anche quando veniva considerata un articolo da esportazione: e ciò per la considerazione data all’avvertimento di un conoscitore agguerrito dei problemi della proprietà pubblica nel campo economico, secondo il quale la cosiddetta “impresa mista” avrebbe potuto dar luogo a una combinazione del peggio di entrambi i settori, pubblico e privato... Ma proprio per questa posizione di sistematico dissenso, che non ha nulla a che fare con l’atteggiamento degli improvvisati catoni odierni (compreso il cinismo dei politici che polemizzano sullo Stato provveditore di dolciumi), l’autore di queste pagine non condivide il tentativo finale cui queste critiche mirano: lo smantellamento, cioè, di una base produttiva costruita con gli sforzi e i sacrifici della collettività e che non costituisce un patrimonio personale degli amministratori pro tempore» [n. 6: F. Caffè, Lezioni di politica economica, Bollati Boringhieri, Torino 1990, pp. 405-6].
Nulla quindi ostacolò, dopo la caduta di Parri e la successiva estromissione dei partiti di sinistra dal governo, una risoluta scelta liberista in campo economico. La stessa industria pubblica si strutturò in maniera fortemente imitativa rispetto a quella privata, seguendo un «attivismo empirico» piuttosto che un «attivismo programmato». «La libertà del mercato risolve molti problemi che tutta la sapienza della legge non riesce a risolvere», scrisse proprio in quegli anni Gustavo Del Vecchio che, assieme a Costantino Bresciani Turroni, fu il maggior puntello ideologico del vero grande artefice della nostra politica economica postbellica: Luigi Einaudi.
Federico Caffè aveva deciso di fare il professore universitario da sempre: la politica lo affascinava, ma sapeva che non era fatta per lui. Dopo quella deludente esperienza, il desiderio di insegnare divenne, se possibile, ancora più forte. In mancanza di concorsi a cattedra, si preparò a sostenere gli esami per la libera docenza. Che infatti ottenne, nel 1949, assieme alla nomina di assistente incaricato presso la cattedra di Scienza delle finanze di Roma di cui era titolare (ecco un tipico paradosso alla Caffè) il super-liberista Gustavo Del Vecchio.
Il diavolo e l’acqua santa? Idealmente parlando, non ci sono dubbi. Ma che cosa contano le differenze, per un uomo come Caffè, quando stima intellettuale e affetto verso il proprio «contrario» sono illimitati? Nutrirà per tutta la vita una grande ammirazione per Del Vecchio, del quale curerà anche una raccolta di scritti (del resto, non farà altrettanto con Francesco Ferrara e con Luigi Einaudi?). Però, non ne condividerà le idee. Pur rispettandole. Anzi, meditandole e rimeditandole con un accanimento che sa, insieme, di amore e di avversione.

(pag. 103 e segg) Amava il bel canto tanto quanto amava la grande orchestra con i suoi fragori e la musica da camera con le sue piccole trame, i suoi dialoghi e battibecchi tra gli strumenti. Viveva la musica come vocazione, più che come cultura: era modo di essere, temperamento. [....]
Generalmente poco incline alla divagazione e alle parole superflue, faceva una qualche eccezione se era in argomento la musica; quando poi l’interlocutore era all’altezza del compito, poteva anche succedere che si lasciasse andare a una lunga disquisizione sul modo in cui era stata interpretata una certa sinfonia. Né si intendeva soltanto di musica colta. La musica era per lui o bella o brutta. I Beatles, per esempio, avevano scritto bella musica: era in grado di fischiettarla, così come era in grado di fischiettare Il Flauto Magico da cima a fondo. Amava anche Nashville e Jesus Christ Superstar. Diceva: «Il mondo è pieno di cose belle e il fascino spesso si annida negli angoli nascosti, minimi, della realtà. Basta cercarlo».
Giorgio Ruffolo, che gli è stato amico, ricorda di averlo conosciuto non per l’economia, ma per la musica, frequentando a Roma il teatro Argentina che, negli anni Cinquanta, aveva spesso in cartellone programmi concertistici.
A Natale, tra i componenti del «gruppo», si svolgeva un frenetico scambio di doni: il disco tallonava il libro (Ricorda con rabbia, la sceneggiatura di Accattone, Evelyn Waugh, Marguerite Yourcenar...), quando non riusciva addirittura a superarlo. Andrea Iovane, un altro dei suoi quasi-aliievi (nel senso che, formatosi con un altro maestro, era stato poi calamitato dal fascino di Caffè), lo ricorda «brahmsiano» acceso. «Bisogna ammetterlo - dice Iovane, che oggi è a sua volta in cattedra come professore associato -, c’era una certa vena romantica, in lui, e una manifesta inclinazione per la cotta improvvisa, Berlioz, Bruckner, Bartòk, cotte che andavano e venivano, quasi ciclicamente».
Iovane non sempre era d’accordo con lui. Qualche volta osava: «Troppo decadente, quel musicista lì, per i miei gusti». Caffè lo guardava gelido. Che impresa contraddirlo! Innanzi tutto, perché incuteva un certo timore. E poi anche per il fatto che, in lui, prendeva subito il sopravvento la timidezza. Allora si chiudeva. Si irrigidiva. Non concedeva più nessuno spazio al dialogo. «Mi ha sempre stupito in Caffè questa curiosa contraddizione che rovescia il modo d’essere corrente. In genere, la gente è timida e impacciata quando parla in pubblico e sciolta in privato. A lui, invece, succedeva esattamente il contrario».
A Giorgio Ruffolo glielo presentò un comune amico, Franco Archibugi, stabilendo subito un ottimo rapporto di stima e simpatia. Ruffolo rammenta alcune passeggiate domenicali, con Caffè e Archibugi (il cui figlio, Daniele, sarà poi uno degli allievi di Caffè più ostinati nell’escludere l’ipotesi del suicidio per immaginarlo tuttora vivo, nascosto da qualche parte), durante le quali la conversazione oscillava, pendolarmente, tra musica ed economia, con qualche prevalenza, forse, dell’argomento musicale e perfino, come si conveniva alla leggerezza di una passeggiata romana, del quiz musicale: di chi è questo tema e di chi è quest’altro.
«Caffè era altrettanto grande musicologo quanto grande economista», dice Ruffolo adombrando così, forse, una connessione tra queste due passioni-competenze: come se nel suo modo di essere economista fosse in qualche modo presente la sua emotività musicale. Del resto, non fu lo stesso Caffè che, ricorrendo forse per pudore a una parola inglese, ebbe a definire se stesso un economista passionate? Lo disse in uno dei suoi ultimi seminari, poco prima di scomparire, quasi a offire una chiave interpretativa della sua personalità di studioso e di uomo, per spiegare che in lui non c’erano mai stati steccati tra intelligenza e sentimento, tra immaginazione e ragionamento.
Soltanto a queste condizioni, diede a intendere, era possibile a un economista vivere la sua esperienza professionale sino in fondo, sino a raggiungere, per non perderlo più di vista, l’unico autentico fine del proprio lavoro e della propria riflessione: l’uomo; l’uomo con il suo sacrosanto diritto al lavoro e alla dignità; l’uomo nelle sue varianti più deboli e vulnerabili come il povero, l’emarginato, il vecchio, il bambino; l’uomo inteso come sviluppo armonico di tutti gli strumenti del suo auspicabile e possibile benessere (gli strumenti del Welfare State, naturalmente).
Ma se questo è il ritratto dell’economista passionate, qual è quello del suo contrario? Lo disegna Ruffolo, così: «Freddo, ossessivamente statistico, sommerso dalle formule matematiche, tutto concentrato nello studio dei grandi feticci dell’economia politica: la stabilità monetaria, il costo del denaro, il pareggio della bilancia dei pagamenti, il contenimento dell’inflazione, lo sviluppo inteso come puro volume di affari, di produzione industriale e di scambi con l’estero, al di là dei riflessi che questo sviluppo può avere o non avere con il corpo vivo della società». [....]

Caffè ha un culto tutto suo del «laboratorio», dove l’economista opera dopo aver indossato gli abiti della neutralità, una sorta di ideale camice bianco che separa l’osservatore dalle cose osservate. Lo statuto, naturalmente mai scritto, del «laboratorio», è preciso e severo: in economia si costruisce essenzialmente attraverso la dialettica dei contrari; non ci può essere unilateralità, uniformità, omogeneità; l’economia, come la vita, è sintesi, è un ininterrotto elaborare attingendo spregiudicatamente ovunque sia giusto attingere. Semmai, la grandezza di un economista sta proprio in questa sua capacità di non chiudersi in nessun recinto, di intrecciare-fondere-amalgamare di volta in volta teorie diverse; sta nella sua duttilità, nel suo «eclettismo» (quello che conta, dice lo statuto del laboratorio, è di non perdere mai di vista il senso più profondo del proprio operare, il mondo dei grandi valori ai quali ci si richiama, la propria determinazione a essere sempre e comunque per un’economia a servizio dell’uomo).
Caffè rifiuta il ruolo di uomo di parte nel senso corrente della parola, aborre dai grandi progetti che tendono a racchiudere passato, presente e futuro in un sistema economico chiuso (diffida perfino della mega-programmazione: quella, per intenderci, che per volere cambiare tutto finisce per non cambiare proprio niente). Con lui il riformismo italiano conosce un nuovo modo di ragionare, laico, concreto, anglosassone, un ragionare che considera con fastidio tutti «i libri dei sogni» per concentrarsi interamente sulle cose che si possono e che si debbono fare (modificare/migliorare) subito. Ma subito davvero: niente «appuntamenti con la Storia». Legge del «laboratorio» è vivere la propria scienza come il medico o il chirurgo vivono la loro: con l’urgenza e l’immediatezza di chi è chiamato a sbrogliare matasse subito, ad affrontare situazioni che non possono essere rinviate perché si collocano tutte in quello spazio ristrettissimo che sta tra la vita e la morte.
E’ tutta la sua vita che appare regolata da questo pragmatismo fortemente finalizzato. A Caffè, alieno da ogni ideologismo, non importa molto sapere chi siano i suoi compagni di viaggio. Importa che essi vogliano quello che vuole lui e che si adoperino concretamente per ottenerlo.

A uno studente che un giorno gli scrive una lettera per rimproverarlo, sia pure in maniera molto indiretta e cauta, di mostrarsi insensibile al problema dell’alienazione intesa, marxianamente, come assoggettamento dell’uomo alla macchina, risponde che in effetti ha ragione a rimproverarlo perché lui, a questi «drammi», ci crede poco. Gli sembra che gli operai, più che dalla minaccia dell’alienazione, siano oppressi da quella del licenziamento, sempre possibile in tutto il mondo capitalistico. E siano oppressi da condizioni di lavoro non sempre rassicuranti, come fa osservare l’economista Kapp mettendo in risalto la costante diversità di valutazione, nella letteratura economica, tra il valore del capitale originario dell’impresa e i costi umani dell’attività produttiva (infortuni, malattie professionali, eccetera). «Se al posto di ventimila operai - questa la citazione di Kapp offerta da Caffè alla riflessione del suo impaziente allievo - vi fossero ventimila capi di bestiame esposti a morte sicura dovuta a una malattia epidemica e ricorrente, si determinerebbe un incentivo agevolmente calcolabile ad adottare le necessarie misure preventive. Per il fatto di non costituire un valore in linea capitale, il fattore umano della produzione viene invece a trovarsi, in un’economia di mercato, in condizioni meno favorevoli dei mezzi non umani del processo produttivo».
L’urgenza del presente, soprattutto, quindi: era questa la sua più evidente connotazione culturale, e fors’anche temperamentale. Un modo di essere che ha indotto parecchi ad attribuirgli, pur nel riconoscimento della sua dichiarata laicità, inclinazioni di tipo religioso. Del resto, tra il 1949 e il 1950 aveva collaborato anche con i dossettiani di «Cronache sociali», la rivista della sinistra democristiana che voleva promuovere una cultura nuova tra gli italiani che votavano per lo scudo crociato, una cultura non confessionale che parlasse loro dello Stato moderno, dell’economia di mercato, dei servizi sociali, dei diritti e dei doveri dei cittadini. [....]
A segnalarlo a «Cronache sociali» fu Guido Carli, il futuro governatore della Banca d’Italia. Comunque, a detta dell’ex direttore di «Cronache sociali», non fu mai un personaggio organico al gruppo. Semplicemente, ritenne che la rivista potesse rappresentare un’occasione per riprendere il filo di una battaglia culturale bruscamente interrotta dopo la sconfitta di Parri e la successiva estromissione delle sinistre dal governo a opera di De Gasperi. S’illuse, forse, che quei cattolici potessero acquistare col tempo un diverso peso politico nella Democrazia Cristiana e nel paese. «La sua simpatia verso di noi nasceva dal fatto che giudicava molto positivamente la nostra aspirazione a creare finalmente in Italia un’idea di società, un’idea di Stato la cui mancanza, allora come adesso, costituisce il nostro maggiore punto di debolezza. Oggi - spiega [Giuseppe] Glisenti [direttore di «Cronache sociali» nei due anni delle collaborazioni di Caffè - nota mia] - se lei va in Spagna, tanto per dire, trova un’idea dello Stato spagnolo anche tra le persone più povere, più ignoranti o addirittura analfabete. Qui da noi un’idea dello Stato italiano non la trova neanche tra le persone colte e addottorate. Ecco quel che ci unì: fu questa convinzione, assolutamente laica, che bisognasse costruire una società consapevole di se stessa, una società convinta di essere nazione, di avere valori comuni, diritti e doveri comuni».
E’ una testimonianza di grande interesse. Perché ribadisce la linearità del percorso intellettuale di Caffè pur dietro le apparenti tortuosità della cronaca. Da essa emerge, anzi, ancora più nitida l’immagine, culturalmente e idealmente ostinata, di questo piccolo uomo che cerca, armato come Diogene di una lanterna, non già l’uomo (o forse anche quello), ma soprattutto lo Stato, quella cultura della società che non esisteva (allora come adesso), ma che lui viveva come una stringente necessità, una promozione da compiere a ogni costo.
Cerca lo Stato con lo stesso accanimento di un appassionato investigatore in una sorta di «giallo» storico; lo cerca trovandosi compagni di viaggio di volta in volta diversi, intellettuali, o gruppi di intellettuali, più o meno isolati come lui e, come lui, convinti che non vi possa essere modernità senza spirito collettivo, spirito pubblico.
Quando Caffè approda a «Cronache sociali», l’Italia è un paese affetto da una grave nevrosi: come sdoppiato, spaccato in due, drammaticamente immerso in un meccanismo di esclusioni e autoesclusioni che rende la vita civile un vero inferno. Ma questa è soltanto una porzione di verità. Entrambe le culture che assediano il paese si ispirano infatti a ideali tutti rigorosamente estranei a quelli dello Stato nazionale così come esso si è costituito in Europa negli ultimi secoli di storia. La cultura marxista, anche se tra molte «sofferenze», è troppo impigliata nel mito della rivoluzione per vivere come valori istituzioni e strutture tra l’altro a pezzi («lo Stato borghese si abbatte e non si cambia», grideranno i giovani nelle piazze durante gli anni di piombo, dando voce al sentimento covato in cuor loro, silenziosamente, dai propri padri). Quanto alla cultura clericale, guarda più che mai alla Chiesa come al vero centro motore della società. Per essa, il principio stesso d’autorità è innanzi tutto dentro la Chiesa, cui competono diritti d’ogni genere, per esempio in campo assistenziale, in materia di scuola ed educazione, ed anche in fatto di giustizia: se non in senso tecnico, quanto meno in senso etico (quale altro paese al mondo ha praticato con altrettanta frenesia come l’Italia la politica dei perdoni, dei condoni, delle grazie, delle amnistie, delle impunità?).
Apparentemente, sono due culture agli antipodi, che si combattono in una specie di guerra totale. In realtà, collaborano a decimare lo stesso avversario (sia pure con diversi livelli di responsabilità): quel po’ di Stato sopravvissuto al fascismo e alla disfatta bellica. [...]
E’ stata chiamata la «malattia Italia». Malattia, d’altronde, incredibilmente vecchia, anche se è soltanto nel secondo dopoguerra che esplode in tutta la sua virulenza. [..]
Siamo a metà dell’Ottocento quando Bertrando Spaventa, il fratello filosofo (il politico è Silvio), dichiara senza mezzi termini che se in Italia non esiste lo Stato, se questo è un valore debole e incerto nella coscienza dei più, ciò dipende dalla pretesa della Chiesa di essere essa, ed essa sola, l’anima della società civile e la suprema regolatrice dello Stato. [...]
L’Italia è figlia della Controriforma, il che la condanna a vedere frustrate tutte le sue aspirazioni a diventare nazione nel senso più moderno e severo della parola, la condanna alla cultura confessionale e papista in base alla quale l’uomo è chiamato a rispondere delle sue azioni soprattutto davanti alla Chiesa e a Dio, e non davanti alla collettività dei suoi simili. Fu Bertrando Spaventa, racconta Eugenio Garin [n. 3: Eugenio Garin, Filosofia e politica in Bertrando Spaventa, Bibliopolis, Napoli 1983], a «indicare nella Controriforma il momento della sconfitta nazionale, laddove la Riforma, da cui sarebbero scaturiti i temi della grande filosofia tedesca, raccoglieva fuori d’Italia l’eredità autentica del Rinascimento italiano». E Garin aggiunge: «E' la Riforma che, affermando il principio della libertà d’esame, e propugnando la libertà religiosa, ha favorito lo sviluppo della libertà politica. E’ infine la Riforma a sostenere, a proposito dei beni mondani, che il fine dell’azione più morale non consiste nell’essere povero, ma nel vivere del proprio lavoro e nel godere di ciò che il lavoro produce».
Queste parole di Bertrando Spaventa, che Garin riporta in corsivo, sono il manifesto stesso del pensiero di Caffè, il suo maggiore articolo di fede: una società in cui sia presente un solo disoccupato è una società nella quale vi è una ferita aperta. Per lui, va rivendicata innanzi tutto «la desiderabilità prioritaria, e non soggetta a condizioni di alcun genere, del pieno impiego». E Caffè spiega: «Il pieno impiego non è soltanto un mezzo per accrescere la produzione e intensificare l’espansione. E’ un fine in sé, poiché porta al superamento dell’atteggiamento servile di chi stenta a procurarsi un'opportunità di lavoro...