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De Senectute - Norberto Bobbio



lunedì 16 ottobre 2006 legge Maurizio Viroli
“Negli ultimi anni della sua vita Norberto Bobbio ha prodotto a mio giudizio i suoi lavori migliori. Mi riferisco in particolare alle sue riflessioni sul problema religioso, sulla mitezza,  sui grandi temi morali, sulla vecchiaia. Conservò sempre il suo tipico metodo d’indagine, uno stile analitico rigorosissimo che gli permetteva di cogliere distinzioni e di gettare luce anche sui problemi più intricati e più aspramente dibattuti. Allargò tuttavia il suo ambito d’indagine a questioni che non aveva mai toccato nella sua lunga carriera intellettuale e che costituiscono invece aspetti essenziali dell’esperienza umana. Filosofo per eccellenza dei concetti, l’ultimo Bobbio analizzò la dimensione degli affetti, e credo sia facile profezia affermare che proprio gli ultimi scritti, nella sua immensa produzione, resisteranno meglio degli altri all’usura del tempo”. 

Maurizio Viroli, docente di Teoria politica all’università di Princeton (New Jersey), ha scritto insieme a Norberto Bobbio il Dialogo intorno alla Repubblica, Laterza, 2001.


Norberto Bobbio, De Senectute, Torino, Einaudi, 1996


Un bilancio (pagg. 163-174)


Quando si è vecchi, e per di più anche invecchiati, non si riesce a sottrarsi alla tentazione di riflettere sul proprio passato. Delle tre dimensioni del tempo, per chi ha superato le soglie degli ottant'anni, solo il passato esiste col suo peso schiacciante di ricordi che non se ne vogliono andare e talora ricompaiono improvvisamente dopo anni che parevano svaniti. I1 presente è sfuggente. Il futuro, che è il regno dell'immaginazione e della fantasticheria, si riduce di giorno in giorno sino a scomparire del tutto.
Quale migliore occasione per un bilancio conclusivo che questa solenne cerimonia, in cui mi viene conferito il titolo di dottore della vostra Università? Un bilancio non facile. E’ uscita pochi mesi fa, presso l'editore Laterza, una ammirevole bibliografia dei miei scritti, alla quale attendeva da anni Carlo Violi dell'università di Messina. Dico «ammirevole» beninteso, per il metodo con cui è stata condotta, non per i contenuti che non sta a me giudicare. Dal punto di vista dei contenuti una bibliografia, a maggior ragione la bibliografia di una persona come me che ha disperso le proprie ricerche in tanti piccoli rivoli che non sono mai confluiti in un solo grande fiume, è come un bazar: c’è anche la merce di lusso, però frammista a molta merce a buon mercato, il ninnolo prezioso in mezzo alle cianfrusaglie. Bisogna fare delle scelte. Scartare il grano dal loglio. Questo si può fare soltanto andando a vedere che cosa c’è dietro a quei titoli allineati l'uno dietro l'altro in base a due criteri oggettivi, quindi non selettivi, come l'alfabetico e il cronologico. Che cosa c’è? C’è più o meno la storia della mia vita. Solo guardando questa storia, si può sperare di trovare un filo conduttore, discernere non dico il buono dal cattivo, non spetta a me il farlo, ma ciò che è più o meno rilevante, appunto, per quel bilancio.
Appartengo a una generazione - l'ho detto più volte - che è passata dal limbo, in cui, per dirlo con Dante, stanno coloro che «mai furon vivi» all'inferno della seconda guerra mondiale durata cinque anni e che in Italia, a differenza di quel che accadde in altri paesi, terminò con l'occupazione tedesca di parte del territorio e con una crudele guerra fratricida, che lasciò piaghe così profonde non ancora guarite dopo mezzo secolo. Per chi, come me, aveva seguito studi giuridici e filosofici e si era occupato forzatamente di studi politicamente asettici, era naturale che, finita la guerra e tornata la libertà, i grandi problemi da affrontare fossero la democrazia e la pace.
La storia della mia vita di studioso comincia di lì Quello che precede: la preistoria. Questi due grandi temi sono come la calamita da cui è stata attratta gran parte della limatura degli scritti brevi e d'occasione.
Cosi la massa apparentemente caotica delle schede bibliografiche può forse trovare un primo ordinamento.
Solo qualche anno più tardi mi trovai ad affrontare il tema, cui le riflessioni sulla democrazia e sulle condizioni della pace mi avevano inevitabilmente condotto, dei diritti dell'uomo. Che i tre temi - democrazia, pace, diritti dell'uomo - fossero strettamente
collegati tra loro, anche se gli scritti che vi si riferiscono nacquero indipendentemente l'uno dall'altro, era evidente. Tanto che più volte mi è accaduto di presentare il loro collegamento come meta ideale di una teoria generale del diritto e della politica, che peraltro non sono mai riuscito a scrivere.
In una ideale teoria generale del diritto e della politica, l'opera dovrebbe essere costituita da tre parti di un unico sistema. Il riconoscimento e la protezione dei diritti dell'uomo stanno alla base delle costituzioni democratiche moderne. La pace, a sua volta, il presupposto necessario per il riconoscimento e l'effettiva protezione dei diritti fondamentali all'interno dei singoli Stati e nel sistema internazionale. Nello stesso tempo il processo di democratizzazione del sistema internazionale, che è la via obbligata per il perseguimento dell'ideale della «pace perpetua», nel senso kantiano della parola, non può andare avanti senza una graduale estensione del riconoscimento della protezione dei diritti dell'uomo a1 di sopra dei singoli Stati. Diritti dell'uomo, democrazia e pace, sono dunque tre momenti necessari dello stesso movimento storico: senza diritti dell'uomo riconosciuti e protetti non c'i: democrazia; senza democrazia non ci sono le condizioni minime per la soluzione pacifica dei conflitti sociali. Con altre parole, la democrazia è la società dei cittadini. I sudditi diventano cittadini quando vengono loro riconosciuti i diritti fondamentali. Ci sarà pace stabile, una pace che non abbia più la guerra come alternativa, soltanto quando vi saranno cittadini non solo di questo o quello Stato, ma del mondo ordinato in un sistema giuridico democratico.
Chi scorra la bibliografia nei primi due o tre anni dopo la guerra, si accorgerà che per la prima volta cominciai a collaborare a giornali, e che i temi trattati riguardano il paese. Per quel che riguarda il tema della pace, il problema allora attualissimo era quello del federalismo europeo, da cui ci si aspettava la fine della più che secolare guerra civile europea. La patria ideale, cui guardava un socialista liberale come ero diventato negli ambienti di antifascisti che avevo frequentato, era 1’Inghilterra. Scopersi, e non ho mai più dimenticato, per quel che riguarda la teoria della democrazia i due volumi di Popper, The Open Society and its Enemies, apparso nel 1945, di cui parlai per la prima volta in Italia.
Per quel che riguarda il federalismo, scopersi gli scrittori inglesi che avevano fatto varie proposte di superamento della Società delle Nazioni e per la costituzione di un sistema federale internazionale, come, tanto per citare tra i più noti, Lord Lothian, anche se l'autore che mi aveva meglio fatto capire il problema era Lionel Robbins, di cui l'editore Einaudi aveva pubblicato nel 1944, durante la guerra, il prezioso libretto, Le caure economicbe della I guerra. Parlo di «scoperte», perch6 ero giunto ad affrontare il compito del democratico e del pacifista militante, partendo dallo stato di ignoranza in cui ci aveva lasciato il fascismo.
Non è certo il caso di esporre altri particolari. Dell'uno e dell'altro problema mi sono occupato continuamente e saltuariamente. Ho accennato a1 punto di partenza. Il punto di arrivo fu per il primo problema Il futuro della democrazia del 1984; per il secondo, Il problema della prima guerra e le vie della pace del 1 979. Forse più che un punto d'arrivo, una sosta, che mi avrebbe consentito di riprendere la strada, se pure a piccoli passi, sempre all'interno dello stesso paesaggio, la cui esplorazione non ha cessato di offrirmi nuove sorprese. Rispetto al tema dei diritti dell'uomo, di cui mi occupai molto più tardi, come ho detto, il punto di arrivo è L'età dei diritti apparso nel 1990, che mi piace considerare l'ultima sezione della mia trilogia.
Il nuovo nemico da affrontare, all'inizio della guerra fredda era il comunismo. Ma in un paese come l’Italia dove si era formato, attraverso una coraggiosa ed estesa partecipazione alla Resistenza, un forte partito comunista, che aveva dato un leale contributo alla elaborazione della nuova Costituzione repubblicana, il problema doveva essere affrontato non con la critica delle armi ma con le armi della critica, nello spirito del dialogo, non in quello della crociata, allo scopo di conquistare i suoi militanti definitivamente alla democrazia. Così fu che la difesa della democrazia procedette in quegli anni di pari passo con la mia partecipazione a1 dibattito pro e contro l’Unione Sovietica. A cominciare dall'inizio degli anni Cinquanta scrissi alcuni saggi in civile dialogo con alcuni intellettuali comunisti, che stimavo per la loro serietà di studiosi e per la loro onestà intellettuale, allo scopo di persuaderli dell'errore in cui la loro ammirazione incondizionata per il paese del socialismo li aveva fatti cadere: l'errore di interpretare i diritti di libertà come «diritti borghesi»di cui lo Stato proletario, se mai si fosse instaurato attraverso la loro conquista del potere, avrebbe potuto fare a meno. Questi saggi furono raccolti nel 1955 in un volume Politica e cultura da allora più volte ristampato. La notorietà del libro dipese anche dal fatto che alla fine del dibattito durato alcuni anni intervenne garbatamente lo stesso Togliatti.
Vent'anni dopo, quando ormai era chiaro che la democrazia italiana, sempre governata dallo stesso partito, aveva bisogno di una svolta che non poteva venire se non da rapporti meno antagonistici con il partito comunista, affrontai il tema non più dei diritti di libertà, che dopo anni di pratica democratica non erano messi in discussione, ma quello ben più ampio della teoria generale dello Stato democratico e delle sue regole.
I1 dibattito si svolse intorno al tema: «Esiste una teoria marxista dello Stato che possa valere come modello contrapposto alla democrazia dei moderni?»
La mia risposta nettamente negativa suscitò un ampio dibattito. Sostenevo che Marx non si era molto preoccupato di prevedere quali dovessero essere le regole per dar vita a uno Stato «col volto umano», come si diceva allora, perchè lo Stato in quanto tale era destinato a scomparire. Siccome lo Stato non era scomparso e non sembrava destinato a scomparire nel prossimo futuro, il problema era ancora una volta: «Quale Stato?»
Esisteva un'alternativa accettabile alla democrazia rappresentativa? Dal dibattito nacque un libro apparso nel 1976, intitolato Quale socialismo?
In esso constatavo con una certa soddisfazione che la distanza con gli antichi interlocutori era diminuita. Questo libro è il secondo della mia trilogia di scritti di polemica politica, di cui il terzo, su cui non intendo soffermarmi, perchè se ne è parlato sin troppo, Destra e sinistra,. è del 1994.
Non vorrei dare l'impressione di essere stato per la maggior parte della mia vita un intellettuale militante, come suona il titolo di un libro che un giovane studioso ha dedicato alla mia opera. Dopo i primi articoli scritti su un giornale torinese del Partito d'Azione, durato pochi mesi, tra il 1945 e il 1946, cominciai a collaborare con una certa assiduità a un giornale quotidiano di grande diffusione, La Stampa di Torino, solo dopo trent'anni, alla fine del 1976, quando ero vicino ai settant'anni ed ero prossimo ad andare in pensione come professore. E ora che ne sono passati altri venti, considero la parabola finita. Fui candidato una sola volta alle elezioni politiche, nella primavera del 1946 per la formazione dell'Assemblea Costituente che avrebbe dato vita alla Costituzione repubblicana che continua a sopravvivere se pure malmenata e vituperata. Candidato sconfitto, in quanto membro del Partito d'Azione, partito di intellettuali senza radici nella società civile, che, nato per combattere, anche militarmente, il fascismo e il nazismo suo alleato, caduto il fascismo, perdette la propria ragione di esistere, non ebbi nè la voglia nè l’incoraggiamento per ritentare la prova. Quando fui nominato senatore a vita dal presidente Pertini nel 1984, ero ormai vecchio. Ho sempre considerato il Senato più che come una sede di dibattiti politici come un teatro di cui sono stato più uno spettatore curioso che un attore.
Dopo il 1948 tornai a fare esclusivamente l'insegnante di filosofia del diritto, come avevo fatto negli ultimi anni del regime fascista, conducendo una vita piuttosto monotona in cui non è avvenuto niente, tranne che nella vita privata, che valga la pena di essere raccontato.
L'unico cambiamento in tutti questi anni fu nel 1972 il passaggio dall'insegnamento della filosofia del diritto nella Facoltà di Giurisprudenza a quello della filosofia della politica nella Facoltà di Scienze Politiche, allora istituita. Il passaggio dall'uno all'altro insegnamento fu preparato e facilitato dall'aver tenuto per una decina d'anni un corso di scienza politica, disciplina che aveva avuto vecchie radici nella nostra Università dove aveva insegnato Gaetano Mosca, autore di quegli Elementi di scienza politica, apparsi alla fine del secolo che segnano la nascita della scienza politica in Italia. Come mai avevo avuto quell’incarico? L’unica risposta è che il filosofo del diritto, essendo specialista di nulla, è spesso autorizzato, a differenza dei colleghi giuristi, a occuparsi di tutto. Negli anni di quell'insegnamento mi dedicai allo studio non solo di Mosca ma anche di Pareto e di altri minori. Ne nacque il libro Saggi sulla scienza politica in Italia, apparso nel 1969, di cui è uscita una nuova edizione riveduta e accresciuta in questi giorni. Credo di non peccare di presunzione se dico che l'aver coltivato studi giuridici e politici mi ha consentito di guardare ai mille complicati problemi dell'umana convivenza da due punti di vista che si integrano a vicenda. Ho notato spesso che, almeno in Italia, giuristi costituzionalisti e politologi che si occupano dello stesso tema, lo Stato, spesso si ignorano. Lo stesso accade nel rapporto fra giuristi internazionalisti e studiosi di relazioni internazionali nell'analisi del sistema degli Stati. I due punti di vista sono, da un lato, quello delle regole o delle norme, come i giuristi preferiscono dire, la cui osservanza è necessaria perchè la società sia ben ordinata, e, dall'altro, quello dei poteri altrettanto necessari perchè le regole o norme siano imposte e, una volta imposte, osservate.
La filosofia del diritto si occupa delle prime, la filosofia politica delle seconde. Diritto e potere sono due facce della stessa medaglia. Una società bene ordinata ha bisogno delle une e degli altri. Là dove il diritto è impotente la società rischia di precipitare nell'anarchia; là dove il potere non è controllato, corre il rischio opposto del dispotismo. Il modello ideale dell'incontro fra diritto e potere è lo Stato democratico di diritto, cioè lo Stato in cui attraverso le leggi fondamentali, non vi è potere dal più alto al più basso che non sia sottoposto a norme, non sia regolato dal diritto, e in cui, nello stesso tempo, la legittimità dell'intero sistema di norme deriva in ultima istanza dal consenso attivo dei cittadini.
Accade soprattutto nello Stato democratico di diritto che filosofia giuridica e filosofia politica debbano stabilire tra loro fecondi rapporti di collaborazione, dando origine a quell'agire politico che a tutti i livelli deve svolgersi nei limiti di norme stabilite, e queste stesse norme possono essere continuamente sottoposte a revisione attraverso l'agire politico, promosso da più diversi I centri di formazione dell'opinione pubblica, siano gruppi d'interesse, associazioni, liberi movimenti di riforma o di resistenza. Per quanto riguarda questa duplice analisi, i miei costanti punti di riferimento, gli autori che mi hanno sempre accompagnato, assistito e sorretto nei miei studi, sono stati Kelsen e Weber. Pur partendo da due punti di vista diversi, Kelsen dalle norme e dal diritto come ordinamento di norme, Weber dal potere e dalle varie forme di potere, i due autori hanno finito per incontrarsi pur facendo cammino opposto: Kelsen dalla validità formale delle norme alla effettività, attraverso le varie forme di potere degradanti dall'alto al basso, Weber, invece, dal potere di fatto alle varie forme di potere legittimo. La norma ha bisogno del potere per diventare effettiva, e il potere di fatto ha bisogno dell'obbedienza continuata al comando e alle regole che ne derivano per diventare legittimo.
Per Kelsen solo il potere legittimo è effettivo; per Weber il potere è legittimo quando è anche effettivo. Potere e legittimità si rincorrono. Il potere diventa legittimo attraverso il diritto mentre il diritto diventa effettivo attraverso il potere. Quando l'uno e l'altro si separano, ci troviamo di fronte ai due estremi, da cui qualsiasi convivenza ordinata deve rifuggire, del diritto impotente e del potere arbitrario.
Questa scissione è oggi ancora visibile in quel sistema giuridico imperfetto che è il sistema internazionale, dove esiste un ordinamento giuridico universale degli Stati, che non ha tanto potere per rendere effettive le proprie norme, e di conseguenza i soggetti del sistema, gli Stati, agiscono, per riprendere la celebre definizione che Montesquieu dà delle varie forme di governo dispotico, senza leggi nè freni,. Sono tornato più volte sul tema nei miei scritti sulla questione internazionale, dove il problema della pace e quello della democrazia si collegano l'uno con l'altro. Nella preferenza da me data al pacifismo istituzionale o giuridico rispetto a quello etico o religioso non ho potuto fare a meno, da un lato, di sottolineare l'impotenza dell'Onu, che richiede un rafforzamento dei mezzi di coercizione, e dall'altro, di sostenere che il maggior potere debba procedere di pari passo, con un avanzamento nel processo di democratizzazione.
Per riprendere il titolo del libro di cui ho già parlato, "il futuro della democrazia", posto che la democrazia abbia un futuro, dipende dal duplice processo di democratizzazione sia dei singoli Stati, che in maggioranza non sono democratici, sia della stessa organizzazione degli Stati che si regge ancora in ultimissima istanza sul diritto di veto di alcune grandi potenze.
Non posso chiudere questa ricapitolazione finale di chi ha esercitato per più di sessant'anni, smisuratamente lo riconosco, il mestiere di scrivere, senza fare un cenno delle molte pagine che ho dedicato al problema degli intellettuali, alla cui categoria spesso più vilipesa che onorata, di fatto appartengo, e sulle virtù e sui difetti della quale mi è accaduto spesso di riflettere. Mi sono attribuito a torto o a ragione la funzione dell'intellettuale mediatore, coincidendo tutta intera la mia vita col secolo breve, percorso da contrasti di una violenza inaudita. Da questa vocazione a mettermi di qua e di là sono derivati i miei ossimori che mi sono stati amichevolmente fatti notare, come liberalismo e socialismo, illuminismo e pessimismo, tolleranza e intransigenza, e altri ancora. I miei scritti sul tema sono stati raccolti in un volume intitolato II dubbio e la scelta (1993), che rispecchia il contrasto che ho sempre vissuto in un perenne stato di coscienza infelice, fra l'uomo politico, che è costretto a prendere decisioni e per decidere deve fare delle scelte, e l'intellettuale che può permettersi di analizzare pacatamente i pro e i contro di una questione e terminare la sua analisi con un punto interrogativo.
Non avrebbe torto chi mi facesse notare, oltre gli ossimori, anche numerosi miei scritti che terminano, anzichè con una risposta alla domanda, con un'altra domanda: Quale socialismo? Quale pacifismo? Quale democrazia ? e, perchè no ?, quale intellettuale ? Chi volesse una risposta a quest'ultima domanda rinvio alla storia degli intellettuali italiani di questo secolo, cui ho dedicato un libro cui sono particolarmente affezionato, il Profilo ideologicco del Novecento, uscito in edizione definitiva nel 1990, e del quale ho avuto la soddisfazione di ricevere recentemente la traduzione inglese (1995). Amante delle simmetrie come sono, mi sarebbe piaciuto presentarvi anche una trilogia sul tema degli intellettuali, ma almeno sinora i libri sull'argomento sono soltanto due. Idealmente mi sono ispirato a1 celebre libro di Julien Benda, La trahison des clercs, che ho citato non so quante volte. Benda diceva: «Non ho voluto salvare nei miei scritti il mondo ma solo l'onore del chierico». Il suo pensiero si rivolgeva con riconoscenza a quei quaranta giusti, di cui si diceva nella leggenda, avevano impedito al re barbaro sul letto di morte di dormire in pace. La mia ammirazione è sempre andata ai chierici che non hanno tradito, ai quali ho dedicato, in questo caso ancora una volta con pieno rispetto della mia passione trilogica, tre libri di testimonianza: Italia civile (1964), Maestri e compagni (1984), Italia fedele (1986). Sono i tre libri che desidererei mi sopravvivessero perch6 tramandano a coloro che verranno una testimonianza, come ho scritto nella prefazione di Maestri e compagni, di uomini che appartengono a quella minoranza di nobili spiriti che hanno difeso, alcuni sino a1 sacrificio della vita in anni durissimi la libertà contro la tirannia. A chi un giorno mi chiedeva con quale brano di uno dei miei scritti amerei definirmi, indicai la conclusione della prefazione di Italia civile.
Dalla osservazione della irriducibilità delle credenze ultime ho tratto la pili grande lezione della mia vita. Ho imparato a rispettare le idee altrui, ad arrestarmi davanti al segreto di ogni coscienza, a capire prima di discutere, a discutere prima di condannare. E poiché sono in vena di confessioni, ne faccio ancora una, forse superflua: detesto i fanatici con tutta l'anima.