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Luis. Una voce sopravvissuta a Pinochet-Luis MuHoz

lunedì 16 marzo 2009 legge Leonardo Barcelo
Sono piene di tenerezza le pagine del libro di Luis Muñoz, rivoluzionario cileno, passato per le mani dei torturatori all'indomani del golpe di Pinochet. Si tratta di un racconto struggente e appassionato. Muñoz viene da una famiglia di modeste condizioni e come tanti giovani della sua generazione sostiene l’esperienza politica del Presidente Allende. Ma l'11 settembre 1973 il sogno si spezzò, il governo democraticamente eletto cadde nelle mani dei militari golpisti capeggiati da Pinochet. I militari iniziarono la persecuzione di tutti gli oppositori politici, Luis e la moglie Diana entrarono in clandestinità, si dovettero separare. Non si sarebbero mai più rivisti. Lei fu ferita dai militari e uccisa in carcere. Per Muñoz iniziò un calvario nelle stanze della tortura. La politica era la passione della sua vita. Per la sua generazione significava una promessa di vita diversa e di un mondo migliore. Luis Muñoz racconta con grande umanità le ferite psichiche della tortura. Oggi Munoz vive a Londra in un esilio infinito. Ha un master in Sociologia e Psicologia e dà assistenza professionale al governo britannico nelle politiche di accoglienza verso i richiedenti asilo politico.



Luís Muñoz, Luís. Una voce sopravvissuta a Pinochet, (trad. it. di Vincenza D’Urso), Baldini Castaldi Dalai, 2008
I genitori

Mia madre doveva aver avuto diciannove anni quando sposò mio padre. Non si lasciò convincere facilmente: lui le dovette fare molti regali e cantarle una serenata proprio sotto la finestra della camera da letto, con mia nonna che gliene diceva di tutti i colori. Era una donna estremamente bella. Aveva un paio di foto, scattate da un suo ammiratore, che conserviamo ancora. Non so quale dei miei fratelli abbia l'originale, ma tutti noi ne abbiamo una copia, perché in quelle foto è davvero splendida.
È difficile mettere insieme i pezzi e conoscere con certezza la storia della sua vita da nubile, forse perché lei stessa si sentiva a disagio a raccontare quanto le era accaduto. Dopo la sua morte, nel 1995, cercai di ricostruirne l'esistenza. Parlare con i miei fratelli e le mie sorelle non mi fu molto d'aiuto, perché ognuno di loro mi raccontò una versione diversa degli stessi fatti. Inoltre, tutti quanti provavano vergogna, e anche un certo pudore, nel dover condividere e confrontare con gli altri un pezzo di storia della propria madre, poiché ciascuno sosteneva di aver sentito da lei una storia diversa. La paura era quella di venire derubati di qualcosa al quale ciascuno si era aggrappato in qualità di figlio privilegiato, unico depositario della vera storia della propria madre.
Ciò che emerse è abbastanza triste. Era nata nel 1925. E qui già si presentava la prima discrepanza: in settembre o in ottobre? Esistevano due informazioni diverse: una fornita dalla madre e una dal padre, e ciascuna aveva una data diversa.
Sua madre era arrivata in Cile con la propria madre, un'emigrante spagnola. Il padre, Hipolito Eyraud, era un francese emigrato dalla Francia in Argentina e poi in Cile. Era un docente universitario di Marsiglia che aveva insegnato scultura e pittura all'Universidad de Chile di Santiago.
Aveva due sorelle suore che vivevano in una scuola convento a Villa del Mar, vicino a Valparaiso.
Non ho la certezza di cosa accadde, ma mia madre finì per vivere con loro fino a quando non ebbe compiuto undici anni. Fu allora che sua madre cercò di ottenerne la custodia, e la cosa finì in tribunale. Chiesero a mia madre di decidere con quale dei due genitori volesse andare a vivere. Lei, che ne aveva avuto abbastanza delle due suore che le parlavano solo in francese e la trattavano come una serva, decise di tentare la fortuna con la madre, ignorando così le preghiere del padre, e le sue promesse di una vita sfavillante a Parigi, dove avrebbe potuto studiare pittura, danza o canto, e dove avrebbero potuto vivere felici, solo loro due. Mia madre fu irremovibile. Scelse una vita di povertà e privazioni con sua madre e sua nonna. Quando sposò mio padre, lavorava come assistente di laboratorio.
Mio padre aveva otto anni più di lei e quando s'incontrarono era impiegato come ingegnere metallurgico per una compagnia mineraria britannica. Suo padre era un dipendente pubblico di origini ibero-ebraiche, mentre la madre e la sua intera famiglia erano così straordinari da meritare un capitolo a parte. Zoila Valdés Oyarzun, la madre di mio padre, era la più grande di otto fratelli e sorelle. La loro madre era una guaritrice e una sciamana, figlia di un Mapuche (indigeno del Cile) e di un aristocratico cileno-spagnolo i cui tre fratelli e sorelle avevano combattuto per l'indipendenza del Cile, accanto al venezuelano Simon Bolivar e all'argentino José de San Martin. Il sogno di tutti loro erano gli Stati Uniti del Sud America.
[…]

Il caos

11 settembre 1973, le due e mezza del pomeriggio.
Dopo aver attraversato la città, ero riuscito a raggiungere la casa appoggio nei sobborghi occidentali, il coprifuoco sarebbe stato imposto a partire dalle tre in punto. Lì trovai altri quattro compagni: Lautaro, che fumava la pipa con un fare da gentleman inglese, insieme a James, Jote e a Claudio, che anni prima era stato colpito alla testa da un proiettile di piccolo calibro. Era completamente guarito, ma non si era potuto rimuovere il proiettile, e di conseguenza aveva perso parecchie inibizioni. Eravamo confusi, ci sentivamo frustrati e impotenti. Non avevo ancora ricevuto notizie da Diana. Ci sedemmo a bere un caffè, fumare e guardare la televisione. Tra un programma e l'altro, i nuovi comunicati ufficiali venivano letti da una voce senza volto.
«Le gloriose forze armate cilene, nel tentativo di salvare il Paese dal caos, oggi hanno assunto il controllo della nazione. Salvador Allende ha rifiutato di arrendersi, ha organizzato una resistenza nel palazzo presidenziale ed è morto. I cittadini dovranno controllarsi e fare ritorno alle proprie case in attesa di nuovi comunicati. I lavoratori dei servizi essenziali e di pubblica utilità dovranno rimanere ai propri posti fino a nuove istruzioni. Chiunque venga sorpreso a compiere atti di sabotaggio o opponga resistenza alle forze armate, verrà ucciso».
Quella notte non riuscimmo a dormire. Elicotteri volavano sopra di noi e si sparò per tutto il tempo. Veicoli di pattuglia per le strade e veicoli corazzati da trasporto sparavano indiscriminatamente sulle persone. Il secondo giorno il telefono, che prima non funzionava, squillò. Fu Claudio a rispondere. Pochi attimi e la sua faccia cambiò colore. «Era un uomo. Ha detto di essere un ufficiale dell'aeronautica e di sapere che ci nascondiamo qui. Vive dall'altra parte della strada e ci ha tenuti d'occhio. Ci concede quattro ore per lasciare la casa, altrimenti ci denuncerà alle autorità militari». Rimanemmo attoniti. Avvertimmo ancora di più la sconfitta. Dovevamo andarcene. Era ancora mattina presto, quando, uno alla volta, lasciammo l'abitazione.
I cadaveri giacevano nelle strade: i mezzi comunali passavano e li raccoglievano accatastandoli sul retro, così che tutti li potessero vedere. Era incredibile. Macabro. Solo pochi giorni prima, tutto era così tranquillo. I bambini giocavano per le strade, che ora erano deserte, a parte i veicoli corazzati, quelli del comune e pochi, furtivi pedoni. E faceva freddo, tanto freddo.
[…] Non potevo fare altro che aspettare. Aspettare istruzioni. Aspettare che finissero le uccisioni. Aspettare fino a quando ti rendevi conto che questa volta non era a casa del vicino che stavano bussando, ma alla casa in cui ti trovavi tu, con l'elicottero che volava sopra di te, e l'incertezza che finiva, anche per te.
Era il quarto giorno dopo il colpo di stato, e di Diana ancora nessuna notizia. Dov'era? Come stava? Era viva o in prigione? Cosa stava facendo? Nessuno andava a lavorare . […]

Le torture

Dev'essere stato nel secondo giorno dell'interrogatorio.
Mi portarono in una stanza, mi misero seduto su una sedia e qualcuno ordinò che mi fosse tolta la benda. Il giovane capitano Krassnoff disse che non importava se avessi visto la sua faccia, perché lui conosceva me e io lui. Avevamo frequentato la stessa scuola media all'età di dodici o tredici anni. Prese a sciorinare i soprannomi degli insegnanti, per confermarmi che lo conoscevo. Disse che, poiché eravamo stati compagni di scuola, mi avrebbe proposto un accordo.
«La tua donna, Diana, è stata ferita da alcuni colpi di arma da fuoco durante l'arresto, e al momento si trova in terapia intensiva all'ospedale militare. Se collabori con noi, Diana continuerà a ricevere le cure di cui ha bisogno. Ma se ti rifiuti di collaborare, ogni trattamento medico verrà sospeso e Diana morirà. Dipende tutto da te. Lei è nelle tue mani: sarà colpa tua se morirà.»
Gli chiesi perché fosse rimasta ferita. Mi rispose che quando per strada le avevano intimato di fermarsi, lei si era messa a correre, così le avevano sparato alla schiena. Non credetti a ciò che sentii. Diana ferita? Correva per strada? Nel giorno in cui non fece più ritorno a casa, circa un mese prima del mio arresto, indossava una gonna stretta e tacchi alti. Come avevate potuto sparare contro una donna incinta e indifesa, che non avrebbe potuto allontanarsi più di qualche metro?
«Non ne sono sicuro, "Mi scusi signorina, non corra via, lei è in arresto". E le ho sparato.»
Gli vomitai addosso tutti gli insulti che riuscii a trovare, lo chiamai fascista, codardo, maiale assassino, e molto altro.
«Voglio gli indirizzi dei membri del comitato esecutivo, voglio che tu mi dica dove sono il denaro e le auto», disse. Gli risposi che c'erano due problemi con la sua proposta. Primo, non avevo alcuna ragione di credere alla sua storia su Diana, perciò avrei voluto prima vederla e parlarle. Secondo, anche se avessi voluto, non avevo accesso alle informazioni che mi stava chiedendo. Mi disse che avrebbe potuto organizzare una mia visita a Diana, che non voleva una risposta alle sue richieste quello stesso giorno, e che avrei dovuto pensarci durante la notte e dargli una risposta il giorno seguente.
Il giorno dopo fui interrogato e torturato da una squadra diversa. Non sentii mai più parlare della proposta. Ma ogni volta che mi interrogavano e pretendevano risposte da me, replicavo che avrei prima voluto vedere Diana. Ovviamente non la rividi mai più, né allora, né dopo. Perduta per sempre, «missing», «scomparsa», eufemismi per omicidio calcolato e premeditato, pura e semplice macelleria.
La tortura continuò giorno dopo giorno, all'infinito. Mi picchiavano con aste, martelli, bastoni, coi pugni, con sbarre di ferro, con i calci delle pistole, con le loro mitragliatrici; sul pavimento, seduto sulla sedia solo per i secondi a loro necessari per prendermi a calci e farmi cadere; raccoglievano la sedia da terra e la usavano per picchiarmi. Sempre botte, e urla, e insulti. Il sangue mi usciva dal naso e dalla bocca, il petto risuonava come se stesse per cedere […]


Anita Maria

D'altro canto, in cosa aveva sbagliato Nano verso Anita Maria, non volendo cedere a un momento di tenerezza, di amore e di comunione d'intenti? O forse aveva davvero sbagliato? Eppure ricordava ancora le parole che una volta la nonna aveva detto a sua sorella: «Nessun uomo dovrebbe mai abbandonare una donna incinta. La maggior parte degli animali non abbandonano le loro compagne in quello stato. È semplicemente qualcosa che non si fa!». Sono parole che ti restano dentro per sempre, non solo perché sono state pronunciate dalle voci dell'eterna saggezza, ma anche perché, una volta dette, ti echeggiano dentro fino a quando non diventano parte della tua anima e del tuo istinto. Così la vista di una donna incinta suscita in te una forte sensazione di tenerezza, per lei e per il bambino che porta in grembo. L'impulso di accarezzare quel pancione, di dire al bambino che è atteso, che è il benvenuto o la benvenuta, di dire a lui o a lei che qui fuori tutto è a posto, e che troverà amore. Di rassicurarlo che sua madre si sente l'essere più prezioso sotto il sole, presa com'è a realizzare il miracolo della nascita.
Sapevo che Nano andava con un'altra donna mentre io trascorrevo con la sua compagna le ultime settimane della sua gravidanza. Non mi disturbava tanto il fatto in sé, quanto il pensiero che Anita Maria e il suo bambino fossero stati privati delle attenzioni e della devozione che meritavano. Anche perché lei era sola e turbata in un momento in cui avrebbe dovuto ricevere tutta l'attenzione del mondo. […]
Il partito si trovava già nella fase delle operazioni di emergenza in clandestinità. Le comunicazioni erano difficili, dal momento che ogni riunione doveva essere organizzata molto in anticipo e bisognava contattare la persona giusta assicurandosi che questa non fosse stata catturata e condotta con la forza al luogo stabilito per l'incontro. Così, ogni settimana arrivavano dai coordinatori decine di comunicazioni di incontri, che andavano ad aggiungersi a quelli regolari con i membri della propria cellula.
Per questo motivo, non era affatto insolito darsi appuntamento in una strada tranquilla con una compagna di partito che sarebbe arrivata dalla parte opposta alla tua. Lei avrebbe portato una borsa a rete, di un tipo allora molto comune, piena di arance, assicurandosi che fossero ben visibili, e avrebbe dovuto rispondere a una domanda in codice. Una volta, era quasi mezzogiorno, ma nonostante la bella giornata estiva i passanti avevano tutti delle espressioni tristi e preoccupate. La giovane donna con la borsa delle arance procedeva troppo velocemente verso di me, come se fosse ansiosa di arrivare a destinazione, e senza cercare nessuno in particolare tra la folla. Non può essere lei, pensai, e sebbene portassi sotto il braccio la rivista concordata, lei mi passò accanto senza guardarmi. Mi apparve evidente che si trattava della persona sbagliata, e poi mi accorsi che era Anita Maria. Mi riconobbe anche lei, e mi sorrise. La regola prevedeva che in luogo pubblico non si riconoscessero né si salutassero i compagni, ma noi avanzammo entrambi di pochi passi, e poi ci voltammo nello stesso momento. Io lanciai un' occhiata alle sue arance, lei alla mia rivista. Sorridemmo e avanzammo l'uno verso l'altra.
«Porti la rivista sotto il braccio sbagliato» disse lei baciandomi sulle labbra. La versione estiva di Anita Maria era diversa, ma non meno bella. Indossava un top senza maniche e una lunga e ampia gonna a fiori. Portava i capelli legati dietro alla meglio. […]

L’esilio a Londra

Le pressioni internazionali finirono per costringere la giunta militare a chiudere i campi di concentramento. I prigionieri si dovettero confrontare con un futuro incerto: il meglio che potessero sperare era l'esilio. A mia insaputa, mia sorella Lucia era riuscita a fare in modo che un gruppo norvegese di Amnesty International mi sponsorizzasse, e ottenesse per me un visto per la Gran Bretagna. Il governo accettò perciò di rilasciarmi, a patto che lasciassi il Paese.
Ora sono qui a Londra, dopo molti anni di lontananza e molti anni di silenzio. Non ha senso parlare di qualcosa per cui non puoi fare nulla, di qualcosa che non puoi evitare che accada. Non sono riuscito a proteggere Diana, o Maria Cristina, o i miei amici, i miei compagni, la mia gente, i baci delle mie nonne, le loro ninnenanne, la loro saggezza. Non sono riuscito a proteggere neanche il mio corpo, a evitare che i miei aguzzini commettessero sacrilegio contro l'umanità e contro l'evoluzione.
È meglio rimanere in silenzio: e in effetti non ho scelta, perché le parole non escono. Adesso ho una compagna, Eugenia, una figlia sua, Francisca, e una figlia mia, Diana. Lei teme ciò che ho dentro: non riesce ad averci a che fare, perché quando siamo in intimità, nell'oscurità della notte, può capitare che io mi ritiri lì, e ritorni a quel tempo e in quel luogo terrificanti, perché io divento un altro. Divento uno che tenta di sopravvivere a ciò a cui altri non sono sopravvissuti. Avrei potuto fare qualcosa allora, potrei fare qualcosa ora.
Potrei essere con gli altri, con coloro che non sono più, con i morti. Potrei amare i morti, potrei essere molto cupo. «No», dice lei, «Non riesco a stare con te.» «Ma abbiamo una figlia», dico io, «e i figli sono belli. Loro non sanno nulla, hanno bisogno di noi, e noi li possiamo proteggere, e ora, veramente, posso donare la mia vita. Non importa se tu non mi ami, davvero, puoi fare ciò che vuoi, io per te ci sarò. Ti prego, non portarmi via mia figlia. È vero, io non so cosa fare con questa mia oscurità, con le mie notti insonni, con i miei incubi e i miei silenzi, ma passerà, te lo assicuro. Con nostra figlia io sono qui, mi hai visto, non sono là, perché lei non me lo permette; lei è la mia salvezza, la mia speranza. Cambierò per lei. Lo farò, lo farò, lo farò ... »
D'altro canto credo di capirti. Per te deve essere difficile stare con me. Non l'avevo notato, ma se ciò che mi dici sui miei difetti è vero, allora davvero non deve essere stato facile. Vedi, ci sono cose che non posso dirti, perché non voglio che tu le sappia. Sai, uno dei motivi per cui mi sono innamorato di te, è che tu non eri stata lì e non sai cosa sia successo veramente. Loro non ti hanno preso, non ti hanno toccato, tu sei sfuggita ai loro artigli ed è una cosa che amo; non riesco a dirti quanto lo ami, quanto ti ami per questo. Ti volevano, avrebbero voluto distruggerti come hanno fatto con gli altri, ma tu sei scappata prima che potessero raggiungerti, e io tutto questo lo amo, davvero. Perché loro sono la morte, e tu sei la vita, e tu sei sfuggita a loro. Ma non solo per questo: abbiamo una figlia, una figlia che, nonostante tutto, ho aiutato a venire al mondo, nella speranza che potesse guarire le mie ferite. O forse, semplicemente per contemplare la sua piccola vita e fingere che tutto fosse appena cominciato, che il passato non esistesse.
[…]
A volte giungo alla stessa soluzione che, ho sentito, hanno adottato molti altri nella mia stessa situazione, ossia dimenticare, gettarsi tutto dietro le spalle e continuare con la propria vita, pensando al futuro e cercando di passare delle belle giornate, di essere felici. Persino il mio medico mi dice che è questo ciò che dovrei fare, quando vado da lui perché la notte non riesco a dormire, o per il mio problema alla schiena, o per i reni o per lo stomaco, o per i crampi alle gambe e alle braccia. Che tu mi creda o no, ci ho provato, ma d'improvviso la mia mente si blocca e se ne va, e io non sono più qui, e mi prende questo panico, questa paura, questo terrore dentro, senza preavviso, inspiegabile. E tutto comincia ad andare storto, con te, al college, al lavoro e poi desidero restare solo, andare lontano, in un posto molto, molto lontano, non so dove, ma so che deve essere un posto deserto, solo per me, lontano, molto lontano. […]
Finora, ho lavorato solo in imprese di pulizia e ristoranti. Pulire, sempre pulire, pulire molto presto al mattino, quando la gente che godrà della pulizia, degli uffici puliti, dei bagni e delle mense pulite, dorme ancora. Pulire tardi la sera, quando la gente che ha insudiciato ciò che io ho pulito è già a casa, o si sta godendo un drink o è a cena al ristorante. Gente senza volto, gente che non vedo mai. L'odore delle persone: finisci per conoscerli bene, e gli incarti del cibo che buttano via rivelano le loro abitudini alimentari. Gente anonima che si lascia dietro un odore di vita normale, di vita sicura, forse di vita familiare, un continuum di vita, una vita coerente, una vita che ha senso, una vita che appartiene loro, perché è sempre stato così. Mi piacerebbe essere uno di loro, avere uno dei loro lavori, un lavoro normale con un salario normale, con normali ore di lavoro, vestiti normali, preoccupazioni normali.
Pulisco e mi chiedo se pensino mai alla persona che pulisce le loro scrivanie e le loro toilette, una persona che conosce parte della loro intimità, uno spettro senza volto che si muove in silenzio, senza disturbare nessuno, tranne la sporcizia, i fogli gettati via, le tazze sporche, gli schizzi, la polvere, i posacenere. […]
Non è una bella cosa che le pulizie non si facciano durante le ore normali, quando tutti sono in ufficio? È un bene che i dipendenti pubblici e gli impiegati non vedano quelli delle pulizie, perché, se lo facessero, vedrebbero una persona, e potrebbero cominciare a pensare a lei, a simpatizzare con lei, a speculare su di lei, e nessuna di queste è una buona cosa. Ancora più pericoloso sarebbe incontrarne lo sguardo: sarebbe una cosa insostenibile, e gli impiegati potrebbero sentirsene minacciati, e reagire in maniera inaspettata. Potrebbe essere destabilizzante ricordare agli impiegati dell' esistenza di queste persone infelici che li osservano con i loro grandi occhi spalancati. La persona che fa le pulizie potrebbe avere un titolo universitario, ma non aveva una vita, una vita diversa, una vita normale e ora corre da una pulizia all' altra, chiedendosi quando tutto questo finirà, quando ritornerà a essere sereno, quando potrà avere un po' di riposo, un po' di tranquillità, per cercare di rimettere insieme tutti i piccoli pezzi della sua vita in frantumi.
A volte sembra un momento così vicino. Qui ci sono la scrivania e la sedia di qualcuno con una vita normale, qualcuno che non conosce questa mia angoscia, e che mai la conoscerà. Siedo sulla sua sedia, alla sua scrivania, e penso che questo sembra un lavoro semplice. Ho già visto alcuni documenti sulla scrivania. Potrei fare questo lavoro, e se così fosse, la mia vita cambierebbe totalmente. Potrei prendere il posto di questa persona e addirittura essere lei. Riderei, andrei a bere un drink dopo il lavoro, o forse al cinema. Ma non fumerei. Non avrei preoccupazioni e sarei in grado di parlare con i miei colleghi al pub, delle cose normali della vita, e nessuno mi chiederebbe cosa sia accaduto, perché non sarebbe accaduto nulla di troppo terribile o troppo importante. Avrei continuato ad amare Diana, e ora staremmo insieme, e avremmo dei figli meravigliosi. «Luis! Non hai ancora finito?» urla il supervisore. «C'è ancora molto da fare!»
[…]
Riuscii a capire perché mi prendevano crampi alle gambe e allo stomaco. Il dolore pressoché continuo sul lato destro dell'addome ebbe finalmente senso, ma più di ogni altra cosa, riuscii a vedere la fonte di tutte le mie paure e dei miei incubi. Quel buco nero che, senza alcun preavviso, può aprirsi in qualsiasi momento lasciandomi zuppo di sudore. Non avevo più bisogno, non più ormai, di capire le teorie in base alle quali la memoria del dolore non è impressa soltanto nel cervello, ma è anche immagazzinata a livello locale, e forse con effetti ancora più devastanti. A meno di riviverlo e integrarlo, il dolore rimane lì per sempre, a erodere il sistema fino al giorno in cui si muore. Come si può facilmente comprendere, è una tentazione molto forte quella di fingere di poter ingannare il proprio corpo e la propria mente, negando tutto e seguendo l'approccio popolare al problema: «Dimenticatene ... lasciatelo alle spalle ... va avanti con la tua vita ... mantieniti occupato ... smettila di essere una vittima».

La testimonianza

Sono felice. Ho sposato Sara e abbiamo due figli, Pablo e Orlando. Ho un Master in Sociologia, Psicologia e Consulenza e sono un Rappresentante per l'immigrazione autorizzato. Non sono più una vittima. Ma la giustizia era per me un miraggio, fino a quando un amico non mi chiamò dicendomi che un avvocato impiegato presso l'Ufficio per i diritti umani di Santiago aveva bisogno di parlarmi, perché un giudice cileno gli aveva affidato il caso del rapimento di Diana del 1974. Una mia dichiarazione sottoscritta e firmata, rilasciata presso l'Ambasciata cilena, avrebbe ottemperato allo scopo, ma sarebbe stato un processo lungo e difficile. L'avvocato mi disse che se avessi accettato di recarmi in Cile per rilasciare la mia testimonianza personalmente, sarebbe stato molto meglio. […]
Così, eccomi qui ora, con in mano un biglietto aereo speditomi dall'Ufficio per i diritti umani cileno, ventotto anni dopo quegli eventi, e la mia fantasia tanto desiderata e temuta, divenuta un'agghiacciante realtà. Un confronto davanti al giudice con Miguel Krassnoff, lo stesso uomo che allora mi confessò di aver assassinato Diana, l'uomo che mi torturò, fino a stancarsi, per quasi tre mesi, l'uomo che mi causò così tanto dolore che rimarrà impresso nelle mie ossa fino a che morirò.
Helen, come suo solito, mi offre il suo sostegno. Sara, mia moglie, è molto preoccupata che io non faccia più ritorno e che, una volta lì, mi uccideranno. Io non ho dubbi: quali che siano le conseguenze, devo andare.
È un commiato doloroso, quello tra me, mia moglie Sara e i miei figli, all'aeroporto di Heathrow, la notte del 30 novembre 2002. Mi riesce impossibile dormire in aereo, in classe economica; la situazione mi ricorda costantemente la cassa di legno in cui mi aveva rinchiuso il mio aguzzino, l'uomo che alla fine di questo viaggio mi troverò a fronteggiare. Se la notte è un incubo, il giorno seguente è come un sogno. L'aereo vola basso, sovrastando un'immensa, scura vastità di fogliame verde. Deve essere il Brasile, penso, e quella lì sotto è la foresta amazzonica. Non passa molto tempo, e atterriamo all' aeroporto di Rio de Janeiro. […]
Al momento sono all'aeroporto di Rio, in attesa di un volo che mi porterà a Santiago, per un confronto che credevo non si sarebbe mai materializzato. Pochi anni prima, durante uno dei molti processi che hanno visto l'assoluzione di questi criminali, mi era stato chiesto di recarmi in Cile per testimoniare. Ma poco prima della partenza, gli avvocati dell'accusa mi avevano telefonato, per dirmi che erano stati costretti a disdire il mio viaggio, in quanto loro stessi, e le autorità, non avrebbero potuto garantire la mia incolumità. Miguel Krassnoff era ancora in servizio attivo nell'esercito, e sapeva che mi sarei recato in Cile per testimoniare contro di lui.

Vivere con i ricordi

Diana Aron era bellissima, estremamente intelligente e molto generosa. Ma la cosa fondamentale è che Diana, come molti della sua generazione, ebbe la possibilità di scegliere, e scelse di condividere il destino dei diseredati. Proveniva da una famiglia benestante di Santiago, avrebbe potuto scegliere di seguire la corrente: fare ciò che avevano fatto i suoi fratelli e le sue sorelle, e percorrere la rotta di una vita normale. Avrebbe anche potuto accettare la richiesta della famiglia, e lasciare il Paese. «Fai quello che vuoi» le avevano detto. Diana scelse di restare in Cile per lavorare insieme agli altri, per organizzare e minimizzare l'impatto della barbarie che si era abbattuta sul popolo cileno.
Diana scelse di aggrapparsi con tutte le forze al suo sogno, senza attribuire alcuna importanza al prezzo della sua audacia. Continuò a coltivare il sogno di un Paese libero, in cui fosse stata vinta la battaglia per i diritti del popolo, nella speranza di un futuro radioso per i poveri, gli operai, i contadini e i giovani cileni. Diana sognava l'impossibile per cercare di raggiungere il possibile.
Ho avuto il privilegio di amare questa donna, e anche il privilegio che lei ricambiasse il mio amore nella sfera più intima delle nostre vite. Ma più di ogni altra cosa, Diana amava il suo popolo, e decise di dimostrare il suo amore con una costanza incredibile.
Diana, vai e vieni nei miei sogni, a volte sei dolce, a volte triste. Nella mia quotidianità mi appari nelle vesti di un'altra […] donna, in una voce, nella fragranza di un profumo. In quei momenti mi fermo e ti cerco tra la folla, come se tu fossi a Santiago. So che non serve a niente, che può sembrare folle, ma è un istinto che ormai fa parte di me. Senza accorgermene, giro la testa quando riconosco la tua voce, la tua risata, i tuoi occhi, in una strada di Londra.
Il mio cuore resterà per sempre trafitto da quei colpi. È come se il pugnale della tua assenza, che mi porto nel petto, penetrasse sempre più a fondo nel mio cuore infranto, fino a quando non mi resterà più neanche un briciolo di energia. Allora mi fermerò, ad occhi spalancati, e ti cercherò tra la folla.
Miguel Krassnoff, Marcelo Morén (l'Orso), Osvaldo Romo (Guat6n) e Manuel Contreras (Mamo) sono stati riconosciuti colpevoli del rapimento, della scomparsa e del probabile assassinio di Diana Ar6n Svigilisky, e condannati a quindici anni di carcere. Stanno anche scontando condanne di dodici e quindici anni per gli stessi crimini, commessi contro non meno di cento altre vittime. E i processi continuano.
Almeno, il mio viaggio in Cile per testimoniare contro di loro non è stato vano.