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Le due culture-Charles P. Snow


lunedì 23 marzo 2009 legge Angelo Adamo



A cinquant’anni dalla prima edizione di questo piccolo volume divenuto ormai un classico della critica sociologica e antropologica, leggeremo e commenteremo brani da Le due culture di Snow. L’occasione che ci si presenta è ghiotta: potere attuare un avveduto raffronto tra le previsioni del suo autore e quanto oggi osserviamo realizzarsi sotto i nostri occhi in una società che si ostina a sclerotizzare la divisione esistente tra sapere scientifico e umanistico, quindi tra strati sociali. Leggendolo, avremo modo di apprezzare l’estrema attualità del problema allora denunciato da Snow che, fisico di professione ma "di vocazione, scrittore", divenne presto una delle penne più felici del panorama letterario anglosassone. Da fisico, presso i laboratori Cavendish e sotto la guida di Lord Rutherford – pioniere delle ricerche in campo subatomico – prese parte a importanti ricerche. In seguito a una delusione lavorativa e alla crisi che ne seguì, si dedicò intensamente all’attività di scrittore, cosa che lo condusse a pubblicare libri di un certo successo come Morte a vele spiegate, l’autobiografico The Search, la saga Stranieri e fratelli; si occupò inoltre di critica letteraria sulle pagine del Sunday Times. Prima baronetto, poi viceministro del dicastero della tecnologia, morirà nel 1980.



Charles Percy Snow, Le due culture, Milano, Feltrinelli, 1964¹, tr. it. di Adriano Carugo


Circa tre anni fa pubblicai un sommario articolo intorno ad un problema che mi teneva occupato già da qualche tempo e che, date le vicende della mia vita, doveva inevitabilmente presentarmisi. Per meditare l’argomento, non avevo allora altre credenziali che quelle che derivavano da tali vicende, da un complesso di circostanze fortuite. Chiunque avesse avuto un’esperienza simile alla mia avrebbe visto più o meno le stesse cose e, penso, avrebbe fatto più o meno le medesime riflessioni. Si trattò, in verità, di un’esperienza poco consueta. Di professione ero scienziato, di vocazione, scrittore. Ecco tutto. Fu una fortuna, se volete, che derivò dal fatto di essere cresciuto in una famiglia povera. Così per trent’anni dovetti stare in contatto con gli scienziati non soltanto per curiosità, ma a causa della mia vita professionale. Durante quegli stessi trent’anni cercai di dare forma ai libri che desideravo scrivere, e questo a suo tempo mi fece entrare nel novero degli scrittori. Molte volte, dopo la giornata lavorativa trascorsa tra gli scienziati, la sera "evadevo" con qualche collega letterato. Naturalmente ho avuto amici intimi tra gli scienziati come tra gli scrittori. Vivendo tra questi gruppi, e ancor più, penso, spostandomi dall’uno all’altro e viceversa, mi trovai nella condizione di dovermi occupare del problema di quelle che, ancora molto prima di scriverne, battezzai fra me "due culture". Avevo infatti la costante sensazione di muovermi tra due gruppi – di pari intelligenza, di identica razza, di estrazione sociale non molto differente, di reddito pressochè eguale – che ormai non comunicavano quasi più tra loro e che, quanto ad atmosfera intellettuale, morale e psicologica, avevano così poco in comune che si sarebbe creduto non di essere andati da Burlington House o da South Kensington a Chelsea, ma di avere attraversato un oceano. Due gruppi antitetici: a un polo abbiamo i letterati, che come per caso, senza che nessuno se ne accorgesse, cominciarono ad autodefinirsi "intellettuali", quasi che non ce ne fossero altri. Ricordo che una volta, intorno agli anni trenta, G.H. Hardy mi faceva notare, con mite meraviglia: «Hai fatto caso come si usa oggi la parola "intellettuale?" A quanto pare, è una nuova definizione, certamente non include Rutherford o Eddington o Dirac o me stesso. È strano, ti pare?». I non-scienziati hanno una radicata impressione che gli scienziati siano animati da un ottimismo superficiale e non abbiano coscienza della condizione dell’uomo. D’altra parte, gli scienziati credono che i letterati siano totalmente privi di preveggenza e nutrano un particolare disinteresse per gli uomini loro fratelli: che in fondo siano anti-intellettuali e si preoccupino di restringere tanto l’arte quanto il pensiero al momento esistenziale. Sia le accuse che vengono mosse da una parte, sia quelle che vengono lanciate dall’altra contengono qualcosa non del tutto privo di fondamento. Ma esse sono tutte distruttive. Per la maggior parte si basano su pericolosi malintesi. Vorrei ora prenderne in considerazione due dei più profondi, uno per parte. Innanzitutto l’ottimismo dello scienziato. È un’accusa così spesso ripetuta da essere ormai un luogo comune. L’hanno lanciata alcune delle più acute menti non-scientifiche dei nostri giorni. Ma dipende da una confusione tra esperienza individuale ed esperienza sociale, condizione individuale e condizione sociale dell’uomo. La maggior parte degli scienziati da me conosciuti ha sentito – non meno profondamente dei non-scienziati da me conosciuti – che la condizione individuale di tutti noi è tragica. Ciascuno di noi è solo: talvolta sfuggiamo alla solitudine con l’amore o l’affetto o, forse, in certi momenti di creazione, ma questi trionfi della vita sono piccole zone illuminate che ci creiamo, mentre il margine della strada rimane avvolto nell’oscurità: ciascuno di noi muore solo. Ma quasi tutti – ed è qui che veramente si manifesta il colore della speranza – non vedrebbero alcuna ragione perché, proprio per il fatto che la condizione individuale è tragica, lo debba essere anche la condizione sociale. La maggior parte dei nostri simili, ad esempio, è denutrita e muore precocemente. In parole crude, è questa la condizione sociale.
Riuscire a vedere in fondo alla solitudine umana racchiude una trappola morale: induce a tenersi in disparte, tutti compresi della propria unica tragedia, e a lasciare che altri stiano senza pane. Come gruppo gli scienziati cadono in questa trappola meno degli altri. Sono inclini a darsi da fare per cercare un rimedio e a pensare che, fino a prova contraria, è sempre possibile trovarlo. Questo è il loro vero ottimismo, un ottimismo del quale il resto dell’umanità ha urgente bisogno. La letteratura cambia più lentamente della scienza. Non ha lo stesso correttivo automatico e così i suoi periodi di traviamento sono più lunghi. Il numero 2 è un numero molto pericoloso: ecco perché la dialettica è un processo pericoloso. Mi sono chiesto, dopo lunga riflessione, se era opportuno ricorrere a distinzioni più sottili: ma ho finito col decidere di no. Cercavo qualcosa che fosse un po’ più di un’elegante metafora, ma anche molto meno di una mappa culturale: e "le due culture" servono abbastanza allo scopo, e voler sottilizzare di più comporterebbe più inconvenienti del necessario. A uno dei due poli, la cultura scientifica è realmente una cultura, in un senso non solo intellettuale ma anche antropologico. Vale a dire, non è necessario, e spesso naturalmente non avviene, che i suoi membri si capiscano sempre a fondo; i biologi, nei casi più frequenti, avranno un’idea abbastanza confusa della fisica contemporanea; ma ci sono atteggiamenti comuni, comuni regole e schemi di comportamento, presupposti comuni e un comune modo di accostarsi alle cose. Sono caratteristiche sorprendentemente estese e profonde: e contrastano con altri schemi mentali, siano religiosi, politici o di classe. Nel lavoro, e in gran parte nella vita dei sentimenti, i loro atteggiamenti sono più vicini a quelli di altri scienziati che a quelli di non scienziati di eguali convinzioni religiose o politiche, o dello stesso ambiente sociale. Se dovessi azzardare una definizione telegrafica, direi che hanno per natura il futuro nel sangue. Senza pensarci, reagiscono tutti allo stesso modo. Ecco che cos’è una "cultura". All’altro polo, lo spiegamento di atteggiamenti è più largo. È ovvio che tra i due poli, andando nella società intellettuale dai fisici ai letterati, ci si imbatte in tutti i registri del sentimento. Ma credo che il polo che dimostra una totale incomprensione della scienza diffonde la sua influenza su tutto il resto. Questa totale incomprensione dà, molto più profondamente di quanto ce ne possiamo rendere conto noi, che ci viviamo dentro, un sapore a-scientifico all’intera cultura "tradizionale", e questo sapore a-scientifico è spesso, molto più di quanto noi ammettiamo, sul punto di mutarsi in anti-scientifico. I sentimenti di un polo diventano i sentimenti contrari dell’altro. Se gli scienziati hanno il futuro nel sangue, allora la cultura tradizionale risponde auspicando che non ci sia il futuro. Quanta incomprensione ci sia da entrambe le parti è materia di una facezia ormai rancida. Ci sono circa cinquantamila scienziati attivi nel paese e circa ottantamila ingegneri o professionisti dediti alle scienze applicate. Durante la guerra e negli anni successivi, io e i miei colleghi avemmo modo di incontrarne in varie occasioni tra i trenta e i quarantamila – cioè circa il 25 per cento. È un numero abbastanza alto per costituire un buon campione, anche se nella maggior parte quelli coi quali parlammo erano ancora sotto i quarant’anni. Potemmo così sapere quali fossero in generale le loro letture e le loro opinioni. Confesso che anch’io che voglio loro bene e che li rispetto rimasi un po’ colpito. Non ci saremmo mai aspettati che i legami con la cultura tradizionale fossero così tenui, appena un formale ossequio. Com’è lecito attendersi, alcuni dei migliori scienziati avevano e hanno energia e interessi da vendere, e ne incontrammo parecchi che avevano letto tutto ciò di cui ci parlavano i letterati. Ma è cosa molto rara. I più, quando chiedevamo quali libri avessero letto, rispondevano modestamente: "Beh, ho provato a leggere Dickens" quasi che Dickens fosse uno scrittore estremamente esoterico, inviluppato e sì e no remunerativo, più o meno come Rainer Maria Rilke.
Ed è proprio così che lo giudicano: per noi scoprire che Dickens era stato trasformato nel prototipo dell’incomprensibilità letteraria fu uno dei risultati più inattesi di tutto l’esperimento. (Gli scienziati) hanno una loro cultura, intensa, rigorosa, e costantemente in azione, che è fatta in buona parte di argomenti di solito più rigorosi, e quasi sempre a un livello concettuale superiore, di quelli dei letterati; anche se gli scienziati usano allegramente le parole in sensi che i letterati non accetterebbero, i sensi sono quelli esatti, e quando dicono "soggettivo", "oggettivo", "filosofia" o "progressivo" sanno quel che si dicono, anche se non è ciò che siamo abituati ad aspettarci. Ricordate, sono uomini molto intelligenti. La loro cultura è, per molti aspetti, esigente e ammirevole. In essa non trova posto molta arte, con un’eccezione importante: la musica. Scambi verbali, discorsi insistenti. Long playing. Fotografia a colori. L’orecchio, in qualche misura, l’occhio. Libri, molto pochi; e dei libri che per la maggior parte dei letterati sono come il pane, romanzi, storia, poesia, teatro, quasi nulla. Nella vita morale sono grosso modo il gruppo di intellettuali più sano che abbiamo; v’è una componente morale proprio nel seme stesso della scienza, e quasi tutti gli scienziati si formano un loro proprio giudizio della vita morale. Per la vita psicologica nutrono un interesse non minore della maggior parte di noi, sebbene a volte io sia incline a pensare che essi vi arrivino piuttosto tardi. Non che siano privi di interessi. Piuttosto, è che nell’insieme la letteratura della cultura tradizionale non sembra loro pertinente a quegli interessi. Naturalmente hanno torto. Ne segue che la loro intelligenza immaginativa è inferiore al dovuto: e di questo sono causa essi stessi.
Ma che dire dell’altra parte? Anche gli altri sono impoveriti – forse più gravemente, perché se ne vantano di più. Anche loro, a quanto pare, pretendono che la cultura tradizionale costituisca la totalità della "cultura", come se l’ordine naturale non esistesse. Come se l’esplorazione dell’ordine naturale non avesse alcun interesse né per il suo valore intrinseco né per le sue conseguenze. Come se l’edificio scientifico del mondo fisico non fosse, nelle sue profondità, complessità e articolazioni intellettuali, la più splendida e magnifica opera collettiva della mente umana. Tuttavia, nella maggior parte, i non-scienziati non hanno la minima idea di quell’edificio. E anche se vogliono, non possono. È come se un intero gruppo fosse sordo al tono di un’immensa gamma dell’esperienza intellettuale. Solo che questa sordità non deriva dalla natura, ma dall’educazione, o piuttosto dalla mancanza di educazione. Come succede a chi non ha orecchio per la musica, non sanno quello che perdono. Ridacchiano di compiacimento allorché sentono dire di scienziati che non hanno mai letto un’opera fondamentale della letteratura inglese. Li liquidano tacciandoli di specialisti ignoranti. Tuttavia la loro ignoranza e la loro specializzazione non è meno sorprendente. Molte volte mi sono trovato presente a riunioni di persone reputate di elevata cultura, secondo i criteri della cultura tradizionale, che si sono precipitate a dichiarare di non poter credere che gli scienziati fossero così privi di cultura letteraria. Un paio di volte mi sono irritato e ho chiesto alla compagnia quanti di loro se la sentivano di spiegare cos’è la seconda legge della termodinamica. La risposta era fredda: ed era altresì negativa. Eppure chiedevo qualcosa che è press’a poco l’equivalente scientifico di: "Avete letto un’opera di Shakespeare?". Credo ora che se avessi fatto una domanda ancor più semplice – per esempio, "Che cosa intendete per massa, o per accelerazione?", e cioè l’equivalente scientifico di "Sapete leggere?" – non più di una su dieci di quelle persone di elevata cultura si sarebbe accorta che stavo parlando lo stesso linguaggio. Così il grande linguaggio della fisica moderna diventa sempre più alto e la maggioranza delle persone più intelligenti del mondo occidentale ne capiscono quanto ne avrebbero capito i loro antenati dell’età neolitica. Di quando in quando si trovano poeti che usavano coscienziosamente espressioni scientifiche attribuendovi un significato sbagliato – vi fu un tempo in cui ogni tanto saltava fuori in un verso, travisata, la parola "rifrazione" e in cui gli scrittori parlavano di "luce polarizzata" con la pia illusione che si trattasse di un tipo di luce particolarmente mirabile.


Gli intellettuali come "Luddisti" per natura

A parte la cultura scientifica, la restante parte degli intellettuali occidentali non si è mai sforzata, né ha mai desiderato o non è mai stata in grado, di capire la rivoluzione industriale, e ancor meno di accettarla. Gli intellettuali, e in particolare i letterati, sono per natura "luddisti". Si trattava, naturalmente – o almeno tale era destinata a diventare, sotto i nostri occhi, e nel nostro tempo – della più grande trasformazione della società dopo la scoperta dell’agricoltura. Di fatto, le due rivoluzioni, quella agricola e quella scientifico-industriale, sono gli unici mutamenti qualitativi del vivere sociale che gli uomini abbiano mai conosciuto. Ma la cultura tradizionale non se ne rese conto: o quando se ne accorse, non se ne compiacque. Quasi nessun talento e quasi nessuna energia immaginativa si soffermarono a studiare la rivoluzione che stava producendo quella ricchezza. La cultura tradizionale se ne astraeva sempre più man mano che si arricchiva, educava i suoi giovani per l’amministrazione, per l’Impero Indiano, per la perpetuazione della cultura stessa, ma mai in circostanze tali da fornire loro gli strumenti per capire la rivoluzione o per prendervi parte. Uomini lungimiranti cominciavano a vedere, prima della metà del XIX secolo, che per continuare a produrre ricchezza, il paese doveva istruire qualcuna delle sue menti più brillanti nella scienza, in particolare nella scienza applicata. Nessuno li ascoltò. La cultura tradizionale rimase completamente sorda: e gli scienziati puri, quelli che c’erano, non ascoltarono con troppa attenzione. La cosa curiosa era che in Germania, negli anni 1830 e 1840, molto prima che cominciasse una seria indutrializzazione, era possibile avere una buona educazione universitaria in scienze applicate, migliore di quanto Inghilterra o Stati Uniti poterono offrire per un paio di generazioni. Col risultato che Ludwig Mond, il figlio di un fornitore di corte, andò ad Heidelberg ad impararvi un po’ di buona chimica applicata. Siemens, un ufficiale prussiano addetto alle segnalazioni, fece all’accademia militare e all’università quelli che, ai suoi tempi, erano eccellenti corsi di elettrotecnica. Poi vennero in Inghilterra, non trovarono la minima concorrenza, vi portarono con sé altri tedeschi istruiti e fecero fortuna proprio come se si fossero trovati in un ricco e vergine territorio coloniale Eppure quasi dappertutto gli intellettuali non capivano ciò che stava accadendo. Certo, non lo capivano gli scrittori. Molti di essi si tirarono indietro con disgusto, come se un uomo sensibile non potesse fare altro che lavarsene le mani. È difficile pensare ad uno scrittore di alta classe che facesse realmente uno sforzo di immaginazione simpatetica, che riuscisse a vedere al tempo stesso non solo i vicoli paurosi, le ciminiere fumanti, il prezzo interno – ma anche le prospettive di vita che si stavano aprendo per i poveri, i presagi della fortuna, fino ad ora riservata a pochi eletti, che stava appunto giungendo alla portata del rimanente 99 per cento dell’umanità. Un simile sforzo di immaginazione avrebbe potuto farlo qualcuno dei romazieri russi del XIX secolo; la loro visione delle cose era abbastanza ampia, ma vivevano in una società pre-industriale e non ne ebbero l’opportunità. L’unico scrittore di statura mondiale che sembrò aver capito la rivoluzione industriale fu Ibsen, già avanti negli anni: e poche erano le cose che quel vecchio non capisse. Perché, è evidente, una cosa è chiara. L’industrializzazione è l’unica speranza per i poveri. Uso la parola "speranza" in un senso grossolano e prosaico. Non so proprio che farmene della sensibilità morale di chi è troppo raffinato per servirsene in questo senso. Noi che stiamo bene, possiamo permetterci di pensare che i livelli materiali di vita non importino poi molto. Ci si può permettere di respingere l’industrializzazione per scelta personale e se ce la fate a mangiar poco, a veder morire buona parte dei vostri figli in tenera età, a fare a meno dei vantaggi dell’alfabetismo, a rinunciare a vent’anni di vita, vi rispetterò per la forza della vostra repulsione estetica. Ma non ho il minimo rispetto per voi se, anche passivamente, cercate di imporre la stessa scelta ad altri che non siano liberi di scegliere. Di fatto, sappiamo quale sarebbe la loro scelta. Giacché, con singolare unanimità, in ogni paese ove ne abbiamo avuto la possibilità, i poveri hanno abbandonato le campagne per le fabbriche non appena le fabbriche sono state in grado di riceverli. Non era certo uno spasso essere lavoratore agricolo nella seconda metà del XVIII secolo, in un tempo al quale noi, parassiti che non siamo altro, pensiamo soltanto come al tempo dell’Illuminismo e di Jane Austen. Nei paesi sviluppati ci siamo resi conto, in maniera più o meno approssimativa, di che cosa la vecchia rivoluzione industriale abbia comportato. Un notevole incremento demografico, dovuto al fatto che le scienze applicate si svilupparono in concomitanza con la scienza medica e con le cure mediche. Alimentazione sufficiente, per ragioni simili. Ciascuno in grado di leggere e scrivere per il fatto che una società industriale senza questo non può funzionare. Salute, cibi, istruzione; soltanto la rivoluzione industriale poteva far arrivare tutte queste cose fin negli strati più poveri.

La rivoluzione scientifica

Per rivoluzione industriale intendo l’uso graduale delle macchine, l’occupazione di uomini e donne nelle fabbriche, la trasformazione che si è avuta in questo paese di una popolazione costituita in gran parte di lavoratori agricoli in una popolazione prevalentemente occupata nella produzione, in fabbrica e nella distribuzione dei prodotti fabbricati. Questo cambiamento ci capitò addosso senza che ce ne accorgessimo, senza che gli accademici lo prendessero in considerazione, odiato dai Luddisti, sia quelli pratici che quelli intellettuali. Esso è connesso, così mi pare, con molti degli atteggiamenti nei riguardi della scienza e dell’estetica, che si sono fossilizzati fra di noi. Lo si può datare, grosso modo, tra la metà del XVIII secolo e l’inizio del XX. Da esso si produsse un nuovo mutamento, strettamente collegato col primo, ma molto più profondamente scientifico, molto più rapido, e probabilmente molto più prodigioso nei suoi risultati. Questo mutamento deriva dall’applicazione della scienza vera e propria all’industria: non più alternanza di successi e fallimenti, non più le idee di strani inventori, ma autentica materia scientifica. Assegnare una data a questo mutamento è in gran parte questione di gusto. Alcuni preferirebbero risalire alle prime industrie chimiche o meccaniche sviluppatesi su larga scala, all’incirca sessant’anni fa. Per parte mia, lo collocherei molto più avanti, non prima di trenta o quarant’anni fa e come definizione approssimativa, prenderei il tempo in cui si fece per la prima volta impiego industriale delle particelle atomiche. Credo che la società industriale dell’elettronica, dell’energia atomica, dell’automazione, sia, sotto aspetti fondamentali, specificamente differente da qualsiasi tipo di società venuta prima, e che apporterà mutamenti molto più profondi nel mondo. È questa trasformazione che, a mio modo di vedere, merita il nome di "rivoluzione scientifica". Quanta gente istruita ne sa qualcosa dell’industria produttiva, di vecchio o nuovo stile? Chesi una volta a una riunione di letterati: che cos’è una macchina utensile? ed essi cambiarono discorso. A meno che uno non la conosca, la produzione industriale è misteriosa come una stregoneria. Penso che non sia esagerato dire che la maggior parte degli scienziati puri sono stati essi stessi terribilmente ignoranti dell’industria produttiva. Possiamo permetterci di raggruppare gli scienziati puri e quelli applicati entro una medesima cultura scientifica, ma le fratture fra i due gruppi sono profonde.
Gli ingengeri devono vivere la loro vita in una comunità organizzata, e per quanto strano, sotto sotto, si danno da fare per avere davanti al mondo un aspetto disciplinato. Non sono così gli scienziati puri. Ancora oggi, in politica questi sono schierati a sinistra in una proporzione statisticamente maggiore che ogni altra professione: non così gli ingengeri, che sono conservatori quasi in blocco. Essi sono assorbiti nella produzione di beni, e trovano abbastanza soddisfacente l’attuale ordinamento sociale. Gli scienziati puri hanno per lo più considerato con mente offuscata da pregiudizi gli ingegneri e le scienze applicate. Essi non si sarebbero resi conto che molti dei problemi delle scienze applicate erano non meno rigorosi concettualmente dei problemi della scienza pura, e che molte delle soluzioni erano non meno soddisfacenti ed eleganti. Il loro istinto – forse reso pù acuto in questo paese dalla passione di trovare un nuovo snobismo ovunque sia possibile, e di inventarne uno se non esiste – era di assumere come cosa pacifica che la scienza applicata fosse un’occupazione per menti di second’ordine. Con qualche restrizione, credo che i russi abbiano giudicato la situazione con saggezza. Della rivoluzione industriale essi hanno un’idea più profonda della nostra, o di quella degli americani. Se si leggono i romanzi sovietici contemporanei, ad esempio, si scopre che i loro romanzieri possono presupporre nel loro uditorio almeno un’idea rudimentale di ciò che sia in linea generale l’industria. La scienza pura non vi compare con frequesnza, ma gli ingengeri vi compaiono. Un ingengere in un romanzo sovietico è accettabile come lo è uno psichiatra in un romanzo americano. Se i nostri antenati avessero impiegato il loro talento nella rivoluzione industriale invece che nell’Impero indiano, ora potremmo poggiare su basi più solide.

I ricchi e i poveri

Il problema principale è che coloro che vivono in paesi industrializzati diventano più ricchi, mentre quelli che abitano in paesi non industrializzati, nel migliore dei casi, non progrediscono: in tal modo l’abisso che separa i paesi industrializzati dagli altri si fa ogni giorno più profondo. Nei paesi ricchi la gente vive di più, mangia meglio, lavora meno. In un paese povero come l’India, le speranze di vita sono meno della metà che in Inghilterra. Ci sono dei dati che dimostrano che gli Indiani e altri popoli asiatici mangiano meno, in quantità assoluta, di quanto mangiassero una generazione fa. Le statistiche non sono cose cui si debba dare troppa fiducia, e informatori della FAO mi hanno detto di non fare troppo affidamento su di esse. Ma è cosa riconosciuta che, in tutti i paesi non industrializzati, la gente si nutre in misura inferiore al limite di sopravvivenza. E quella gente lavora come ha sempre dovuto lavorare, dall’età neolitica ai nostri tempi. La vita, per la stragrande maggioranza dell’umanità, è sempre stata disgustosa, bestiale e breve. Nei paesi poveri, essa è ancora così. Qualunque cosa, nel mondo che conosciamo, sia destinata a sopravvivere fino all’anno 2000, certo non sarà questa disparità. Una volta che l’espediente per diventare ricchi sia conosciuto come lo è ora, il mondo non può continuare a vivere mezzo ricco e mezzo povero. Durante tutta la storia umana fino al nostro secolo, il ritmo dei mutamenti sociali è stato molto lento. Così lento, che passerebbe inosservato nel corso della vita di una persona. Ora non è più così. Esso si è intensificato al punto che la nostra immaginazione non riesce più a tenergli dietro. Qualcuno disse, quando fu fatta scoppiare la prima bomba atomica, che ormai era scoperto il solo segreto veramente importante: e cioè che la cosa funzionava. Dopo di ciò, ogni paese che avesse deciso di costruire la bomba poteva farlo nel giro di pochi anni. Allo stesso modo, l’unico segreto dell’industrializzazione della Russia e della Cina è che questi due paesi l’hanno realizzata. I cinesi sono partiti da un livello molto inferiore a quello industriale, ma non hanno avuto interruzioni e, stando alle apparenze, ci vorrà per loro poco più di metà del tempo. Queste trasformazioni furono realizzate con sforzi disordinati e grandi sofferenze. Gran parte di esse non erano necessarie. Tuttavia quelle trasformazioni hanno provato che l’uomo comune può dimostrare una stupefacente forza d’animo nel procacciarsi il companatico per il domani. Companatico oggi; e gli uomini non sono al loro massimo grado di eccitazione; companatico domani e spesso li si vede al più elevato grado. Le trasformazioni si sono anche dimostrate un qualcosa che soltanto la cultura scientifica può superare senza il minimo sforzo. Si tratta semplicemente di questo: che la tecnologia è piuttosto facile. O più esattamente, la tecnologia è quella branca dell’esperienza umana che la gente può imparare con risultati prevedibili. Tutti i nostri ragazzi giocano con giocattoli meccanici. Essi afferrano alcuni elementi della scienza applicata prima ancora di essere in grado di leggere. È tecnicamente possibile realizzare la rivoluzione scientifica in India, in Africa, nell’Asia sud Orientale, nell’America latina, nel Medio Oriente entro cinquant’anni. Non vi sono attenuanti per l’uomo occidentale se non vuole rendersene conto, e se non si rende conto che questa è l’unica via per sfuggire alle tre minacce che incombono sul nostro cammino: la guerra nucleare, il sovrappopolamento, le distanze fra i ricchi e i poveri. Dal momento che le distanze fra i ricchi e i poveri possono essere superate, lo saranno. La rivoluzione scientifica su scala mondiale abbisogna, prima di tutto, di capitali sotto tutte le forme, compresa quella dei macchinari. I paesi poveri, fintanto che non abbiano superato un certo punto della curva dello sviluppo industriale, non possono accumulare quel capitale. Ecco perché la distanza che separa ricchi e poveri aumenta sempre. Il capitale deve venire dal di fuori. Il secondo fabbisogno è rappresentato dagli uomini. Cioè scienziati e ingegneri specializzati, sufficientemente adattabili per dedicarsi all’industrializzazione di un paese straniero per almeno dieci anni della loro vita. Questi uomini, di cui siamo ancora sprovvisti, è necessario che ricevano una educazione non solo scientifica ma anche umana. Essi non potrebbero fare il loro mestiere se non si scrollassero di dosso ogni traccia di paternalismo. Un’infinità di europei, da San Francesco a Schweitzer, hanno dedicato la propria vita agli Asiatici e agli Africani; lo hanno fatto con nobiltà, ma con paternalismo. Non sono questi gli europei cui gli Asiatici e gli Africani daranno ora il benvenuto. Chiedono uomini che convivano con loro come colleghi, trasmettano loro le cognizioni di cui dispongono, facciano un onesto lavoro tecnico e se ne vadano. Per fortuna; questo è un atteggiamento che gli scienziati fanno presto ad assumere. Essi sono, più degli altri, liberi da pregiudizi razziali; la loro cultura è, nei suoi rapporti umani, una cultura di tipo democratico. Nel clima che domina all’interno del loro gruppo, la brezza dell’eguaglianza fra gli uomini vi colpisce in faccia, talvolta un po’ violentemente. Essi avrebbero un ruolo da svolgere anche per quanto concerne il terzo elemento essenziale della rivoluzione scientifica, un programma educativo completo come quello cinese, che, a quanto pare, in dieci anni ha prodotto una così profonda trasformazione delle loro università e ha portato a costruirne così tante nuove, che essi ora possono fare quasi del tutto a meno di scienziati e di ingegneri fatti venire da fuori. Queste sono le dimensioni del problema. Un immenso capitale estero, un immenso investimento di uomini, sia di scienziati che di insegnanti di lingue. Qualcuno mi chiederà: "Ciò è molto bello. Ma lei è considerato un uomo realista. Ha interessi per la sottile struttura della politica; ha dedicato tempo a studiare come si comportano gli uomini per raggiungere i loro scopi. È possibile che crediate che essi si comporteranno come dite dovrebbero comportarsi? Potete immaginare un meccanismo politico grazie al quale un tale piano possa realizzarsi? È un’osservazione giusta. Posso solo rispondere che non lo so. Sì, (gli uomini) sono fatti così. Sono i mattoni coi quali dobbiamo costruire, e uno può giudicarli attraverso la portata del proprio egoismo. Ma essi sono talvolta capaci di qualcosa di più, e ogni realismo che non ammetta ciò non è serio. Dall’altra parte, confesso – e sarei poco onesto se non lo facessi – che non riesco a vedere attraverso quali meccanismi politici le buone capacità umane dell’Occidente possano entrare in azione. Colmare la frattura che separa le nostre culture è una necessità sia nel senso intellettuale più astratto, sia nel senso più pratico. Non è ora di cominciare? Il pericolo è che siamo abituati a pensare come se avessimo a disposizione tutto il tempo di questo mondo. E invece abbiamo pochissimo a nostra disposizione. Così poco che non ho il coraggio di pensarci.