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Le ricchezze, il progresso, la storia universale-J. Turgot


lunedì 09 marzo 2009 legge Roberto Finzi
Diversamente da quanto avviene nella natura – immutabile in Turgot – le cause e gli effetti che operano nel mondo storico mutano istante per istante l’oggetto che governano. Scoprire le leggi storiche è quindi anche e contemporaneamente, svelare i mutamenti apportati e la direzione impressa alla società da queste stesse leggi. Il punto di partenza ( e il problema ) non può dunque essere che il presente.
….La storia dell’uomo, lo svilupparsi della sua cultura, il progresso dei lumi diviene così , innanzi tutto, studio del modo in cui l’umanità si procura i mezzi per la sussistenza, in cui si sviluppa la "ricchezza delle nazioni"
Anne-Robert-Jaques Turgot nasce a Parigi nel 1727 da famiglia aristocratica, si dedica con passione agli studi di economia – collaborando su tali temi all’ Encyclopédie . Nel 1774 divenne Controllore generale delle finanze. Ma i suoi provvedimenti economici, volti ad innovare l’antiquato sistema economico francese, suscitarono nel 1775 –anno di carestia – movimenti di rivolta, di cui approfittarono i gruppi più retrivi della nobiltà per far allontanare l’odiato ministro. Naufragò così la possibilità di trasformare la monarchia francese in uno Stato moderno, senza lacerazioni rivoluzionarie. Ritiratosi a vita privata, morì nel 1781.
Roberto Finzi è professore ordinario di Storia Economica presso l’Università di Bologna


 Turgot , Le ricchezze, il progresso e la storia universale -Scritti a cura di Roberto Finzi, Einaudi, PBE 1978

Piano di due discorsi sulla storia universale
Idea dell’introduzione
Posto dal suo creatore al centro dell’eternità e dell’immensità e non occupandone che un punto, l’uomo ha relazioni necessarie con una moltitudine di cose e di esseri, mentre le sue idee sono concentrate nell’indivisibilità della sua mente e del momento presente.
Egli si conosce soltanto attraverso le sue sensazioni che si rapportano tutte agli oggetti esterni, e il momento presente è un centro in cui convergono una gran quantità di idee concatenate le une alle altre.
L’uomo prende coscienza della realtà da tale concatenazione e dall’ordine delle leggi che tutte queste idee seguono nelle loro continue variazioni. Dalle relazioni di tutte le sue diverse sensazioni apprende l’esistenza degli oggetti esterni. Una relazione simile nella successione delle sue idee gli svela il passato. Le relazioni degli esseri tra loro non sono affatto relazioni passive. Tutti possono agire gli uni sugli altri, conformemente alle loro diverse leggi ed anche a seconda delle loro distanze reciproche. Questo mondo reale, di cui ignoriamo i limiti, ne ha per noi di molto ristretti, che dipendono dalla minore o maggiore perfezione dei nostri sensi. Conosciamo un piccolo numero di anelli della catena, ma le estremità superiore ed inferire ci sfuggono ugualmente.
Le leggi che governano i corpi formano la fisica: sempre costanti, le si descrive, non le si narra. La storia degli animali, e soprattutto quella dell’uomo, offrono uno spettacolo assai diverso.
L’uomo, come gli animali, succede ad altri uomini cui è debitore della sua esistenza. E vede, analogamente, i suoi simili sparsi sulla superficie del globo che abita. Ma, dotato di una ragione più sviluppata e di una libertà più attiva, ha con loro rapporti più numerosi e vari. Possessore del tesoro dei segni, che ha avuto la capacità di moltiplicare pressoché all’infinito, può padroneggiare tutte le idee che ha acquisito, comunicarle agli altri uomini, trasmetterle ai suoi successori come un’eredità che sempre s’accresce. Una combinazione continua di questi suoi progressi con le passioni e gli eventi da esse prodotti, costituisce la storia del genere umano, in cui ogni uomo altro non è che una parte d’un tutto immenso che ha, come lui, la sua infanzia e i suoi progressi.
Così la storia universale comprende l’esame dei progressi successivi del genere umano e l’analisi delle cause che vi hanno contribuito. Gli albori dell’umanità; la formazione ed il mescolarsi delle nazioni; l’origine e le rivoluzioni dei governi; i progressi della lingua, della filosofia naturale, della morale, dei costumi, delle scienze e delle arti; le rivoluzioni che hanno fatto succedere gli imperi agli imperi, le nazioni alle nazioni, le religioni alle religioni; il genere umano sempre lo stesso negli sconvolgimenti che lo scuotono, come l’acqua del mare nelle tempeste, e che procede sempre verso la sua perfezione. Svelare l’influenza delle cause generali e necessarie, quella delle cause particolari e delle libere azioni dei grandi uomini, e la relazione di tutto ciò con la stessa costituzione dell’uomo; mostrare gli impulsi e la meccanica delle cause morali attraverso i loro effetti. Questa è la storia agli occhi di un filosofo. Essa si fonda sulla geografia e la cronologia che misurano le distanze di luogo e di tempo.
Presentando secondo questo piano un quadro del genere umano, seguendo pressappoco l’ordine storico dei suoi progressi, limitandomi alle epoche principali, voglio solo tracciare un profilo e non affrontare le cose in profondità; fornire un abbozzo di una grande opera e fare intravvedere un vasto cammino senza percorrerlo, così come attraverso una stretta finestra si scorge l’immensità del cielo.

 Piano del primo discorso sulla formazione dei governi e la mescolanza delle nazioni
Tutto l’universo mi rivela un essere supremo. Ovunque vedo impressa la mano di Dio. Se voglio sapere qualcosa di preciso, sono circondato da nubi.
Vedo ogni giorno nuove invenzioni; vedo in alcune parti del mondo popoli civili, illuminati, e in altre popoli che errano in seno alle foreste. Questa ineguaglianza di progressi in un tempo eterno sarebbe dovuto scomparire. Il mondo non è dunque eterno; ma nello stesso tempo debbo concludere che è molto antico. Fino a che punto? Lo ignoro. L’orgoglio delle nazioni le ha portate a spostare le loro origini molto indietro, negli abissi dell’antichità. Ma, relativamente al tempo, gli uomini, prima dell’invenzione dei numeri, non erano in grado di dilatare le loro idee di là dalle poche generazioni che potevano conoscere, cioè a dire tre o quattro. La tradizione, non sorretta dalla storia, non può risalire oltre un secolo o un secolo e mezzo nell’indicare l’epoca di un fatto noto. Nessuna storia risale quindi molto oltre l’invenzione della scrittura, se non attraverso leggendarie cronologie che ci si dette la pena di comporre solo quando le nazioni, disvelate le une alle altre dal loro reciproco commercio, ebbero volto il loro orgoglio in gelosia. In questo silenzio della ragione e della storia un libro c’è dato quale depositario della Rivelazione. Esso ci rende manifesto ( a seconda dei diversi esemplari ) che questo mondo esiste da sei o ottomila anni, che traiamo tutti la nostra origine da un solo uomo e da una sola donna; che per punire la loro disobbedienza l’uomo, nato per una condizione più felice, è stato ridotto ad un’ignoranza e ad una miseria che poteva dissipare solo in parte col tempo e con il lavoro. Ci descrive abilmente per sommi capi l’invenzione delle prime arti, frutto dei primi bisogni, ed il succedersi delle generazioni, fino a quando il genere umano, quasi per intero inghiottito da un diluvio universale, fu di nuovo ridotto ad una sola famiglia, e di conseguenza obbligato a ricominciare. Questo libro dunque non si oppone affatto a che ricerchiamo come gli uomini abbiano potuto propagarsi sulla terra e le società politiche organizzarsi. Esso offre un nuovo punto di partenza per questi significativi eventi, simile a quello che sarebbe stato adottato ove i fatti che ci narra non fossero divenuti oggetto della nostra fede.
Senza provviste, in mezzo alle foreste, non ci si può occupare che della sussistenza. I frutti che la terra produce senza essere coltivata sono troppo piccola cosa: fu necessario ricorrere alla caccia degli animali che, poco numerosi e non potendo in una data regione provvedere al sostentamento di molti uomini, hanno per ciò stesso accelerato la dispersione dei popoli e la loro rapida diffusione.
Famiglie e piccole nazioni molto distanti le une dalle altre, perché a ciascuna è necessario un vasto spazio per nutrirsi: ecco lo stato dei cacciatori.
Non hanno una dimora fissa e si trasferiscono con estrema facilità da un luogo ad un altro. Difficoltà nel procurarsi di che vivere, una disputa, il timore di un nemico sono sufficienti per separare famiglie di cacciatori dal resto della loro nazione.
Allora si spostano senza meta dove la caccia li conduce. E se un’altra caccia li porta più lontano nella stessa direzione, continuano ad allontanarsi gli uni dagli altri. Ciò determina che popoli che parlano la stessa lingua si trovino a volte a distanza di più di seicento leghe, e attorniati da popoli che non li comprendono. Il che è comune fra i selvaggi dell’America dove si possono osservare, per la stessa ragione, nazioni di quindici o venti uomini.
Ciononostante non è raro che guerre o dispute, per rinvenire i motivi delle quali i popoli barbari sono anche troppo ingegnosi, abbiano causato mescolanze che, da un gran numero di nazioni, hanno a volte portato ad una sola nazione attraverso un generale conformarsi dei costumi e delle lingue, divise solo in un gran numero di dialetti.
L’usanza dei selvaggi d’America d’adottare i loro prigionieri di guerra in luogo degli uomini persi nelle loro spedizioni, ha dovuto far sì che queste mescolanze siano state assai frequenti. Vediamo delle lingue regnare su aree di vasta estensione, come quella degli Uroni in prossimità del fiume San Lorenzo; quella degli Algonchini, scendendo verso il Mississippi; quella degli abitanti del Messico; quella degli Inca, quella dei Topinambà in Brasile e dei Guaranì in Paraguay. Le grandi catene montuose ne sono comunemente i confini.
Ci sono animali che si lasciano sottomettere dagli uomini, come i buoi, le pecore, i cavalli, e gli uomini trovano più vantaggioso riunirli in mandrie o greggi che correre dietro agli animali erranti. La pastorizia non ha tardato a penetrare in tutti i luoghi in cui si incontravano questi animali: buoi e pecore in Europa, cammelli e capre in Oriente, cavalli in Tartaria, renne nel Nord.
Il modo di vita dei popoli cacciatori si è conservato in quella parte d’America in cui queste specie mancano: in Perù, dove la natura ha posto una specie di pecore, chiamate llamas, s’è formato un popolo di pastori; ed è verosimilmente questa la ragione che ha fatto sì che questa parte dell’America sia stata più agevolmente civilizzata.
I popoli pastori, avendo mezzi di sussistenza più abbondanti e più sicuri, poterono essere più numerosi. Hanno cominciato ad essere più ricchi e a conoscere meglio lo spirito di proprietà. L’ambizione o piuttosto la cupidigia, che è l’ambizione dei barbari, ha potuto ispirar loro l’inclinazione alla rapina e insieme la volontà e il coraggio della conservazione. La cura delle mandrie comporta un disagio che i cacciatori non hanno, ed esse nutrono più uomini di quanti non ne richiedano per custodirle. Così dovette sorgere una sproporzione tra la rapidità dei movimenti degli uomini disponibili e quella delle nazioni. Così una nazione non poté evitare il combattimento con una schiera d’uomini risoluti – cacciatori o anche membri d’altre nazioni di pastori – che rimanevano se vincitori padroni delle mandrie e che qualche volte erano pure respinti dalla cavalleria dei pastori, quando le mandrie di questi ultimi erano formate da cavalli o da cammelli. E siccome i vinti non potevano fuggire senza morir di fame, seguirono la sorte del bestiame e divennero schiavi dei vincitori, che nutrirono accudendo ai loro armenti. I padroni, sollevati da ogni cura, s’accinsero a sottomettere altri alla stessa maniera. Ed ecco piccole nazioni già formate che dettero vita a loro volta a grandi nazioni. Questi popoli si diffondevano così su un intero continente fin quando non venissero arrestati da barriere relativamente impenetrabili.
Le incursioni dei popoli pastori lasciano maggiori tracce di quelle dei cacciatori. Suscettibili, per il tempo libero di cui dispongono, d’un maggior numero di desideri, si precipitavano laddove speravano in un bottino e se ne impadronivano. Si fermavano ovunque trovassero dei pascoli e si mescolavano con gli abitanti del paese.
L’esempio dei primi incoraggiava gli altri. Tali torrenti nel loro corso ingrossavano: i popoli e le lingue si mescolavano costantemente.
Nondimeno questi conquistatori si dileguavano ben presto. Quando non c’era più nulla da depredare, le loro diverse orde non avevano più interesse a restare insieme. E d’altronde la moltiplicazione del bestiame li forzava a separarsi. Ogni orda aveva il suo capo. Solo qualche capo principale, o più bellicoso, manteneva una qualche superiorità sugli altri nell’ambito della sua nazione, ed esigeva da essi certi doni in segno d’omaggio.
Infine, a tutto ciò si mescolavano false idee di gloria. Ciò che s’era fatto per depredare lo si fece per dominare, per innalzare le proprie nazioni al disopra delle altre e, quando il commercio tra i popoli li ebbe resi edotti delle caratteristiche dei problemi stranieri, per mutare un paese ingrato in uno fertile.
Ogni principe un po’ ambizioso faceva scorrerie sulle terre dei suoi vicini, ed estendeva il proprio dominio fintantoché non trovava qualcuno capace di resistergli; allora si combatteva; il vincitore accresceva la propria potenza di quella del vinto, e se ne serviva per nuove conquiste.
Di qui tutte quelle ondate di barbari che hanno spesso sconvolto la terra; quei flussi e riflussi che costituiscono tutta la loro storia. Di qui quei diversi nomi che hanno portato successivamente le genti del medesimo paese, e la cui varietà confonde le ricerche degli studiosi. Il nome della nazione dominante diveniva comune a tutte le altre, che conservavano ciononostante ilo loro nome particolare. Così è stato per i Medi, i Persiani, i Celti, i Teutoni, i Cimbri, gli Svevi, i Germani, gli Alemanni, gli Sciti, i Goti, gli Unni, i Turchi, i Tartari, i Mongoli, i Manciù, i Calmucchi, gli Arabi, i Beduini, i Berberi, ecc.
Tutte le conquiste non sono state ugualmente estese; ciò che non ha arrestato centomila uomini ne ha arrestati diecimila; così si è verificato un numero molto maggiore di piccole conquiste racchiuse in paesi diversi. Le rivoluzioni vi dovettero essere qui molto frequenti, le nazioni più mescolate. I fiumi, ed ancora più le catene montuose e il mare, hanno rappresentato barriere naturali impenetrabili per un gran numero di questi Attila mancati. Così, fra catene montuose, fiumi, mari, i piccoli popoli dispersi si sono riuniti, fusi insieme attraverso rivoluzioni molteplici. Le loro lingue, i loro costumi hanno assunto, per un’intima mescolanza, una sorta di colore uniforme.
Oltre queste prime barriere naturali, le conquiste sono state più vaste e la mescolanza meno frequente.
Abitudini e dialetti particolari costituiscono nazioni diverse. Ogni ostacolo che diminuisce la comunicazione, e quindi la distanza che è uno di questi ostacoli, rafforza le differenze che separano le nazioni; ma, in generale, i popoli d’un continente si sono mescolati assieme, almeno mediatamente; i Galli con i Germani, questi con i Sarmati, e così via fino alle zone più estreme non separati da grandi mari. Di qui, quei costumi e quei termini comuni a popoli assai distanti e molto diversi. Le lingue, i costumi, le sembianze stesse mi sembrano bande colorate che attraversano in tutti i sensi tutte le nazioni d’un continente e formano una successione di gradazioni percettibili; ogni nazione è una sfumatura fra le nazioni vicine. Talvolta le nazioni tutte si mescolano, talvolta l’una trasmette all’altra ciò che essa stessa ha ricevuto. Ma quasi tutte queste rivoluzioni sono ignorate: esse non lasciano tracce maggiori di quante non ne lasciano sul mare le tempeste. La memoria non ne è conservata se non quando esse hanno coinvolto nel loro corso dei popoli civili.
I popoli pastori che si sono trovati a fissare la loro dimora in paesi fertili sono senza dubbio stati i primi a passare allo stato di agricoltori. I popoli cacciatori, privi dell’ausilio del bestiame per concimare la terra e per facilitare i lavori, non sono stati in grado d’arrivare così presto all’agricoltura. Se coltivano qualche terreno, lo fanno solo per piccole estensioni; quando è esausto, trasferiscono altrove la loro dimora, e se possono abbandonare la vita nomade, ciò è loro possibile solo attraverso progressi infinitamente lenti. Gli agricoltori non sono per natura conquistatori: il lavoro della terra li occupa troppo; ma, essendo più ricchi degli altri popoli, sono stati costretti a difendersi dalle violenze. Di più, tra loro la terra nutre molti più uomini di quanti non ne occorrano per coltivarla. Di qui gente oziosa; di qui le città, il commercio, tutte le arti utili o semplicemente piacevoli; di qui i più rapidi progressi in ogni sfera, giacché tutto segue il generale sviluppo dell’intelletto; di qui un’abilità di guerra maggiore di quella dei barbari; di qui la separazione dei mestieri, l’ineguaglianza degli uomini, la schiavitù in forma domestica, l’asservimento del sesso più debole, sempre legato alle barbarie, la cui durezza aumenta in ragione dell’aumento della ricchezza. Ma nello stesso tempo inizia una più approfondita ricerca sul governo.
Gli abitanti delle città, più abili di quelli della campagna, li assoggetteranno; o piuttosto un villaggio che, per la sua posizione, era divenuto il punto in cui la popolazione dei dintorni si riuniva per le opportunità commerciali che offriva, più ricco d’abitanti, divenne il centro dominante e, lasciando negli altri villaggi soltanto chi era necessario alla coltivazione delle terre, attirò a sé, o con la schiavitù o con il fascino della forma di governo e del commercio, la maggiore e migliore parte degli abitanti. La mescolanza, l’unione delle diverse sfere di governo divenne più intima, più stabile. Negli agi delle città le passioni si svilupparono assieme al genio. L’ambizione prese forza; la politica le fornì delle prospettive; i progressi dell’intelletto le resero più vaste: di qui mille forme di governo. Le prime furono necessariamente prodotto della guerra e pre-supposero, di conseguenza, il governo d’uno solo.
Non bisogna credere che gli uomini si siano mai dati volontariamente un padrone; ma hanno spesso consentito a riconoscere un capo. E gli stessi ambiziosi, edificando grandi nazioni, hanno contribuito ai disegni della Provvidenza, al progresso dei lumi, e quindi ad accrescere la felicità del genere umano di cui non si preoccupavano affatto. Le loro passioni, i loro stessi furori, li hanno guidati senza che essi sapessero dove andavano. Mi sembra di vedere un esercito immenso di cui un vasto genio dirige tutti i movimenti. Alla vista dei segnali militari, al suono tumultuoso delle trombe e dei tamburi, interi squadroni si mettono in moto, i cavalli stessi sono colmi di una passione che non ha scopo alcuno; ogni parte s’apre le sue strade attraverso gli ostacoli, senza sapere ciò che ne può risultare; il solo capo vede l’effetto di tanti movimenti combinati. Così le passioni hanno moltiplicato le idee, ampliato le conoscenze, perfezionato gli intelletti, in luogo della ragione il cui giorno non era ancora venuto e che sarebbe stato meno possente se avesse regnato più presto.
Questa, che è la giustizia stessa, non avrebbe tolto ad alcuno ciò che gli apparteneva, avrebbe bandito per sempre guerre ed usurpazioni, avrebbe lasciato gli uomini divisi in una quantità di nazioni separate le une dalle altre dalle diverse lingue. Limitato, di conseguenza, nelle sue idee, incapace di quei progressi in ogni campo dell’intelletto, delle scienze, delle arti, dell’arte di governare che nascono dai geni riuniti di diverse regioni, il genere umano sarebbe rimasto per sempre nella mediocrità. La ragione e la giustizia, più ascoltate, avrebbero fissato tutto, come è più o meno accaduto in Cina. Ma ciò che non è giammai perfetto non deve mai essere del tutto fissato. Le passioni tumultuose, dannose, sono divenute un principio d’azione e, conseguentemente, di progresso; tutto ciò che fa uscire gli uomini dal loro stato, tutto ciò che mette sotto i loro occhi scenari diversi, estende l’ambito delle loro idee, li illumina, li stimola, e, alla lunga, li conduce al bene e al vero verso cui sono portati dalla loro inclinazione naturale: come il frumento che, setacciato a più riprese, ricade per il suo peso sempre maggiormente mondato dalla leggera e nociva pula. Ci sono passioni delicate, sempre necessarie, che si sviluppano a misura che l’umanità si perfeziona; ce ne sono altre violente e terribili, come l’odio e la vendetta, che sono più sviluppate nel periodo di barbarie. Pure esse sono naturali, e conseguentemente anche necessarie: le loro esplosioni riconducono alle passioni dolci e danno loro nuovo impulso, cos’ come la veemente fermentazione è indispensabile alla preparazione dei buoni vini.

Solo attraverso gli sconvolgimenti e le distruzioni le nazioni si sono estese, le civiltà, i governi si sono a lungo andare perfezionati; come in quelle foreste d’America, tanto antiche quanto il mondo, in cui di secolo in secolo le querce si sono succedute le une alle altre, in cui di secolo in secolo le querce, cadendo in polvere, hanno arricchito il suolo di tutti gli umori fecondi che l’aria e le piogge hanno loro fornito, in cui i resti delle une, divenendo per la terra che aveva dato loro la vita una nuova fonte di fecondità, sono serviti a produrre nuovi polloni ancora più forti e vigorosi. Allo stesso modo su tutta la superficie della terra i governi si sono succeduti ai governi, gli imperi si sono innalzati sulle rovine di altri imperi, i loro resti dispersi si sono nuovamente riuniti; i progressi della ragione sotto i primi governi, liberati dalla costrizione di leggi imperfette imposte dal potere assoluto, hanno avuto una parte maggiore nella costruzione di quelli successivi. Ripetute conquiste hanno esteso gli stati; l’impotenza di una legislazione barbara e d’una civiltà limitata li forzò a dividersi. In un luogo i popoli stanchi dell’anarchia si sono gettati nelle braccia del dispotismo, in un altro la tirannia spinta all’eccesso ha prodotto la libertà. Nessun mutamento s’è avuto che non abbia portato qualche vantaggio; infatti, non se n’è avuto alcuno che non abbia prodotto esperienza e che non abbia esteso o migliorato o preparato l’educazione dell’uomo. Solo dopo secoli, e attraverso sanguinose rivoluzioni, il dispotismo ha infine appreso a moderarsi da sé solo e la libertà ad autoregolarsi; e la fortuna degli stati è infine divenuta meno fluttuante e più stabile. Ed è così che, attraverso alterni periodi d’agitazione e di calma, di bene e di male, la massa totale del genere umano è incessantemente avanzata verso la perfezione.
Nelle prime dispute interne alle nazioni, un uomo superiore in forza, valore o prudenza indusse, poi forzò quegli stessi che difendeva ad obbedirgli. Questa sola superiorità bastò a dare un capo agli uomini riuniti in società. Non è esattamente vero che l’ambizione sia l’unica fonte dell’autorità. I popoli sono portati a scegliere un capo, ma essi lo hanno sempre voluto ragionevole e giusto, non insensato ed arbitrario.
E’ impossibile che l’autorità dispotica si consolidi fra le nazioni di piccole proporzioni; il dominio del capo non può poggiare che sul consenso della gente o su una venerazione, sia personale, sia nei confronti di una famiglia. Quella personale si perde con l’abuso di potere; ed ancora questo abuso, quando la venerazione è per una famiglia, dà adito a rivolte di palazzo a vantaggio di un altro membro della famiglia che cerca di soddisfare maggiormente la pubblica opinione.
Negli stati limitati ad una sola città, era impossibile che il potere reale si sostenesse a lungo. Le sue piccole deviazioni sono ed appaiono qui più tiranniche; e la tirannia ha meno potere e trova una più energica resistenza. Il potere reale è qui più facilmente degenerato. Le passioni dell’uomo si sono qui più facilmente confuse con quelle del principe. Le fortune o la moglie di un privato hanno potuto tentare lui o i suoi. Meno elevato al di sopra dei suoi sudditi è stato più sensibile ai loro oltraggi, più facile alla collera. Nell’ infanzia della ragione umana è facile per un principe irritarsi contro gli ostacoli che le leggi frappongono alle sue passioni e non vedere che queste barriere fra lui ed il suo popolo non lo difendono meno dei suoi sudditi di quanto non difendano i suoi sudditi da lui. Ma, giacché in un piccolo Stato non è mail più forte, l’abuso di potere, che qui è dovuto essere più frequente, è stato anche meno munito contro la rivolta che ne consegue. Donde le repubbliche, dapprima aristocratiche e più tiranniche della monarchia, perché nulla è così orribile che obbedire ad una moltitudine che sa sempre elevare le sue passioni a virtù; più durature nel contempo, perché il popolo vi è sempre più avvilito. I potenti ed i deboli si uniscono contro un tiranno, ma un senato aristocratico, soprattutto se ereditario, non ha che la plebaglia da combattere. Malgrado questo le repubbliche, limitate all’estensione di una città, tendono naturalmente alla democrazia, che ha anch’essa i suoi gravi inconvenienti.
E’ raro che le città facciano delle conquiste. Non vi si dedicano che quando, per così dire, non hanno niente di meglio da fare. E d’altronde c’è comunemente tra loro una specie d’equilibrio e di gelosia sufficienti a promuovere la formazione di leghe contro quella che s’innalzasse troppo. L’amor di patria, nelle repubbliche soprattutto, rende pressoché impossibile la distruzione della sovranità d’una città da parte di forze uguali alle sue. Insomma, raramente una città è conquistatrice, a meno di’una singolare combinazione di costituzione interna e di circostanze esterne che non si è, credo, mai data eccetto nel caso del popolo romano.
I popoli civili, più ricchi, più tranquilli, più avvezzi ad una vita molle, o almeno sedentaria, soprattutto nei paesi fertili che furono per primi coltivati, perdono ben presto il vigore che li ha resi conquistatori, quando una saggia disciplina non opponga una barriera alla mollezza. I conquistatori allora cedono il passo ai nuovi barbari. Gli imperi si estendono, hanno la loro epoca di vigore e la loro decadenza; ma la loro stessa caduta aiuta le arti a perfezionarsi e le leggi a migliorare. Così si succedettero Caldei, Assiri, Persiani. Il dominio di questi ultimi fu il più vasto.
Era difficile che in Grecia, paese diviso da isole e montagne, si formassero grandi imperi. Una moltitudine di piccoli stati, quasi sempre in guerra, conservò lo spirito militare e aumentò l’abilità tattica, la perfezione delle armi, l’audacia in battaglia. La civiltà si estendeva anche per mezzo del commercio. In generale sono i popoli montanari o dei paesi freddi o sterili che hanno conquistato le pianure e che hanno costituito degli imperi o resistono ad essi. Sono più poveri, più robusti, più inaccessibili; hanno potuto scegliere il tempo adatto alle loro necessità per attaccare e le posizioni loro più confacenti per difendersi. E quando vollero essere conquistatori, avevano in ciò maggior interesse, trovarono in questo maggiore facilità.
I grandi imperi formati, come stiamo dicendo, da barbari furono dispotici. Il dispotismo è facile. Fare ciò che si vuole è un codice che un re apprende molto rapidamente; è necessaria abilità per persuadere, non ne necessita alcuna per comandare. Se il dispotismo non inducesse alla rivolta coloro che ne sono le vittime, non sarebbe mai bandito dalla terra. Un padre vuole essere despota con i suoi figli, un padrone con i suoi domestici. La probità non garantisce un principe da questo veleno; egli vuole il bene e volere che ognuno gli obbedisca diviene una virtù. Più uno stato è grande, più il dispotismo è naturale, e maggiori difficoltà ci sarebbero a stabilirvi un governo moderato. Abbisognerebbe per questo un ordine certo in tutte le parti dello stato; sarebbe necessario determinare la posizione d’ogni provincia, d’ogni città, lasciarle con il suo governo municipale tutta la libertà di cui non potesse abusare. Quante giurisdizioni da combinare, da porre in reciproco equilibrio, e quale difficoltà per chi non intuisce che ciò è necessario! Una conquista fatta dai barbari, che è opera della forza ed è accompagnata dalle distruzioni, crea nello stato un disordine tale che richiederebbe, per porvi rimedio, il più vasto genio, la mano più accorta, la virtù più temperata ed energica, il cuore più puro e più elevato. Nell’impossibilità di rispondere di tutto, non s’immaginò niente di meglio che creare dei governatori tanto dispotici nei confronti del popolo, quanto schiavi del principe. Era più facile rivolgersi ad essi per riscuotere i tributi e contenere i popoli che regolarne da sé i modi. Il principe dimenticò il popolo. Il miglior governatore fu colui che fornì più denaro e che meglio seppe guadagnarsi i servi e gli adulatori che frequentavano abitualmente il palazzo. I governatori avevano dei subalterni che agivano allo stesso modo. L’autorità dispotica rendeva i governatori pericolosi; la corte li trattava con il più grande rigore: la loro posizione dipese dal più piccolo capriccio. Si cercarono dei pretesti per spogliarli dei tesori che avevano depredato; e non si portò alcun sollievo ai popoli, giacché la cupidigia è una caratteristica naturale dei re barbari.
In origine non si sono affatto concepite le imposte come un modo di sopperire al bisogno dello stato; ma il principe chiedeva denaro e si era forzati a dargliene. Gli si fanno doni in tutto l’Oriente: là i re non sono che privati potenti ed avidi.
Non avendo trovato delle leggi, i principi dispotici non hanno affatto provveduto a farne; giudicavano essi stessi. In generale, quando il potere che fa le leggi s’identifica con quello che le applica, le leggi sono inutili. Le pene restano arbitrarie, ordinariamente crudeli quando sono comminate dai principi, e pecuniarie quando sono imposte dai subalterni che ne traggono profitto.
In generale i grandi Stati più moderati sono quelli che si sono formati tramite l’unione di più piccoli Stati, soprattutto quando questa s’è prodotta lentamente. Il monarca non ha al fondo interesse alcuno ad immischiarsi nei particolari del governo municipale nei luoghi in cui non è mai presente: è portato a lasciarlo tal quale è. I principi non possono amare che il dispotismo attorno a sé, perché le loro passioni (quelle almeno che sono più soggette al capriccio) riguardano solo chi li circonda; sono uomini come gli altri. Ecco perché il dispotismo degli imperatori romani fece meno danno di quello dei Turchi. Quest’ultimo entra nell’ordinamento del governo locale. Infetta tutte le parti dello stato; ne incatena tutte le giurisdizioni. Ogni pascià esercita sui popoli a lui sottomessi la stessa autorità che il grande signore ha su di lui. A lui sono stati affidati tutti i tributi e ne è il responsabile. Non ha altri redditi oltre a quelli che trae dal popolo di là da ciò che è obbligato a fornire al sultano; ed è obbligato a raddoppiare le sue vessazioni per provvedere agli innumerevoli doni necessari a mantenerlo al suo posto.
Non c’è nell’impero nessuna legge che regoli il prelievo di denaro, alcuna procedura formale nell’amministrazione della giustizia. Tutto si fa alla maniera militare. Il popolo non trova a corte alcun protettore contro gli abusi di potere dei grandi di cui la corte condivide i frutti.
Il dispotismo partorisce le rivoluzioni; ma non si fa che cambiare tiranno, perché nei grandi stati dispotici la forza dei re è determinata solo dalle loro truppe, e la loro sicurezza solo dalle loro guardie. Il popolo non è in essi abbastanza forte, né abbastanza unito, per arrestare una siffatta potenza militare che sostituisce un re all’altro, sicura di essere lo strumento della tirannia del successore come lo era di quello del predecessore.
S’avverte che tutti gli effetti di questi principi debbono variare all’infinito, secondo il loro mescolarsi con le idee religiose ricevute e, come abbiamo sottolineato, con la venerazione per una certa famiglia, perché l’abitudine, in assenza d’altro potere, domina gli uomini. Per i giannizzeri sarebbe altrettanto facile, se lo volessero, scegliere un sultano tra la plebaglia che tra i discendenti di Otham; ma tale è il rispetto che è stato loro impresso fin dall’infanzia per questa famiglia che non sarebbero capaci di volerlo.
Questo potere dell’educazione è una delle grandi cause della durata dei governi, al punto di sorreggerli quando tutte le forze dell’impero sono indebolite, e di celarne la decadenza, di modo che si è sorpresi di vedere lo stato crollare al minimo sussulto, come quegli alberi che sembrano sani perché la loro scorza è intatta, mentre internamente tutto il legno è ridotto in polvere e non oppone più resistenza alcuna al vento. Negli stati dispotici l’educazione è tutta volta a spezzare gli animi forti. Il timore e il rispetto s’impadroniscono dell’immaginazione. Il sovrano, circondato da una tremenda oscurità, sembra governare da una nube tempestosa, i cui lampi abbagliano e i cui toni ispirano terrore. Aggiungo che, in questi vasti stati dispotici, s’introduce anche un dispotismo che si protende sui costumi civili; che ottunde ancor più gli intelletti; che priva la società della maggior parte delle sue risorse e delle sue delizie, della cooperazione delle donne alla conduzione della famiglia; che, impedendo i rapporti fra i due sessi, riduce tutto all’uniformità e spinge i membri dello stato ad una quiete indifferente che s’oppone ad ogni cambiamento, e quindi ad ogni progresso. Dirigendo tutto con la forza ( come necessariamente bisogna fare in una società in cui una moltitudine di schiavi e di donne è in ogni casa ricca, come nello Stato, sacrificata ad un solo padrone), si estingue il fuoco dell’intelletto, lo si costringe fra le pastoie di una legislazione barbara. Il dispotismo perpetua l’ignoranza e l’ignoranza perpetua il dispotismo. C’è di più: quest’autorità dispotica diviene consuetudine, e la consuetudine ratifica gli abusi. Il dispotismo è come una marea enorme che, premendo su pilastri di legno, indebolisce la loro resistenza e li fa cadere o sprofondare di giorno in giorno. Parlerei dunque della schiavitù, della poligamia, della mollezza che ne sono la conseguenza; e comincio a considerare su questo argomento le cause della differenza di costumi fra gli uomini.L’asservimento delle donne agli uomini è fondato su tutta la terra sull’ineguaglianza delle forze corporali. Ma poiché nascono un po’ più di uomini che di donne, ovunque ha regnato l’uguaglianza, la monogamia è stata naturale; lo è di conseguenza presso tutti i popoli poco numerosi, pastori, cacciatori, agricoltori; lo è presso i popoli divisi in piccole società in cui gli stati sono racchiusi all’interno della cinta delle città come in Grecia, e nelle repubbliche democratiche soprattutto; lo è presso i popoli poveri e presso tutti i privati di modeste risorse negli stessi paesi in cui la poligamia è più in voga; lo è anche negli imperi i cui costumi datano dai tempi in cui i popoli avevano ancora governi repubblicani, come l’impero romano e quello dei successori di Alessandro, i quali, benché dispotici, non hanno affatto conosciuto la poligamia. Nondimeno i barbari, che sono poco delicati in amore, sono stati tutti portati alla pluralità di mogli.Tacito riferisce che i capi dei Germani ne avevano qualche volta tre o quattro; ma presso un popolo errante e povero, il male non avrebbe potuto essere contagioso. E? dunque con le ricchezze e l’estensione degli imperi che la poligamia è divenuta un istituto stabile; e sé estesa con la schiavitù.
I primi uomini furono crudeli nelle loro guerre; non hanno appreso la moderazione che dopo molto tempo. I popoli cacciatori massacrano i loro prigionieri, o quando non li uccidono li incorporano nella loro nazione. Una madre che ha perso il proprio figlio sceglie un prigioniero che le serve da figlio; l’ama perché le è utile. Gli antichi per i quali i bambini erano una ricchezza, ché da essi ricevevano dei servizi, erano portati all’adozione. Dunque fra i popoli cacciatori o primitivi gli schiavi erano pochi o non ce n’erano affatto. I pastori cominciarono a conoscere la schiavitù. Chi si è impadronito di armenti è obbligato, per poter attendere a nuove spedizioni, a mantenere in vita coloro che li custodivano. Gli agricoltori spinsero oltre la schiavitù. Erano in condizione di impiegare gli schiavi nei servizi più vari, nei lavori più faticosi. Via via che i costumi dei padroni divenivano più civili, la schiavitù diventava più dura e più degradante perché l’ineguaglianza fu maggiore. I ricchi cessarono di lavorare; gli schiavi divennero un lusso ed una merce; certi genitori perfino vendettero i loro figli. Ma il maggior numero di schiavi fu sempre rappresentati da coloro che erano catturati in guerra o che nascevano da genitori schiavi. Li si occupò in casa nelle incombenze più umili. Non ebbero, in proprio, né beni, né onori, furono spogliati dei più elementari diritti umani. Le leggi conferivano su di essi un’autorità senza limiti, il che è molto semplice ( da spiegare): erano i loro padroni che facevano le leggi, e questi padroni credevano di garantirsi dall’oppressione con l’oppressione. Negli stati dispotici i principi ebbero una moltitudine di schiavi e così i governatori e gli stessi privati ricchi. La vasta estensione degli stati portò la disuguaglianza delle fortune al punto più alto. Le capitali divennero come dei baratri in cui da tutte le parti dell’impero, si riunirono i ricchi insieme alla folla degli schiavi.
Le donne schiave erano al servizio del piacere del padrone. Lo si vede nelle consuetudini degli antichi patriarchi, giacché (ed è ancora un elemento della giurisprudenza antica) il delitto di adulterio non era affatto reciproco come fra noi. Il marito solo si credeva oltraggiato. E’ un effetto della grande diseguaglianza fra i due sessi che consegue alla barbarie. Presso i popoli antichi le donne non hanno mai avuto diritti nel matrimonio. E’ stata solo la povertà ad impedire alla poligamia di stabilirsi dappertutto.
Quando i seguito si definiscono i costumi e le leggi di una nazione, la mescolanza delle famiglie rese alle donne certi diritti di cui non avevano goduto nei periodi precedenti, perché si servirono soprattutto nelle repubbliche del potere dei loro fratelli contro la tirannia dei loro mariti. Nelle repubbliche, in cui tutti erano uguali, i genitori di una ragazza non avrebbero acconsentito a privarsi per sempre della sua vista.
La poligamia e la clausura delle donne non ha potuto mai stabilirvisi. Ma, nei primi imperi di cui parliamo, popolati di una moltitudine di schiavi allorché le mogli non avevano alcun diritto ed i mariti ne avevano sui loro schiavi, la poligamia divenne un’usanza tanto generale quanto la permisero i limiti delle fortune individuali. La gelosia è una necessaria conseguenza dell’amore; essa ispira saggiamente agli sposi uno spirito di mutua proprietà che assicura il futuro dei figli. Con la poligamia quest’ultima passione ed ancora più la presunzione di disonore associata all’infedeltà delle donne, si accrebbero. L’impossibilità d sottomettere le donne a questo obbligo di fedeltà, quando né il cuore né i sensi potevano essere, fece pensare di farle richiudere. I principi, ed in seguito chi fu abbastanza ricco, si costruirono dei serragli. La gelosia fece mutilare degli uomini per sorvegliare le donne. Di qui una mollezza nei costumi che non li temperò, e che al contrario, li rese più crudeli. I principi chiusi con le loro mogli ed i loro schiavi non vedevano mai i loro sudditi che quindi erano per loro a malapena degli uomini. La loro politica fu sempre la politica dei barbari. Fu semplice perché erano ignoranti e pigri; e crudele, perché ci vuole minor tempo a togliere un albero che a coglierne i frutti, e perché l’arte di rendere gli uomini felici è la più difficile fra tutte le arti, quella per cui è necessario combinare più elementi.
La stessa mollezza si diffuse per l’intero Stato. Di qui l’indebolimento subitaneo delle monarchie dell’Oriente. Quelle dei Caldei, degli Assiri dei Medi e dei Persiani non sopravissero ai primi conquistatori che le avevano fondate. Sembra che siano rimaste in vita qualche tempo solo per attendere un nemico che le distruggesse. Se qualche volta queste monarchie hanno schiacciato con il numero dei loro soldati delle nazioni deboli, hanno sempre fallito davanti ad ogni resistenza coraggiosa. Non appena la Grecia si è riunita, h abbattuto quasi senza sforzo questo colosso immenso.
Non c’è che una risorsa contro questa generale corruzione di una nazione: una milizia retta da una disciplina marziale come i giannizzeri turchi o i Mammelucchi d’Egitto; ma questa milizia diviene spesso fonte di terrore per i suoi padroni.
Debbo annotare una cosa, e cioè che questi dannosi effetti dl dispotismo e della pluralità di mogli non sono mai stati spinti tanto in là quanto sotto l’islamismo. Questa religione che non ammette altre leggi che quelle della religione stessa, oppone un muro di superstizione al naturale cammino del processo di perfezionamento dell’umanità. Ha consolidato la barbarie consacrando quella che esisteva allorché è apparsa e che aveva adottato per pregiudizio nazionale. Né nella storia delle antiche monarchie, né nei costumi della Cina e del Giappone si trovano gli eccessi di degradazione dei popoli musulmani Il dispotismo, l’uniformità e di conseguenza l’imperfezione dei costumi, delle leggi del governo si sono conservati in Asia, ed in tutti i luoghi in cui i grandi imperi si costituirono presto; e non dubito che le vaste pianure della Mesopotamia vi abbiano contribuito. Quando il dispotismo si è ancora più esteso con l’islamismo, ciò che non si è dato in certo senso che per una trasposizione di costumi da un paese all’altro. I popoli che ne sono stati preservati sono quelli che sono rimasti pastori o cacciatori, quelli che hanno dato vita a piccole società o repubbliche. E’ fra questi popoli che le rivoluzioni sono state utili, che le nazioni vi hanno partecipato e, di conseguenza, ne hanno tratto profitto; che la tirannia non ha potuto affermarsi abbastanza per asservire gli intelletti; che la moltitudine delle legislazioni particolari e quella delle rivoluzioni che ponevano in risalto gli errori dei fondatori degli Stati, ed infine che la caduta ed il rinnovarsi dell’autorità sovrana che causavano un riesame delle leggi, hanno perfezionato a lungo andare la legislazione ed il governo. E’ fra questi popoli che l’uguaglianza si è conservata, che l’intelligenza il coraggio sono divenuti attivi e che l’intelletto umano ha fatto rapidi progressi E’ fra questi popoli che i costumi e le leggi hanno, a lungo andare, appreso a dirigersi verso la maggior felicità degli uomini.
Dopo questo sguardo sul progresso dei governi e della loro morale, è bene seguire i progressi dell’intelletto umano in tutte le sue rivoluzioni.