logo dell'associazione

logo dell'associazione

Lo spazio vuoto - Peter Brook



lunedì 19 novembre 2007 leggono Micaela Casalboni, Pietro Floridia, Nicola Bonazzi, Andrea Paolucci
Troppo spesso il teatro ci appare come una pratica inerte, relegata in ampi edifici dove cortine rosse e velluti preziosi finiscono per mettere in soggezione anche lo spettatore più smaliziato. Queste pagine di Peter Brook, uno dei più grandi registi del Novecento, a cui spetta il merito di avere rinnovato la scena internazionale, ci ricordano invece che il teatro può e deve essere una pratica di comunicazione viva e profonda, in grado di parlare al maggior numero di persone e di attivare una coscienza critica sul presente e sul mondo che ci circonda. 

Da: Peter Brook, Lo spazio vuoto, Bulzoni editore, Roma, 1998

E’ sempre il teatro popolare a salvare la situazione. Nelle diverse epoche ha assunto molte forme, ma l’elemento che le accomuna è uno soltanto: una certa ruvidezza. Sapore, sudore, rumore, odore: teatro che non è in un teatro, ma su carri, palchi mobili, pedane rialzate; spettatori in piedi o seduti ai tavoli, davanti a un bicchiere, che partecipano all’azione, che rimbeccano gli attori; un teatro fatto nei retrobottega, nelle soffitte, nei granai; soste di una sola sera, un lenzuolo lacero appuntato alle due estremità della sala, pannelli malconci che nascondono cambiamenti rapidi. Con un unico generico termine – teatro – si designa tutto questo e anche candelabri scintillanti. Ho avuto tante discussioni inutili con gli architetti dei teatri e ogni volta ho tentato, invano, di trovare le parole adatte per spiegare che il problema non è se gli edifici siano belli o brutti: può darsi che in uno spazio splendido non vi sia mai un’esplosione di vita e che una sala qualunque, invece, sia uno straordinario luogo d’incontro. E’ il mistero del teatro. Ma se vogliamo che l’architettura teatrale diventi una scienza, abbiamo soltanto una possibilità: comprendere questo mistero. In altre forme di architettura esiste un preciso rapporto tra un progetto consapevole e articolato e la funzionalità di uno spazio: un ospedale progettato bene può essere più funzionale di un altro fatto alla meno peggio; per il teatro, però, il problema della progettazione non può essere affrontato razionalmente. Non si tratta di stabilire in modo analitico quali requisiti siano necessari e il modo migliore per organizzarli, perché è inevitabile che il risultato sia una sala anonima, convenzionale, spesso fredda. La scienza della costruzione teatrale deve fondarsi sulla ricerca degli elementi in grado di stimolare un rapporto tra le persone il più vivido possibile. Può essere d’aiuto l’asimmetria o addirittura il disordine? E se così fosse, qual è la regola di questo disordine? Invece di costruire un modello sulla base di un progetto preparato con regolo e compasso, un architetto se la caverebbe molto meglio se lavorasse come lo scenografo e, seguendo il proprio intuito, spostasse qua e là pezzettini di cartone. Se ci si rende conto che il letame è un buon concime, è inutile essere schifiltosi; se il teatro ha bisogno di una certa crudezza, dobbiamo accettare che il suo terreno naturale sia composto anche di questo. Agli inizi della musica elettronica, alcuni studi di registrazione tedeschi dichiararono di essere riusciti a ricreare tutti i suoni emessi dagli strumenti naturali, per di più migliorandoli. Presto, però, si accorsero che quei suoni erano tutti caratterizzati da una sorta di uniforme sterilità. Analizzarono, allora, i suoni prodotti da clarinetti, flauti, violini e notarono che ogni nota conteneva una dose molto elevata di puro rumore: lo sfregamento dell’archetto o un misto di respirazione e rumore dell’aria nel legno. Per un purista quello era soltanto un suono sporco, ma i compositori si sentirono in dovere di creare uno sporco sintetico per rendere più “umane” le loro composizioni. Gli architetti sono sordi a questo principio e in tutte le epoche le esperienze teatrali più vitali si sono tenute fuori dagli spazi ufficiali. Gordon Craig per mezzo secolo ha influenzato l’Europa con un paio di rappresentazioni date nella sala di una chiesa di Hampstead. La firma del teatro di Brecht – la tenda bianca a mezza altezza – nacque da un’esigenza molto pratica quando in una cantina vi fu bisogno di tirare un filo da una parete all’altra. Il Teatro Ruvido è vicino alla gente. Può trattarsi di un teatro di marionette o di uno spettacolo d’ombre, come avviene ancora oggi nei villaggi greci: di solito la sua caratteristica è l’assenza di ciò che siamo soliti definire stile. Lo stile richiede agio e tempo: veicolare un significato in condizioni precarie, invece, equivale a quando, durante una situazione rivoluzionaria, qualsiasi oggetto capitato tra le mani può trasformarsi in un’arma. Il Teatro Ruvido non seleziona, non sceglie. Se il pubblico è irrequieto, va da sé che è meglio rimbeccare con qualche strillo i responsabili della confusione o improvvisare una gag piuttosto che tentare di salvaguardare l’unità di stile della scena. Nel lusso di un teatro di alta classe può pure esservi un’unità, ma nel teatro ruvido per evocare una battaglia si batte contro un secchio e per mostrare volti sbiancati dalla paura si ricorre alla farina. L’arsenale non ha limiti: gli “a parte”, i cartelli, i riferimenti ad argomenti d’attualità, le battute tipiche del luogo, gli incidenti, le canzoni, il ritmo, il rumore, i contrasti, la stringatezza dell’esagerazione, i nasi finti, i personaggi tipo, le pance imbottite. Il teatro popolare, affrancato dalla ricerca dell’unità di stile, si avvale in realtà di un linguaggio molto sofisticato e stilizzato: il pubblico popolare di solito non ha alcuna difficoltà ad accettare incongruenze tra l’intonazione i costumi, a seguire i passaggi dal mimo al dialogo, dal realismo all’evocazione. Il pubblico segue il filo della narrazione e non si rende conto che tutta una serie di convenzioni sono infrante. Martin Esslin in un suo scritto racconta quando a San Quentin alcuni carcerati assistettero, per la prima volta in vita loro, a una rappresentazione teatrale – si trattava di Aspettando Godot – non ebbero alcuna difficoltà a seguire quel dramma che per un pubblico abituato ad andare a teatro era incomprensibile.
Uno dei pionieri del movimento che tentò di di rinnovare le messe in scena shakespeariane fu William Poel. Una volta un’attrice mi raccontò di avere lavorato con Poel in un’edizione di Molto rumore per nulla, rappresentata una sera soltanto, una cinquantina d’anni fa, in una lugubre sala di Londra. Mi spiegò che il primo giorno di prove Poel era arrivato con una scatola piena di pezzi di carta, da cui aveva estratto una massa di fotografie, disegni, immagini ritagliate da riviste. “Questa sei tu”, le disse porgendole la fotografia di un’esordiente al Royal Garden Party. Ad altri dette l’immagine di un cavaliere armato o di un ritratto di Gainsborough oppure un cappello. Esprimeva così, con grande semplicità, come si era figurato la commedia quando l’aveva letta e lo faceva in modo diretto, come avrebbe fatto un bambino, non un adulto che ricorre alle proprie nozioni di storia su una determinata epoca. La mia amica mi disse che quel misto di arte pre-pop aveva una straordinaria omogeneità. Non ne dubito. Poel fu un grande innovatore e si rese perfettamente conto che la coerenza non ha niente a che vedere con il vero stile shakespeariano. Quando misi in scena Pene d’amor perdute, al conestabile Dunn feci indossare il costume di un poliziotto vittoriano perché associai subito il suo nome alla tipica figura del poliziotto londinese. Per motivi diversi i costumi degli altri personaggi erano in stile settecentesco alla Watteau, ma nessuno avvertì l’anacronismo. Tanti anni fa vidi un’edizione de La bisbetica domata in cui gli attori si erano vestiti esattamente come si figuravano i loro personaggi; ricordo ancora un cow-boy e un grassone che faceva saltare i bottoni del suo costume da paggio. Fu senz’altro la migliore realizzazione della commedia che abbai mai visto. E’ evidente che a dare mordente alla ruvidezza è soprattutto la trivialità. La sporcizia e la volgarità sono naturali, l’oscenità è gioiosa: grazie a queste caratteristiche lo spettacolo assolve il suo ruolo sociale liberatorio, perché il teatro popolare, per natura, è contro l’autorità, la tradizione, la pompa, la pretenziosità. E’ il teatro del rumore e il teatro del rumore è il teatro dell’applauso.
[...]
In televisione hanno dato due versioni dell’Ubu Roi di Jarry, che mostravano perfettamente la differenza tra la tradizione popolare e la tradizione artistica. Quella della televisione francese era un trionfo di virtuosismi elettronici. Il regista era riuscito in modo magistrale a creare con attori in carne e ossa l’effetto di marionette bianche e nere. Lo schermo era diviso in tante strisce per dare l’impressione di un fumetto. Per i personaggi di Padre e Madre Ubu si era avvalso dei disegni di Jarry e li aveva animati; erano degli Ubu alla lettera, ma non avevano vita. I telespettatori non accettarono la cruda realtà della storia: quelle marionette che piroettavano li lasciarono per perplessi e annoiati; così, spensero il televisore. Quel dramma di protesta era diventato un gioco intellettuale. Più o meno nello stesso periodo la televisione tedesca mandò in onda le riprese di una produzione cecoslovacca di Ubu. Una versione che non teneva conto in alcun modo delle immagini o delle indicazioni di Jarry, ma inventava uno stile molto personale e aggiornato di arte pop fatto di secchi per l’immondizia, spazzatura e vecchie lettiere in ferro battuto: Padre Ubu non era un Humpty-Dumpty mascherato, ma uno zoticone ambiguo; Madre Ubu una puttana trasandata e attraente. Il contesto sociale era chiaro. Fin dalla prima inquadratura – Padre Ubu, in mutande, scendeva a fatica dal letto mentre lei, sprofondata tra i cuscini, con voce lagnosa gli chiedeva perché lui non fosse il re di Polonia – il pubblico prese per buona la scena e riuscì a seguire gli sviluppi surrealistici della storia, perché aveva accettato la situazione di partenza e i personaggi così come erano presentati.
Tutto, fin qui, ha a che vedere con l’aspetto più superficiale della ruvidezza. Ma qual è l’intento di questo teatro? La sua principale ragione d’essere è quella di provocare gioia e risate, senza vergognarsene. Tyrone Guthrie lo definisce il “teatro del piacere”; e un teatro che riesce a procurare un piacere vero merita comunque il diritto di esistere. Un lavoro serio, impegnato e approfondito deve andare di pari passo con l’irresponsabilità. Questo può darci il teatro commerciale, il teatro di boulevard, ma troppo spesso è fiacco, trito e ritrito. Il divertimento ha sempre bisogno di una nuova carica elettrica: il divertimento in sé non è impossibile, ma raramente è sufficiente. La sua carica potrebbe essere la frivolezza: il buon umore può creare una forte corrente d’energia, ma le batterie devono essere ricaricate continuamente; ci vogliono sempre volti nuovi, idee nuove. Una nuova battuta lì per lì funziona, ma dopo un po’ diventa la ripetizione di quella già nota. Una commedia solida ha radici nell’archetipo, nella mitologia, in situazioni basilari ricorrenti e non può che essere profondamente ancorata alla tradizione sociale. Ma non sempre il tema sociale è l’elemento portante; la sua sorgente principale, infatti, sembra diramarsi in tante tradizioni comiche diverse e altrettante direzioni; il filone, anche se il tema è stato perso di vista, per un certo tempo si perpetua; poi un giorno, all’improvviso, si esaurisce.
[...]
Possiamo così vedere il duplice aspetto del teatro ruvido: se il sacro è l’anelito all’invisibile attraverso le sue incarnazioni visibili, anche il ruvido è un impulso dinamico verso un certo ideale. Entrambi i teatri traggono linfa dalle aspirazioni vere e profonde del loro pubblico, ambedue liberano risorse di infinita energia; sono energie diverse, ma alla fine ambedue tracciano i confini entro cui certe cose semplicemente non sono ammesse. Se il teatro sacro crea un mondo in cui una preghiera è più reale di un rutto, il teatro ruvido fa esattamente l’opposto: ruttare è reale e pregare è comico. Il Teatro Ruvido sembra non avere stile, convenzioni, limiti; in realtà ha tutte e tre le caratteristiche. Come nella vita indossare vecchi abiti può iniziare come una provocazione e finire per essere una posa, così anche la ruvidezza può diventare fine a se stessa. Il provocatore del teatro popolare può essere così radicato nelle cose terrene da impedire al suo materiale di spiccare il volo. Può addirittura negare che vi sia la possibilità di volare o che il cielo sia un luogo ameno in cui vagare. E’ qui che Teatro Sacro e Teatro Ruvido si rivelano antagonisti. Il Teatro Sacro si occupa dell’invisibile e questo invisibile contiene tutti gli impulsi nascosti dell’uomo. Il Teatro Ruvido tratta delle azioni degli uomini e giacché ha i piedi per terra ed è diretto, giacché ammette la cattiveria e la risata ed è alla portata di tutti, sembra migliore del sacro impalpabile.
E’ fondamentale, a questo punto della nostra analisi, soffermarsi sul ruolo svolto da uno degli uomini di teatro più incisivi, più influenti, più radicali del nostro tempo: Bertold Brecht. Nessuno che si occupi seriamente di teatro può ignorarlo. E’ la figura chiave della nostra epoca e oggi non vi è lavoro teatrale che a un certo punto non comici o non riprenda dalle sue teorie e dai suoi traguardi. Basti il termine da lui ideato ed entrato nel nostro vocabolario – “straniamento” – per capire che la sua figura deve essere analizzata sul piano storico. Brecht iniziò a lavorare quando in Germania su gran parte dei palcoscenici imperversavano il naturalismo o gli assalti violenti di un grandioso teatro totale di natura melodrammatica, che mirava a travolgere lo spettatore sul piano delle emozioni e a fargli dimenticare completamente se stesso.
Brecht riteneva che un teatro necessario non potesse mai, nemmeno per un istante, perdere di vista la società di cui è servitore. Tra attori e pubblico non vi era una quarta parete; l’unico scopo dell’attore era di stimolare nello spettatore, nei cui confronti nutriva totale rispetto, una reazione precisa. Fu questo rispetto che indusse Brecht a introdurre il concetto di straniamento, che è un invito alla pausa. Straniamento vuol dire tagliare, interrompere, mettere in luce qualcosa e riproporla al nostro sguardo. Lo straniamento è innanzi tutto un appello allo spettatore affinché s’impegni in un lavoro personale, affinché si assuma sempre più la responsabilità di accettare in odo adulto, soltanto se ne è convinto, ciò che vede. Brecht rifiuta la concezione romantica secondo cui in teatro torniamo a essere tutti bambini.

[...]

Ho già accennato alle messe in scena nella Germania del dopoguerra. In una soffitta di Amburgo una sera assistetti a un’edizione di Delitto e Castigo; fu una tirata di quattro ore in cui vissi una delle esperienze di teatro più straordinarie della mia vita. La necessità, nient’altro, aveva fatto svanire tutti i problemi di stile teatrale: eccola qui la vera corrente principale, l’essenza di un’arte che ha origine dal cantastorie che osserva il pubblico intorno a sé e comincia a parlare. Tutti i teatri della città erano stati distrutti, ma lì, in quella mansarda, un attore seduto su una sedia che quasi toccava le nostre ginocchia iniziò pacatamente a dire: “Fu nel ’18 che un giovane studente, Roman Rodianovi? Raskol’nikov...” Fummo rapiti da un teatro vivente.
Rapiti. Che cosa significa? Non saprei. So soltanto che quelle parole e quel tono di voce docle e insieme serio rievocarono in tutti noi un qualcosa che arrivava chissà da dove. Eravamo ascoltatori bambini attenti al racconto di una favola della buona notte ma anche adulti perfettamente consapevoli di tutto quello che stava accadendo. Subito dopo una porta si aprì scricchiolando a pochi centimetri da noi; l’attore che interpretava Raskol’nikov apparve e noi fummo travolti dal dramma. Quella porta un istante pareva evocare perfettamente un lampione, l’istante successivo diventava la soglia dell’appartamento dell’usuraia e subito dopo la porta della sua stanza. Erano frammenti di impressioni che si animavano soltanto quando servivano e subito dopo svanivano, quindi non perdemmo mai di vista il fatto di essere tutti stipati in una stanza a seguire una storia. Il narratore era libero di aggiungere dettagli, spiegare e filosofeggiare; gli attori stessi potevano passare da una recitazione naturalistica al monologo o, incurvandosi appena, scivolare da una caratterizzazione a un’altra. Così, punto dopo punto, tocco dopo tocco, colpo dopo colpo, fu ricreato tutto il complesso universo del romanzo di Dostoevskij.
[...]
Non dobbiamo comportarci come se la fase della necessità di un ridimensionamento fosse conclusa. Al contrario, ovunque nel mondo, per salvare il teatro, dobbiamo eliminare quasi tutto del teatro. Il processo è appena iniziato e forse non avrà mai fine. Il teatro ha bisogno di una propria rivoluzione permanente. Ma sarebbe criminale una distruzione arbitraria, perché provocherebbe una reazione violenta e una confusione ancora maggiore. Se demoliamo un teatro pseudo-sacro, evitiamo però con tutte le nostre forze di raccontarci che il bisogno del sacro non è più di moda e che i cosmonauti hanno provato una volta per tutte che gli angeli non esistono. Se poi non ci soddisfa la vacuità di gran parte del teatro dei rivoluzionari e di chi fa propaganda, non per questo dobbiamo ritenere che il bisogno di parlare della gente, del potere, dei soldi e della struttura della società sia una moda passeggera.
Se il nostro linguaggio deve corrispondere alla nostra epoca, dobbiamo anche accettare che oggi la ruvidezza è più viva e la sacralità è più morta che in passato. Un tempo il teatro poteva iniziare come magia, la magia degli spettacoli sacri o la magia svelata dalle luci della ribalta. Oggi è esattamente l’opposto. Il teatro non è richiesto più di tanto ed è difficile che si dia fiducia a chi vi lavora. Non possiamo quindi aspettarci che il pubblico si raccolga con animo devoto e attento. Spetta a noi catturarne l’attenzione ed essere convincenti.
Dobbiamo quindi dimostrare che non vi saranno trucchi, che niente sarà nascosto. Dobbiamo aprire le nostre mani vuote e far vedere che nelle maniche davvero non nascondiamo nulla. Allora soltanto potremo iniziare.