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Da madre a madre - Sindiwe Magona



lunedì 12 novembre 2007 legge Miriam Traversi
E’ il 93 e una studentessa bianca viene uccisa per sbaglio in Sud Africa durante una manifestazione di studenti neri.. Dal bisogno profondo di far comprendere le ragioni di chi vive in un mondo condizionato dall’apartheid, nasce l’idea del racconto, nella forma di lunga lettera in cui Sindiwe/Mandisa scrive alla madre della vittima per chiedere perdono e comprensione ma anche per interrogarsi sulle responsabilità personali e collettive.
Per quanto arduo possa sembrare il confronto con la nostra società, il tema della responsabilità educativa ci accomuna tutti, soprattutto come operatori della scuola, formatori e cittadini. Per questo ci riconosciamo in questa storia drammatica e coinvolgente; per questo il messaggio dolorosamente lucido del libro può essere valido per ciascuno di noi, per leggere con compassione quanto ci viene raccontato ma anche per capire, con lungimiranza, quanto si può e si è chiamati a fare per una società più giusta e solidale.
“Da madre a madre” è il primo romanzo della scrittrice sudafricana tradotto in italiano dalla piccola e coraggiosa casa editrice Gorèe.


Sindiwe Magona, Da madre a madre, Edizioni Gorée, 2006, trad. it M.R. Contestabile. 
I

IL LAMENTO DI MANDISA

Mio figlio ha ucciso tua figlia.
La gente mi guarda come se fossi stata io. I più magnanimi come se glielo avessi chiesto io. Come se fossi in grado di fargli fare qualcosa, a quel ragazzo. A cominciare da quando aveva meno di sei anni, persino prima di perdere il primo dentino o di andare a scuola. A cominciare, ad essere onesti, da ancor prima che fosse concepito, quando, senza nessuna considerazione, anzi forse per pura malignità, si insediò nel mio ventre. Ma ora la gente mi guarda come se fossi io a svegliarmi un giorno shushu e a dire: ragazzo mio, esci e vedi se riesci a trovare, da qualche parte, una ragazza bianca senza niente di meglio da fare che andarsene in giro per Guguletu.
E senti, visto che ci sei, figliolo, guarda, se è americana tanto di guadagnato! Come se essere americana fosse un marchio o un’etichetta che le si potesse leggere in faccia. Come se lui uscendo, valutati i pro e i contro, l’avesse scelta con estrema attenzione perché era lei, perché era fatta proprio in quel modo.
Chi mi critica sembra pensare che, grazie a questa perfetta intesa tra madre e figlio, non avrei avuto bisogno di aggiungere nemmeno una parola. Sarebbe stato naturale per lui sapere quello che volevo, quello che volevo facesse.

Dovrei avere un ragazzo davvero ubbidiente! Perchè, secondo loro, avrebbe fatto quello che ha fatto se fosse un tale agnellino, un figlio modello?
Lo dico con sincerità, non mi ha sorpreso che abbia ucciso tua figlia. Questo non significa che mi abbia fatto piacere. Non è giusto ammazzare.
Ma devi capire il mio ragazzo. Allora capirai anche perché non mi meraviglia quello che ha fatto. Niente di quello che fa mio figlio mi sorprende più. Non dopo quel primo brutto colpo, quando si è impiantato dentro di me, distruggendo totalmente e senza alcune ragione quello che ero, quello che sarei potuta diventare.
Da molto tempo so che un giorno avrebbe potuto uccidere. Mi sorprende però che non abbia ammazzato uno dei suoi amici o perfino uno degli altri miei figli. Certo ha avuto buon senso a non provarci col fratello più piccolo. Lui lo avrebbe mandato all’altro mondo prima, con la sola forza delle mani. E forse sarebbe stato meglio così. Se fosse successo, infatti, lei oggi sarebbe ancora viva. Anche se, però, sarebbe sempre esistita la possibilità che un altro di questi mostri in cui si sono trasformati i nostri figli la uccidesse. Qui a Guguletu, o a Langa, oppure a Khayelitsha. Oppure in qualsiasi altra lontana township di questo enorme paese.
Voglio farti una domanda, però: cosa ci faceva in giro per Guguletu, con tutti i posti che ci sono al mondo; perché spingersi in un luogo che non era certo fatto per una come lei? Dove credeva di andare? Era cieca per non vedere che qui non c’era nessun bianco?
Sì più ci penso e più mi persuado che tua figlia fosse il tipo di persona che quando è convinta di ciò che fa perde completamente il senso del pericolo. Questa era la sua debolezza, me ne rendo conto ora. Quante giovani sudafricane bianche c’erano qui a Guguletu il giorno in cui è stata uccisa? Si vedono forse girare in automobile per questa township come se andassero al mercato? Ma le persone come tua figlia non hanno l’istinto della paura. Sono così sicure della propria bontà, sanno di non avere fatto male a nessuno, anzi, al contrario, aiutano il prossimo e non pensano che qualcuno possa prendersela con loro.
Sono pronta a scommettere qualunque cosa che, se mai si è sentita minacciata, ha visto il pericolo provenire dalle autorità, che avrebbero potuto ostacolarla e intralciarla nei suoi progetti o, in qualche modo, addirittura impedirle di portarli a termine.
Per le persone come tua figlia, fare del bene in questo mondo è una pulsione irresistibile, violenta e innata. Mi domando se addirittura non offuschi i loro sensi.
Credi che ci sarebbe stato tutto questo scandalo se mio figlio, invece, avesse ucciso una delle altre donne che erano con lei? A quest’ora lui sarebbe qui, come le centinaia di assassini che girano in lungo e in largo per Guguletu. Ma lui non ha mai avuto buon senso. Neanche un briciolo ce n’è in quel testone che gli pesa così tanto sulle spalle da incurvarle. Dentro c’è solo acqua. Che peccato. Con tutti gli anni che ha vissuto non ha imparato niente? Non sapeva che l’avrebbero crocefisso per avere ucciso una bianca?
E tua figlia non è andata a scuola? Non ha visto che questo è un posto per neri? E poi, dov’era finito il suo senso del pudore? Non era imbarazzata a stare qui, non si sentiva un pesce fuor d’acqua? Avrebbe dovuto considerarlo un avvertimento; doveva stare alla larga. Non era un luogo adatto a lei. Oh, ma perché non se ne è tenuta lontana? Perché non se ne è tenuta lontana?
I bianchi vivono nei loro quartieri e si fanno i fatti loro, punto. Noi viviamo qua, lottiamo e ci ammazziamo tra noi. Questi sono fatti nostri. Sui giornali non si vedono titoli a grandi lettere se, qui nelle township, uno di noi uccide un altro do noi. Ma il caso del mio ragazzo è diverso, me l’ha mostrato perfino la mia signora. La storia era ovunque. E anche le fotografie.


E’ una strada lunga e difficile quella che ha percorso il mio ragazzo. E tua figlia ha pagato per i peccati di tutti quei padri e quelle madri che non hanno fatto la loro parte, non si sono resi conto che mio figlio aveva una vita degna di essere vissuta.
Perché adesso il governo gli paga il cibo, i vestiti, il tetto che ha sopra la testa? Dov’era il governo il giorno in cui mio figlio ha rubato la gallina del vicino, le ha tirato il collo e l’ha cucinata, con le piume e tutto il resto, perché in casa non c’era niente da mangiare e io ero via, ad accudire i figli della famiglia bianca per cui lavoravo? Mi avevano chiesto di rimanere per il fine settimana, loro avevano un’emergenza, la mia era di non avere potuto avvertire i miei piccoli che sarebbero stati soli, di non avere potuto lasciare loro abbastanza da mangiare per quando non c’ero, di non avere potuto telefonare per avvisarli del cambiamento di programma. A quel tempo chi aveva il telefono a Guguletu? E perché l’assegnazione dei telefoni avrebbe dovuto cominciare da una nullità come me?
Perché, ora che è un reietto, mio figlio ha un tetto degno di questo nome sulla testa, come non l’ha mai avuto in vita sua?…e vive una vita migliore, anche se in catene? Non capisco perché ilo governo adesso gli dia così tanto, quando non gli ha dato un bel niente per tutta la vita.
Signore, tu leggi nel mio cuore. Non sto dicendo che mio figlio non debba essere punito per il peccato che ha commesso. Ma sono una madre e ho un cuore di madre. Il calice che tu mi hai dato è troppo amaro da bere. La vergogna. Il dolore dell’altra madre. La ragazza la cui vita è stata stroncata così presto. Signore, ti prego, perdona mio figlio. Perdonagli questo terribile, orrendo peccato.
[…]

Senza il minimo rumore la portiera posteriore della vettura si aprì.
“Sali, mamma”, disse una voce dall’interno. Era profonda e aspra. Di sicuro non una voce femminile. In ogni modo, la donna che mi aveva chiesto indicazioni stradali mi stava guardando e aveva le labbra serrate.
Mi avvicinai all’automobile.
“Sali, mamma”, ripetè la donna sorridendo, senza dubbio divertita dalla mia perplessità.
Salii. Accovacciato sul sedile posteriore c’era un uomo con un paio di scarpe da ginnastica bianchissime e una tuta nera. Il volto era quasi completamente nascosto dietro un passamontagna scuro. Non appena la macchina si avviò rombando, l’uomo si mise seduto facendomi spazio.
Non so dire quanti giri e deviazioni fece l’automobile. Iniziai a domandarmi se la donna, che dopo fossi.
Finalmente ci fermammo.
“Ecco, questa è la casa”, disse l’uomo accanto a me.
“Quale casa?”, chiesi.
“Quella dove ci hanno detto di portarti, no?”. La donna seduta da sola sul sedile anteriore finalmente aveva parlato.
“Oh”, dissi, mentre con qualche difficoltà cercavo di scendere.
Appena chiusi la portiera, l’automobile sfrecciò via,
Guardai la casa. Le finestre sul davanti avevano delle tende arancione. Erano chiuse. All’interno c’era qualcuno? Feci un bel respiro profondo e mi incamminai verso il cancello, lo aprii e salii sulla veranda rossa, tirata a lucido. Arrivai alla porta e sollevai la mano per bussare.
“Avanti!”, pronunciò in fretta qualcuno e la porta, senza il minimo rumore, girò sui cardini.
Sorpresa dalla pronta accoglienza, lasciai che i piedi mi trasportassero dentro la casa dove, potevo chiaramente notare, ero attesa. La casa dove temevo potesse trovarsi mio figlio. Perché? Perché si nascondeva? Perché qui, in questa casa? Che casa era e chi erano le persone che mi ci avevano condotto? Tutte quante, dal Mfundisi ai due che mi avevano appena lasciato qui davanti?
Due uomini erano in piedi vicino al tavolo al centro della stanza. La donna stava ancora tenendo aperta la porta.
“E’ arrivata proprio mente ce ne stavamo andando – disse.- Prego, si accomodi -. Mi mostrò un divano verde scuro vicino alla finestra appoggiato alla parete.- Si segga e aspetti”.
A quelle parole gli uomini mi salutarono con un cenno del capo e, senza aggiungere altro, uscirono tutti e tre, lasciandomi sola.
Era chiaro che mi aspettavano. Nessuno mi aveva chiesto chi fossi e cosa volessi. Mi appollaiai sul divano sedendomi in pizzo come se, da un momento all’altro, qualcuno potesse strapparmi via di lì.
Sì, ero attesa. Ma adesso ero sola in casa. Cosa sarebbe successo, mi chiesi. Il Mfundisi avrebbe fatto un’altra delle sue apparizioni a sorpresa? In realtà, mi aspettavo quasi di vederlo spuntare. Infatti presto mi resi conto di avere le orecchie tese, pronte a captare il ronzio di un’automobile che si fermava e, subito dopo, il suo saluto cordiale. Bè, questa volta, quando fosse venuto sarei stata pronta. C’erano alcune domande che avrei proprio voluto rivolgergli.
Rimasi seduta per una buona mezz’ora. Da sola. Non sembrava esserci anima viva in quella casa. Tutto era immobile. Non si sentiva neanche un topo correre sul pavimento. Aspettai, gli unici suoni erano il mio respiro nervoso e il battere del mio cuore. Aspettai, mentre la curiosità per non parlare dell’agitazione, cresceva sempre di più. Quando sentii la porta che si apriva feci un balzo. Una porta interna. Anche se nessuno me l’aveva detto, ero giunta alla conclusione di essere sola. Evidentemente mi ero sbagliata.
All’improvviso la stanza si mise a girare. Feci un respiro profondo, sforzandomi di cancellare la sensazione di stordimento.
Mxolisi. Era vestito con abiti che non conoscevo ed era pulito, anche se sembrava avere almeno una settimana di sonno arretrato.
“Sei sola? Sei venuta sola?”, chiese, lanciando da tutte le parti occhiate cariche di ansia. Ancora non ci eravamo nemmeno salutati.
“Sì, sono sola”. Ci guardammo, eravamo alle due estremità opposte della stanza.
Un momento dopo lui era tra le mie braccia. O io tra le sue. A volte è difficile dirlo, soprattutto dopo che sono diventati tanto alti. I bambini che solo ieri portavamo sulle spalle. Adesso sono uomini e donne. Adulti.
Non so chi abbia iniziato a piangere. Ma prima che ci scambiassimo un’altra parola, le guance così vicine, bagnate di lacrime di una tristezza inconfessata, sapevo che eravamo nei guai fino al collo. Non mi ricordavo più quando era stata l’ultima volta che avevo visto mio figlio piangere.
“Che succede? -,chiesi stendendo le braccia e allontanandolo da me. Lo guardai. –Perché non sei venuto a casa ieri sera? Cosa significa tutto questo? Perché la polizia ti cerca e perché così tanta gente si dà tanta pena per nasconderti?”
Le lacrime ormai gli scorrevano lungo il viso, lacrime senza vergogna, lacrime sincere. Mi guardò. Nei suoi occhi c’era una paura infinita.
“Mxolisi, da cosa ti nascondi? Da cosa stai scappando?”.
“Dicono che sono stato io, mamma!”
Perfino allora, non compresi subito tutto l’orrore.
“Hanno detto che sei stato tu? Chi l’ha detto?”
“Tutti. Anche la polizia”.
Un vago campanello d’allarme iniziò a risuonare da qualche parte nei più profondi recessi della mia mente. La domanda che inconsapevolmente avevo evitato di rivolgergli, mi si presentò pressante sulle labbra.
“Hanno detto che sei stato tu a fare cosa? Di che cosa ti accusano? Utyholwa ngantoni?”.
Piano piano, dopo varie esitazioni, venne fuori la storia dell’aggressione a tua figlia.L’atto terribile accaduto il giorno prima. Mio figlio mi raccontò:
“Mamma, credimi, sono stato solo uno in mezzo a cento ad aver tirato pietre alla sua macchina”.
“Però -, dissi, guardandolo dritto negli occhi, con le parole di Skonana che mi risuonavano ancora nelle orecchie,- è stata uccisa con un coltello”. Ascoltai me stessa pronunciare quelle parole; le parole che la vicina aveva detto, mi sembrava, anni luce prima. Il pugno colpì la mano leggermente a coppa. Pum! Lo sentivo ancora.
Per un lungo, lunghissimo minuto Mxolisi non rispose.
“Allora?”.
Alla fine, dopo un profondo sospiro, disse:
“Anche quello, mamma, anche quello…-, poi si fermò
Seguì una pausa piuttosto lunga che non ebbi la forza di riempire, di interrompere, prima che continuasse: - …l’hanno pugnalata in tanti”.
Di nuovo lo guardai, mentre il mio cuore martellava all’unisono un migliaio di preghiere in tutte le direzioni.
“Sei stato uno di loro? Uno dei tanti che hanno pugnalato la ragazza?”. E quanto pregai, perfino nel momento in cui gli rivolsi la domanda, quanto pregai che la risposta fosse un inequivocabile NO. No, aveva lanciato delle pietre contro l’automobile. Ed era l’unica cosa che aveva fatto. Il coltello no. Non aveva affondato un coltello nel corpo di lei. Nemmeno uno tra i tanti, tantissimi coltelli.
Ma mio figlio non rispose alla domanda diretta. Neanche dopo che gliela ripetei, non una, non due, ma tante, tantissime volte. Dalle labbra di mio figlio non uscì nessuna risposta con cui negava di avere accoltellato la ragazza uccisa. La aspettai a lungo, ma non arrivò. Dopo un po’, col cuore affranto, capii che non avrei ascoltato quello che così urgentemente, così disperatamente, così ardentemente, avevo pregato di poter ascoltare.
Infine dissi quello che doveva essere detto: “Lo hai fatto? Sei stato tu a uccidere la ragazza bianca? E’ stato il tuo coltello ad ammazzarla?”.
A quel punto non sapevo più, lo giuro, quello che volevo che dicesse.
Ma mio figlio non rispondeva. Si limitò a guardarmi con quegli occhi velati da una paura così profonda, così grande, che neanche le bugie avrebbero potuto nascondere, a me…a lui stesso.
“Non sono stato io, mamma. Te lo giuro, non sono stato io!”. Singhiozzava. Singhiozzi profondi, strazianti, che sembravano squarciarlo.
Senza dire una parola, lo presi tra le braccia e mi accasciai sul divano. Lo lasciai piangere finchè i singhiozzi non divennero rantoli come di qualcuno a cui manca l’aria. Dopo, il pianto si acquietò. Alla fine, con la sua testa appoggiata sulle mie ginocchia, mi ritrovai con la gonna zuppa.
Trascorso un bel po’ di tempo, capii che si era calmato. Per qualche motivo che non so dire, ci trovammo di nuovo in piedi, uno di fronte all’altra, esaminandoci a vicenda.
“Perché?”, gli chiesi. Ero calma, non c’era alcun rimprovero nella mia voce. Non c’erano accuse. Glielo chiesi soltanto perché non capivo come fosse potuta accadere una cosa del genere. Come lui, Mxolisi, avesse potuto fare parte di quella cosa…in qualche misura, grande o piccola.
“Perché?”.
“Ho detto che non sono stato io, mamma!”, il tono alto di voce lasciava trapelare una nota di rabbia.
Rabbia? Contro di me? Cosa avevo fatto?
“Allora perché tutti puntano il dito contro di te?”.
Nessuna risposta.
Di nuovo gli chiesi:”Perché tu? Perché tutti indicano te? Perchè tutti dicono che sei stato tu a commettere questa cosa orrenda?”.
Alla fine, dopo avergli rivolto più volte la stessa domanda formulandola in vari modi, Mxolisi esclamò: “Non ero l’unico ad essere là!”.
“Ti rendi conto che non tornerà più? Morta significa per sempre. Lo capisci? Lo capisci?”. Adesso ero io che singhiozzavo isterica.
“Mamma, non ero l’unico a essere là!”, gridò. Questo non fece che farmi infuriare di più. Avevo una gran paura. Per lui. Per me. Per tutti noi: suo fratello, sua sorella, Dwadwa. Ero terrorizzata al pensiero di quello che ci avrebbe riservato l’indomani. Ora, naturalmente, la visita della polizia a casa nostra assumeva un significato, un significato terribile. Cercavano un…un… Il terrore di prima ritornò, amplificato dalle nuove circostanze, dalla consapevolezza che mio figlio sarebbe stato arrestato. La polizia, in questo momento esatto, stava cercando un… stava cercando lui. Sarebbe stato accusato di omicidio. Mi rifiutai di pensare alle conseguenze. Mi rifiutai anche di immaginare cosa sarebbe accaduto dopo il processo.
“Oh, che idiota -, gridai, a pezzi. – Ti rendi conto di quello che hai fatto? Ti rendi conto che se il tuo coltello è sporco di sangue, non conta niente se l’hai colpita solo al pollice! Te ne rendi conto? Mxolisi, te ne rendi conto?”.
Per una frazione di secondo, una babilonia di emozioni avvolse tutto il mio essere, si impadronì di me. Solo emozioni, nessun pensiero, nessun tipo di pensiero. In che stato mi Trovavo! Mi muovevo senza direzione in un mare di sentimenti e, tra questi, predominava la paura.
Ci ritrovammo poi abbracciati. Chi era che consolava l’altro? Mentirei se dicessi di saperlo. Mio figlio mi accarezzava la schiena, come se fossi un bambino che stava addormentando. Singulti senza lacrime tormentavano…chi di noi?
Un centinaio di anni dopo, ci sciogliemmo dall’abbraccio. Continuai però a tenergli la mano. Spossata, lo guardai negli occhi.
Non sbattè le palpebre.
Guardai mio figlio negli occhi. E vidi dolore e paura.




II

E adesso, mia sorella-madre, lo aiuto a nascondersi? Lo consegno alla polizia? Gli procuro un avvocato? Questo significa che non condivido la tua tristezza per la tua ragazza assassinata? E che sono tua nemica? O che tu sei mia nemica? Che male ti ho fatto…o tu hai fatto a me?
La vita aveva ancora tanto da darle…
Oh, se solo avesse avuto una briciola di paura! Aveva un domani. Il futuro aveva ancora molto in riserbo per lei. Aveva ancora tante cose da fare, anche se già ne aveva fatte molte.

Ma nel suo paese non c’erano posti così? Posti dove avrebbe potuto compiere del bene, aiutare i deboli e riparare i torti?
E mio figlio? Cosa poteva aspettarsi lui dalla vita?
In quanto a questi eroi che oggi attaccano mio figlio, queste voci indignate che si sollevano, non sono le stesse persone che, soltanto ieri, non facevano che lodarne le virtù? Non faceva parte dei Giovani Leoni che loro osannavano? Non ha fatto quello che loro gridavano perché tutti sentissero?
UN COLONIZZATORE, UNA PALLOTTOLA!
AMABHULU AZIZINJA!
CON I FIAMMIFERI CONQUISTEREMO LA LIBERTA’!
“Tsaa-ah! Avanti!” Abbiamo aizzato il cane. “Tsa-aah!”.
Sa cosa deve fare, inseguire il bersaglio, afferrarlo alla gola. Noi non corriamo pericoli. E’ il cane che mandiamo avanti a rischiare, a potersi far male. O a rimanere ucciso. O a finire in prigione.
Vergogna e rabbia sono le mie compagne inseparabili, giorno e notte. Vergogna per quello che mio figlio ha fatto. Rabbia per quello che gli hanno fatto, Ce l’ho con tutti gli adulti che hanno fatto credere a mio figlio che sarebbe diventato un eroe, un combattente per la patria, se avesse fatto quello che li sentiva chiedere a gran voce, le azioni che elogiavano. Se c’è qualcuno che ha ucciso la tua bambina, ascoltami bene, alcuni dei leader che oggi ti regalano parole di conforto, sono loro, almeno quanto mio figlio, gli assassini di tua figlia. E, sotto vari aspetti, sono più colpevoli di Mxolisi. Loro sapevano, o avrebbero dovuto sapere. Loro erano adulti. Loro avevano studiato. Loro avevano il dono della ragione.


Madre della vittima, dal cuore sanguinante, ci sono alcune cose che devi sapere:
Da allora non ho più dormito. Nella mia bocca il cibo si trasforma in segatura. La felicità ha abbandonato la mia casa e il mio cuore piange, soffre per te, per il dolore che ti ha inferto. E’ oppresso e non conosce riposo.
Altri bambini lanciano pietre contro i miei figli. Puntano dita accusatrici contro di loro. Sono una lebbrosa nella mia comunità.


Ma perfino mentre si sollevano questa voci preoccupate, a chiedere quello che per anni e anni e anni non abbiamo avuto nelle township, gli stessi venti che hanno scavato solchi profondi nell’animo di mio figlio soffiano ancora, anzi, soffiano più forte di prima. Ci sono bambini di tre, quattro anni, oltre a bambini più grandi, che vagano tutto il giorno per le strade di Guguletu senza niente da fare. Quei bambini, proprio come il sole sorge a est e tramonta a ovest, quei ragazzi stanno percorrendo le stesse strade che ha percorso mio figlio.
C’è qualcuno che se ne accorge? Le loro madri se ne rendono conto? Io me ne ero resa conto? L’idea che ogni giorno era la stessa identica cosa se mio figlio si alzava dal letto o rimaneva a dormire mi spaventava?
E la polizia? Come fa a dire, con assoluta certezza, quale dei coltelli piovuti sulla tua povera ragazza l’abbia uccisa? Come fa perfino a dire quale mano teneva quale coltello? Ha ammesso tranquillamente che la ragazza ha ricevuto diverse coltellate. Diverse. Come possono allora dire quale mano ha inferto la coltellata decisiva, il colpo fatale? Non faccio che chiedermi: perché lui? Perché hanno scelto proprio lui in mezzo a quella massa che ha tolto la vita a tua figlia?
Figlio mio! Figlio mio! Che hai fatto? Oh, cos’è questa cosa terribile che hai commesso?
Padre misericordioso, salvami!
Aiutami! Presto, aiutami, Signore, oppure morrò.
Aiutami! Presto, aiutami Signore, fallo subito.


GUGULETU MOLTO PIU’ TARDI

“Chi è?”, domandai.
“Sono io, Mmelwane”, rispose la voce di Skonana.
Sentii gli occhi riempirsi di lacrime. Cosa voleva?
“E non è venuta sola!”, la voce asmatica di Qwati riempì il breve silenzio.
Col dorso della mano mi asciugai le lacrime, poi mi alzai dall’angolo del letto dov’ero seduta, la mente confusa.
“Dove siete?”.
“Sul davanti”, rispose un coro di voci.
Perché la gente non riesce a farsi gli affari propri. Spalancai gli occhi, per evitare che cadessero nuove lacrime. Quando aprii la porta, mi trovai davanti quattro donne. Anche Lindiwe e Yolisa abitavano sulla mia via.
“Ci siamo dette che dovevamo venire -, disse Qwati, - Ne abbiamo parlato, ci siamo chieste se avremmo dovuto aspettare che fossi tu a chiamarci. Ma i giorni sono passati…”
“Chiamarvi?”.
“La nostra gente va a trovare gli altri quando ce n’è bisogno”, disse Lindiwe. Mi accorsi che non vi era imbarazzo nel suo sguardo fisso sui miei occhi. Ma neppure così il mio cuore era tranquillo.
“In questa casa non c’è nessun matrimonio né nessuna festa”:
“Mmelwanw -, si intromise Skonana. – Siamo venute per piangere con te, com’è nelle nostra tradizione, per addolorarci con chi è afflitto dal dolore”.
Non sapevo né cosa dire, né cosa provare. Io non avevo mandato a chiamare le mie vicine. Di solito, sono i lamenti dei parenti del defunto a richiamare i vicini nella casa visitata dalla morte. Sì, c’era stato un morto. Ma ero io a doverlo Compiangere? Sono io a dover essere consolata dalla gente?
“Siamo venute per starti accanto in questo momento”, disse la voce di Yolisa.
E io e le mie vicine parlammo. Fu come lo scoppio di una pustola. Da allora non ebbi più paura degli sguardi degli altri. Negli occhi che mi osservavano non vidi più condanna. Quando qualcuno si tiene lontano da me, non mi dico che è a disagio o che mi sta evitando. E se anche fosse così, so che tra i miei amici c’è chi mi sta vicino, chi comprende il mio dolore.
Sono queste persone a darmi forza. E speranza. Ho sentito che alcune chiese e altri gruppi sono vicini ai giovani e agli adulti. Li aiutano. Per porre fine alla violenza. O almeno per farla diminuire. E’ una bella cosa. Dobbiamo aiutarci tra noi e dobbiamo aiutare soprattutto i bambini. Altrimenti diventeranno un problema per tutti. E tutti ne soffriranno. Prego che ci possa essere chi aiuti anche i ragazzi come Mxolisi. Che possano cambiare e diventare persone migliori.

Oh, Figlio mio! Figlio mio! Cos’hai fatto? Che cosa hai fatto?
Tua figlia. L’imperfetta espiazione della sua razza.
Mio figlio. Rifugio perfetto dei demoni della sua.


Mia sorella-madre, questa tristezza ci accomuna. Né tu, né io, abbiamo scelto il cappotto che porti. Ti pesa sulle spalle, dovrei saperlo. Pesa, Dio sa solo quanto. Non ci è stato chiesto se lo volessimo o no. Non abbiamo scelto, siamo state noi ad essere scelte.
Ma devi ricordarti una cosa, che possa esserti in qualche modo di consolazione, tu non devi mai chiederti: cos’è che non ho fatto per lei? Tu puoi andartene in giro a testa alta. Non hai vergogna, non hai nessun motivo per vergognarti. Hai solo a perdita. La perdita irreparabile. Consolati, però. Consolati, perché la tua perdita non è accompagnata dalla vergogna. Da nessun profondo senso di fallimento. Solo dalla gloria. Indesiderata e non richiesta, lo so. Ma questa deve essere l’origine della tua forza, la fonte della tua speranza, la luce che illumina la profondità della tua disperazione.

…………………………..

….Più o meno a metà strada, tra la stazione di servizio e il secondo gruppo di negozi, meno numerosi di quelli sulla NY110, l’automobile suo malgrado si ferma. Trecento metri più avanti, il semaforo all’incrocio tra la NY1 e la NY108, conosciuta anche come Klipfontein Road, è diventato rosso. Una decina circa i vetture di vario genere, furgoni, camion e automobili, sono davanti alla piccola automobile gialla.
Il gruppetto di Mxolisi chiacchiera oziosamente. Da dov’è, Mxolisi può vedere casa sua e questo lato della centrale di polizia, appena a un centinaio di metri di distanza. Anzi, se volesse salutare una persona che si trova davanti al cancello di casa, questa lo sentirebbe, tanto è vicino. Lo vedrebbe anche, se stesse guardando nella sua direzione e lui gli facesse un segno con la mano.
Tua figlia batte con la mano sul volante. Il canto da tempo si è arrestato. Il motore ronza piano, pigramente.
L’occhiata casuale di un passante. L’accensione immediata.
“KwiMazda! KwiMazda! Kukh’ umlungu kwiMazda! Nella Mazda! Nella Mazda! Nella Mazda c’è una bianca!”.
UN COLONIZZATORE! UNA PALLOTTOLA!
Il grido risuona, inviando un’onda d’urto attraverso la massa di gente cge si trova in questo tratto della NY1. Non ancora una folla. Non c’è niente che li unisca, ma naturalmente l’Operazione Barcellona è nell’aria.
Altri raccolgono il grido, lo ripetono e lo propagano. Il grido riecheggia.
UN COLONIZZATORE! UNA PALLOTTOLA!
La vibrazione sfreccia e si riversa su tutti quelli a portata
d’orecchio. E tutti quelli che la ascoltano si bloccano. Le teste si girano da una parte e dall’altra.
Il grido strappa le donne dalle loro cucine piene di attività, blocca sui loro passi i lavoratori che tornano a casa; i giochi dei bambini si interrompono bruscamente e gli altri autisti fermi controllano che gli sportelli siano ben chiusi.
“Qui! Qui, nella Mazda gialla!”.
L’automobile adesso è stata additata. E’ stata individuata. Notata.
Le stesse urla battezzanti uniscono gli individui e i gruppetti, fino a un attimo prima isolati, in un mostro dall’unica testa. Un gruppo. Una folla con un unico scopo, un unico obiettivo, all’inizio niente affatto sinistro, semplicemente verificare quello che le orecchie hanno sentito, controllare se sia vero. E’ possibile? Come può essere possibile?
Tuttavia, ancora incerti, i ragazzi girano i piedi e si dirigono verso l’automobile additata. La Mazda gialla.
“Non fermarti! Non fermarti!”, la esorta una delle ragazze che tua figlia sta riaccompagnando a casa.
Lumka geme, serrando e dissertando la mascella, chiudendo e aprendo il pugno della mano destra. La mano è calda e sudata.
“Non fermarti!”, la voce della prima ragazza è roca dalla paura.
Tua figlia rigira la chiavetta d’avviamento. Percorre a passo d’uomo la distanza di una vettura parcheggiata. Si ferma. Si ferma perché non può andare avanti, un’automobile le blocca la strada.
UN COLONIZZATORE! UNA PALLOTTOLA!
Il gruppo di Mxolisi, anzi quel che ne rimane, è sordo per non sentire l’urlo? E’ pazzo da non capire le implicazioni? Solo una cosa avrebbe potuto provocare il grido. Una. Da qualche parte, là vicino, deve essere stato individuato un bianco.
Incredibile.
Un bianco. Qui. A Guguletu? Di questi tempi ? Dopo quello che solo ieri è successo a quella donna mlugu a Nyanga? Impossibile! Las maggior parte ignora l’urlo ritenendolo un falso allarme, opera di qualche giovinastro annoiato che vuole agitare le acque.
Ma l’urlo ritorna. Questa volta più forte, si sono aggiunte altre voci.
Il branco corre verso il punto dove il grido è nato, ripetendo all’unisono:” Un colonizzatore, una pallottola”. Anche se ancora non hanno visto cosa abbia originato l’urlo.
UN COLONIZZATORE! UNA PALLOTTOLA!
Il gruppo di Mxolisi si dissolve in un attimo, ognuno corre a tutta velocità verso l’epicentro, cercando l’unica cosa che può saltare agli occhi, la stranezza.
“Ti prego, non fermarti! Ti prego, non fermarti! Continua a guidare!”, gridano i suoi amici stravolti.
Lei pigia sull’acceleratore. L’automobile gialla fa un salto in avanti, emettendo un grugnito di sorpresa. Dopo aver percorso la distanza di tre automobili, tuttavia, si blocca di nuovo. Il motore è acceso, ma non può procedere. Bloccata dall’automobile davanti e da tutte quelle ancora più avanti.
I ragazzi che un attimo fa erano all’angolo tra la NY1e la NY109, hanno raggiunto la folla che circonda l’automobile. Adesso l’urlo è diventato frenetico. Da tutte quelle gole nella folla brulicante arriva senza interruzione:
UN COLONIZZATORE, UNA PALLOTTOLA! UN COLONIZZATORE, UNA PALLOTTOLA!
Nella lunga strada cupa c’è un ingrossamento. Un nodo di teste che si muovono a scatti e serpeggiano, tutte attorno all’automobile gialla. Le mani, all’inizio per gioco, si allungano dentro. Fanno ondeggiare l’automobile. I ragazzi all’interno rabbrividiscono, ma non hanno dove andare. L’automobile è completamente immobilizzata.