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Letture per Paolo



lunedì 26 novembre 2007 leggono vari
A Paolo piaceva moltissimo la Crestomazia di Giacomo Leopardi. Era uno dei suoi progetti, raccoglierne una nuova con i testi migliori, in senso letterario e civile. 
Nell’anniversario della sua morte ci troviamo a leggere – e questo ormai è atto dovuto a lui e connaturato a noi della Bottega che proseguiamo sulle sue indicazioni. Ma questa volta leggiamo per lui quello che per i motivi più diversi e personali un gruppetto di amici – forzatamente ristretto, per questione di misura – ha scelto per dedicarglielo. Sotto a questi testi ci sono tante altre letture, anche silenti e individuali, che non possono più prescindere da Paolo perché dall’incontro con lui si sono germinate. 
E il vuoto di quest’anno già passato non possiamo che, ancora e ancora, cercare di riempirlo dando alla lettura il “pieno” di presenza, di cultura e di partecipazione politica che da Paolo abbiamo raccolto. 

Dedicato a Paolo:

Roberto Di Cecco
Margaret Collina
Andrea Severi
Magda Indiveri
Isa Speroni
Giacomo Bollini
Maria Luisa Vezzali
Andrea Grillini
Roberta Graziani
Giulia Zambonelli
Sandra Soster
Betty Pedrazzo
Giovanna Zunica
Alain Leverrier
Sandro Degli Esposti
Carlo Suzzi
Cesare Bassoli
Lucia Pozzi
Annalisa Bolognesi
Sandra Garulli
Giovanni Catti

E tutti, tutti gli amici della Bottega dell’Elefante.


Ovunque ci volgiamo nella bufera di rose 
La notte è illuminata di spine, e il rombo 
Del fogliame, così lieve poc'anzi tra i cespugli, 
ora ci segue alle calcagna. 
Ingeborg Bachmann, Poesie


Karl Barth, Wolfgang Amadeus Mozart, trad. G. Tron, Ed. Queriniana, Brescia 1991 
LETTERA DI RINGRAZIAMENTO A MOZART*

Basilea, 23 dicembre 1955

Caro Signor Maestro di cappella e Compositore di corte.

Qualcuno ha avuto la bizzarra idea di invitarmi, assieme ad altri, a scrivere per il suo giornale una «lettera di ringraziamento a Mozart». Sulle prime ho scosso la testa, ed ero già sul punto di cestinare la richiesta. Ma quando è di Lei che si tratta, non posso, se non in casi davvero eccezionali, tirarmi indietro. E poi, non è successo anche a Lei, ai Suoi tempi, di scrivere qualche lettera un po’ fuori del comune? [...]
[...] A quel che ho detto di Lei, soltanto gli elogi ricevuti dai competenti potevano riuscirLe, fin dalla Sua fanciullezza, graditi. Come Lei sa, in questa valle di lacrime esistono non solo musicisti, ma anche studiosi di musica. Lei stesso è stato le due cose insieme. Io non sono né l’una né l’altra, non suono alcuno strumento, e della dottrina dell’armonia, come dei segreti del «contrappunto», non ho la più pallida idea. I musicologi, in particolare, di cui ho tentato di decifrare i libri che hanno scritto su di Lei [...], mi lasciano veramente sgomento. D’altronde, considerando i risultati cui sono giunti questi studiosi, temo seriamente che, se fossi giovane e potessi dedicarmi a questi studi, entrerei in conflitto anche con alcuni tra i più eminenti storici Suoi interpreti, a simiglianza di quanto mi è accaduto quarant’anni fa nei riguardi dei miei maestri teologici. Ma comunque sia: come posso, in questa situazione, esprimerLe la mia gratitudine in qualità di conoscitore, recandoLe così piena soddisfazione?
Mi conforta però l’aver letto anche questo, che talvolta Lei avrebbe suonato per ore ed ore al cospetto di persone anche molto semplici, solo perché si sarebbe reso in qualche modo conto della gioia che esse provavano nell’udirLa suonare. Ebbene, è solo con l’orecchio ed il cuore ricolmi di una gioia sempre rinnovata, che io ho sentito e sento suonare la Sua musica. Tale è il mio candore, che di sicuro non saprei dire neppure in quale dei 34 periodi in cui Wyzewa e St. Foix hanno suddiviso la Sua vita e la Sua opera io La sento più vicino a me. Certo, so bene che è verso il 1785 che ha cominciato a manifestarsi tutta la Sua grandezza. Ma penso che non se n’abbia a male, se Le confesso che io ascolto con autentica e sempre rinnovata commozione non soltanto il Don Giovanni e le ultime Sinfonie, non soltanto il Flauto magico e il Requiem, ma anche la Serenata di Haffner, l’undicesimo Divertimento e così via, e perfino, a dire il vero, Bastien und Bastienne; Lei non mi riesce dunque interessante e gradito solo a partire dal momento in cui si può elogiarLa come ‘precursore’ di Beethoven! Ciò di cui Le sono grato, per dirLa schietta, è questo: ogni volta che L’ascolto, i sento trasportato sulla soglia di un mondo che, col sole e nella bufera, di giorno e di notte, è felice e ordinato, e poi, come uomo del XX secolo, mi sento ogni volta infondere coraggio (non orgoglio!), vivacità (non una vivacità esagerata!), purezza (non una purezza stucchevole!), pace (non una pace illusoria!). Con la Sua dialettica musicale nell’orecchio si può si può essere giovani e invecchiare, lavorare e riposare, essere lieti e tristi: in una parola, si può vivere. Ora Lei sa assai meglio di me che per vivere occorre ben altro che la miglior musica. Eppure certa musica, più di altra, aiuta gli uomini (indirettamente e solo in taluni casi!) a vivere. La Sua musica, questo aiuto lo dà. Poiché di ciò io ho avuto esperienza nel corso della mia vita [...] e poiché ritengo che la nostra epoca, che si va facendo sempre più oscura, abbia per l’appunto bisogno del Suo aiuto, io Le rendo grazie perché è vissuto, perché nei pochi, brevi decenni della Sua vita ha voluto essere ed è stato null’altro che un vero musicista, e perché nella Sua musica Lei vive ancora. Creda pure che orecchi e cuori di molte, molte persone, colte od incolte, come sono io, L’ascoltano ancora, e L’ascolteranno sempre, con diletto: non soltanto nell’anno del Suo giubileo!
Di come stiano le cose, a proposito della musica, là dove ora Lei si trova, ho soltanto un’idea molto vaga. Ho però un sospetto, a questo riguardo, che mi è già accaduto di formulare nel modo che segue. Forse gli angeli, quando sono intenti a rendere lode a Dio, suonano musica di Bach, ma non ne sono del tutto sicuro; sono certo, invece, che quando si trovano tra di loro suonano Mozart ed allora anche il Signore trova particolare diletto nell’ascoltarli. Ora, può essere che questa alternativa sia errata. E comunque anche di questo Lei è al corrente meglio di me. Quel che ho detto è solo per farLe intendere, in forma figurata, quale sia il mio pensiero.
Mi creda Suo devoto.
Karl Barth 

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DAVANTI SAN GUIDO
Giosuè Carducci 

I cipressi che a Bólgheri alti e schietti 
Van da San Guido in duplice filar, 
Quasi in corsa giganti giovinetti 
Mi balzarono incontro e mi guardâr. 

Mi riconobbero, e - Ben torni omai - 
Bisbigliaron vèr' me co 'l capo chino - 
Perché non scendi? perché non ristai? 
Fresca è la sera e a te noto il cammino. 

Oh sièditi a le nostre ombre odorate 
Ove soffia dal mare il maestrale: 
Ira non ti serbiam de le sassate 
Tue d'una volta: oh, non facean già male! 

Nidi portiamo ancor di rusignoli: 
Deh perché fuggi rapido cosí? 
Le passere la sera intreccian voli 
A noi d'intorno ancora. Oh resta qui! - 

- Bei cipressetti, cipressetti miei, 
Fedeli amici d'un tempo migliore, 
Oh di che cuor con voi mi resterei - 
Guardando io rispondeva - oh di che cuore! 

Ma, cipressetti miei, lasciatem'ire: 
Or non è piú quel tempo e quell'età. 
Se voi sapeste!... via, non fo per dire, 
Ma oggi sono una celebrità. 

E so legger di greco e di latino, 
E scrivo e scrivo, e ho molte altre virtú; 
Non son piú, cipressetti, un birichino, 
E sassi in specie non ne tiro piú. 

E massime a le piante. - Un mormorio 
Pe' dubitanti vertici ondeggiò, 
E il dí cadente con un ghigno pio 
Tra i verdi cupi roseo brillò. 

Intesi allora che i cipressi e il sole 
Una gentil pietade avean di me, 
E presto il mormorio si fe' parole: 
- Ben lo sappiamo: un pover uomo tu se'. 

Ben lo sappiamo, e il vento ce lo disse 
Che rapisce de gli uomini i sospir, 
Come dentro al tuo petto eterne risse 
Ardon che tu né sai né puoi lenir. 

A le querce ed a noi qui puoi contare 
L'umana tua tristezza e il vostro duol. 
Vedi come pacato e azzurro è il mare, 
Come ridente a lui discende il sol! 

E come questo occaso è pien di voli, 
Com'è allegro de' passeri il garrire! 
A notte canteranno i rusignoli: 
Rimanti, e i rei fantasmi oh non seguire; 

I rei fantasmi che da' fondi neri 
De i cuor vostri battuti dal pensier 
Guizzan come da i vostri cimiteri 
Putride fiamme innanzi al passegger. 

Rimanti; e noi, dimani, a mezzo il giorno, 
Che de le grandi querce a l'ombra stan 
Ammusando i cavalli e intorno intorno 
Tutto è silenzio ne l'ardente pian, 

Ti canteremo noi cipressi i cori 
Che vanno eterni fra la terra e il cielo: 
Da quegli olmi le ninfe usciran fuori 
Te ventilando co 'l lor bianco velo; 

E Pan l'eterno che su l'erme alture 
A quell'ora e ne i pian solingo va 
Il dissidio, o mortal, de le tue cure 
Ne la diva armonia sommergerà. - 

Ed io - Lontano, oltre Apennin, m'aspetta 
La Tittí - rispondea -; lasciatem'ire. 
È la Tittí come una passeretta, 
Ma non ha penne per il suo vestire. 

E mangia altro che bacche di cipresso; 
Né io sono per anche un manzoniano 
Che tiri quattro paghe per il lesso. 
Addio, cipressi! addio, dolce mio piano! - 

- Che vuoi che diciam dunque al cimitero 
Dove la nonna tua sepolta sta? - 
E fuggíano, e pareano un corteo nero 
Che brontolando in fretta in fretta va. 

Di cima al poggio allor, dal cimitero, 
Giú de' cipressi per la verde via, 
Alta, solenne, vestita di nero 
Parvemi riveder nonna Lucia: 

La signora Lucia, da la cui bocca, 
Tra l'ondeggiar de i candidi capelli, 
La favella toscana, ch'è sí sciocca 
Nel manzonismo de gli stenterelli, 

Canora discendea, co 'l mesto accento 
De la Versilia che nel cuor mi sta, 
Come da un sirventese del trecento, 
Piena di forza e di soavità. 

O nonna, o nonna! deh com'era bella 
Quand'ero bimbo! ditemela ancor, 
Ditela a quest'uom savio la novella 
Di lei che cerca il suo perduto amor! 

- Sette paia di scarpe ho consumate 
Di tutto ferro per te ritrovare: 
Sette verghe di ferro ho logorate 
Per appoggiarmi nel fatale andare: 

Sette fiasche di lacrime ho colmate, 
Sette lunghi anni, di lacrime amare: 
Tu dormi a le mie grida disperate, 
E il gallo canta, e non ti vuoi svegliare. - 

Deh come bella, o nonna, e come vera 
È la novella ancor! Proprio cosí. 
E quello che cercai mattina e sera 
Tanti e tanti anni in vano, è forse qui, 

Sotto questi cipressi, ove non spero, 
Ove non penso di posarmi piú: 
Forse, nonna, è nel vostro cimitero 
Tra quegli altri cipressi ermo là su. 

Ansimando fuggía la vaporiera 
Mentr'io cosí piangeva entro il mio cuore; 
E di polledri una leggiadra schiera 
Annitrendo correa lieta al rumore. 

Ma un asin bigio, rosicchiando un cardo 
Rosso e turchino, non si scomodò: 
Tutto quel chiasso ei non degnò d'un guardo 
E a brucar serio e lento seguitò. 



Francesco De Sanctis, La scuola del Puoti, “L’ultimo de’ puristi”, in Saggi e scritti critici e vari, vol. III, Milano, A. Barion, 1938, pp. 303-351

Il Puoti tenea scuola in una vasta sala del suo palazzo, dove convenivano meglio che duecento giovani, la più parte studenti che venivano freschi freschi dai seminari. Allora non ci erano regolamenti d'istruzione pubblica e non programmi; esami per cerimonia: d'italiano punto; né la laurea era necessaria a professare. La divisa del governo in fatto d'istruzione era questa: «non incaricarsene»; per lunga rilassatezza alcuni pochi regolamenti erano andati in disuso; monsignor Colangelo, presidente dell'Università, di una sola cosa si mostrava sollecito, che gli studenti andassero alla Congregazione; quanto al resto, lasciava correr l'acqua per la china, e a chi faceva atto di zelo soleva dire: «Non te ne incaricare». Mi ricordo. Professore del Collegio militare, un giorno mi sfogavo col cappellano, e gli mostravo cosa ci era da fare per raddrizzare gli studi. Colui sentì, sentì: poi tutt’a un tratto mi prese per la mano e disse: «Senti un consiglio d’amico, non te ne incaricare: il Re dice: - Più asini sono loro e più dotto sono io». Due anni dopo lo spiritoso cappellano fu nominato vescovo. […]
Questa fu la prima battaglia della nuova generazione contro il passato, in nome del progresso, della civiltà, della coltura, e la battaglia fu vinta senza cospirazioni e senza violenze, per la sola forza della pubblica opinione. 
Di questa prima campagna il protagonista fu Basilio Puoti, tanto più potente, quanto meno consapevole. La sua passione per le lettere e per l'insegnamento era tale che riempiva tutta la vita e non gli lasciava luogo ad altro. Il marchese del Carretto soleva ridere di questo pedante del marchese Puoti. Un altro marchese, ministro dell'interno, Santangelo, si degnava esprimergli la sua benevolenza, e il principe di Satriano, Filangieri, compiacevasi di proteggerlo. La sua famiglia era nota per antica devozione al trono. Molte erano le sue aderenze co' principali funzionarii e con le famiglie patrizie della città. D'altra parte lo si sapeva tutto immerso negli studi della lingua, ed estraneo affatto alle cose politiche. La sua scuola era dunque considerata passatempo innocentissimo, e lo si lasciava fare e dire, senza ombra di sospetto. […]
In quella scuola i principali attori erano i giovani. Il marchese, come ho detto, non faceva discorsi o lezioni, non insegnava grammatica o rettorica: parlava così alla buona, e facea notare più per esempli che per teoriche i pregi e i difetti degli scrittori, aggiungendovi, come l'occasione portava, avvertenze grammaticali o di lingua o di rettorica. Chi ne vuole un'immagine vegga i Fatti di Enea co' suoi commenti. Il lavoro era tutto nostro, e serio e assiduo: i poltroni poco ci duravano e andavano via perseguitati da una di quelle esclamazioni, che il poco paziente marchese si lasciava sfuggir di bocca, quando non giungeva a contenersi e ad esclamare: «Non mi fate dire la parola disonesta». 
Vi si andava tre volte la settimana. Un giorno era consacrato alla lettura e all'esame de' componimenti, favole, lettere, dialoghi, sogni, dissertazioni, dicerie, racconti storici, novelle, di rado qualche poesia. Dopo la lettura, il marchese domandava a due o tre il loro parere, i quali ragionavano prima del concetto, poi dello stile e della lingua. La discussione era chiusa da uno degli Eletti o degli Anziani, che ne discorreva ampiamente; il marchese riassumeva le diverse opinioni e dava un giudizio terminativo. Essendo la più parte giovani colti e adulti, le discussioni riuscivano spesso brillanti e animate. Né minor gara era negli altri due giorni, destinati alla traduzione e alla lettura dei classici. Si traduceva non più che due periodi di Cornelio Nipote, né ci era esercizio più acconcio ad addestrare in tutte le finezze della lingua e nell'organamento del periodo. Letta la traduzione, scoppiavano da tutte parti osservazioni sopra i difetti, quando non era seppellita di un colpo sotto qualche scherzo del marchese, come: «Basta così: l'avete fatta tra gli orrori della digestione». Di quante se ne leggevano, il marchese sceglieva una che gli sembrava migliore e sopra quella faceva la correzione, sicché ne uscisse un lavoro perfetto, che ciascuno scriveva nel suo quaderno. Il giovane sul cui lavoro era caduta la scelta, se ne usciva quella sera con la testa più alta. […]
Sono convinto che niente giovi più a rilevare gli studi letterari ed a educare la mente, che questo assiduo lavorare del giovane, questo leggere, tradurre, comporre, notare, più utile che non il mandare a memoria grammatiche, rettoriche e arti dello scrivere. Il marchese solea dire, citando un detto di Socrate, che il maestro dee essere come la levatrice che aiuti a partorire. Il miglior maestro è quello che pensi meno a comparir lui, e lasci fare i giovani, dissimulando la sua opera e creando in loro questa illusione che quello che imparano sono loro stessi che l'hanno trovato. Quello teniamo a mente che abbiamo acquistato col sudore della fronte: tutto l'altro facilmente entra e più facilmente esce dalla memoria. Mi si dice che il professor Villari abbia raccomandato queste pratiche ?esercitazioni sull'esempio dell'Inghilterra. Ma, sollecitando un po' la memoria, le avrebbe trovate facilmente anche nella scuola dalla quale è uscito. Chi meglio di lui, come membro del Consiglio superiore, è in grado di rimettere in onore quei metodi e quelle tradizioni? 
Se quello che il marchese insegnava non era tutt'oro di cappella, per usare una sua espressione, il modo d'insegnamento, il «come» era istrumento efficacissimo di educazione e di progresso. Il giovane si sentiva alzato a' suoi occhi, piaceva a sé stesso, veggendosi chiamato a leggere, commentare, discutere, giudicare, lavorare in comune, non discepolo, ma compagno e collaboratore. Un dì il marchese mi presentò al duca di Sangro. «Oh! ecco il vostro discepolo!» disse costui. «Non discepolo, - corresse il marchese - collaboratore ». Ah! ci amava tanto quel buon marchese! E noi lo cambiavamo di pari affetto. L'amore è il primo segreto del buono insegnamento. Non basta il metodo del Puoti, ci vuole il cuore del Puoti. […]
?Il marchese stesso confessava che una certa esagerazione era nella sua scuola, e la scusava, come frutto del grande amor suo a' buoni studi, e diceva: «Chi ama esagera». Stimava con ragione che una ferrea disciplina fosse necessaria a svezzare la gioventù dalle male abitudini contratte nelle scuole, che si richiedevano rimedii così violenti com'era il male, che chiodo ci vuole per trarre dall'asse il chiodo, e ch'egli facea come il chirurgo che par crudele ed è pietoso. Il fatto è che la sua scuola operò una compiuta trasformazione nella coltura nazionale. Si cominciò a studiare un po' meglio il latino ed il greco; venne in voga lo studio delle cose italiane anche ne' seminarii, si diffusero nelle più remote provincie gli scrittori classici, sorsero qua e là scuole simili a quella del Puoti, e in poco spazio non ci fu scienziato di qualche valore che non cercasse di scrivere pulitamente. Questi effetti ottenne il marchese in piccol numero d'anni, sì che poté avere il conforto di vedere insegnato a giovanetti, come materia elementare, quello ch'egli insegnava un giorno a giovani già molto innanzi negli anni e negli studi. La missione del marchese era finita, lo scopo ottenuto, e quando io, suo discepolo, uscii a dire in pubblica accademia che il purismo non avea più ragione d'essere, perché aveva già vinto, e che la quistione non era più di lingua, ma di stile, il brav'uomo se ne compiacque ed accettò la teoria per buona. Ma quando fui a tirarne le conseguenze, si ribellò, o piuttosto chiamò me un ribelle. Non di meno gli ebbi sempre tale riverenza e devozione che gli screzii letterarii non furono sufficienti a farmi cader dal suo animo, e presso a morte, veggendomi accanto al suo letto, disse: «Tu sai ch' io ti ho sempre amato». 
La ribellione non era altro che il naturale progresso della coltura e del sapere che sopravvanza il maestro e gli arma contro i discepoli. Grandi e libere scuole sono quelle nel cui seno germoglia la ribellione, cioè a dire il progresso, come grandi e libere società sono quelle in cui niente stagni e tutto si mova naturalmente. Il marchese, non che dispiacersi, doveva applaudirsi di questo fatto, che la ribellione non venne dal di fuori, ma dalla sua scuola, dal suo metodo, da lui stesso che ci aveva educati e posti in noi germi preziosi che dovevano fruttificare. Ma gli uomini sono così fatti. E fu suo dolore quello che era sua gloria. 


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YVES BONNEFOY

DA UR-ANTI-PLATONE

Nous sommes d’un même pays sur la bouche de la terre,
Toi d'un seul jet de fonte avec la complicité des feuillages 
Et celui qu'on appelle moi quand le jour baisse 
Et que les portes s'ouvrent et qu'on parle de mort. 

Siamo di uno stesso paese sulla bocca della terra
Tu di un’unica gettata di ghisa con la complicità del fogliame
E quello che si chiama io quando il giorno declina
E le porte si aprono e si parla di morte.
(1947, traduzione di Feliciano Paoli)

DA INIZIO E FINE DELLA NEVE

Flocons,
bévues sans conséquences de la lumière.
L’une suit l’autre et d’autres encore, comme si
comprendre ne comptait plus, rire davantage.

Et Aristote le disait bien,
quelque part dans sa Poètique qu’on lit si mal,
c’est la trasparence qui vaut,
dans des phrases qui soient comme une rumeur d’abeilles, comme une eau claire.

Fiocchi,
abbagli senza conseguenze della luce.
Uno dietro l’altro e altri ancora, come se
il senso non contasse, ma più il riso.

E Aristotele lo diceva bene,
da qualche parte nella Poetica, letta così male,
è la trasparenza che conta,
in frasi che siano come un brusio d’api, come un’acqua chiara.


Te soit la grande neige le tout, le rien,
Enfant des premiers pas titubants dans l'herbe,
Les yeux encore pleins de l'origine,
Les mains ne s'aggripant qu'a la lumiere…

Sia per te la grande neve il tutto, il nulla,
bambino dai primi passi incerti nell’erba,
gli occhi ancora pieni dell’origine,
le mani aggrappate solo alla luce…
(1991, traduzione di Davide Bracaglia)


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Italo Calvino, Tutto in un punto, da Le Cosmicomiche

Attraverso i calcoli iniziati da Edwin P. Hubble sulla velocità di allontanamento delle galassie, si può stabilire il momento in cui tutta la materia dell'universo era concentrata in un punto solo, prima di cominciare a espandersi nello spazio.

Si capisce che si stava tutti lì, - fece il vecchio Qfwfq, - e dove, altrimenti? Che ci potesse essere lo spazio, nessuno ancora lo sapeva. E il tempo, idem: cosa volete che ce ne facessimo, del tempo, stando lì pigiati come acciughe?
Ho detto «pigiati come acciughe» tanto per usare una immagine letteraria: in realtà non c'era spazio nemmeno per pigiarci. Ogni punto d'ognuno di noi coincideva con ogni punto di ognuno degli altri in un punto unico che era quello in cui stavamo tutti. Insomma, non ci davamo nemmeno fastidio, se non sotto l'aspetto del carattere, perché quando non c'è spazio, aver sempre tra i piedi un antipatico come il signor Pbert Pberd è la cosa più seccante.
Quanti eravamo? Eh, non ho mai potuto rendermene conto nemmeno approssimativamente. Per contarsi, ci si deve staccare almeno un pochino uno dall'altro, invece occupavamo tutti quello stesso punto. Al contrario di quel che può sembrare, non era una situazione che favorisse la socievolezza; so che per esempio in altre epoche tra vicini ci si frequenta; lì invece, per il fatto che vicini si era tutti, non ci si diceva neppure buongiorno o buonasera.
Ognuno finiva per aver rapporti solo con un ristretto numero di conoscenti. Quelli che ricordo io sono soprattutto la signora Ph(i)Nk0 , il suo amico De XuaeauX, una famiglia di immigrati, certi Z'zu, e il signor Pbert Pberd che ho già nominato. C'era anche una donna delle pulizie – «addetta alla manutenzione», veniva chiamata -, una sola per tutto l'universo, dato l'ambiente così piccolo. A dire il vero, non aveva niente da fare tutto il giorno, nemmeno spolverare – dentro un punto non può esserci neanche un granello di polvere -, e si sfogava in continui pettegolezzi e piagnistei.
Già con questi che vi ho detto si sarebbe stati in soprannumero; aggiungi poi la roba che dovevamo tenere lì ammucchiata: tutto il materiale che sarebbe poi servito a formare l'universo, smontato e concentrato in maniera che non riuscivi a riconoscere quel che in seguito sarebbe andato a far parte dell'astronomia (come la nebulosa di Andromeda) da quel che era destinato alla geografia (per esempio i Vosgi) o alla chimica (come certi isotopi del berillio). In più si urtava sempre nelle masserizie della famiglia Z'zu, brande, materassi, ceste; questi Z'zu, se non si stava attenti, con la scusa che erano una famiglia numerosa, facevano come se al mondo ci fossero solo loro: pretendevano perfino di appendere delle corde attraverso il punto per stendere la biancheria.
Anche gli altri però avevano i loro torti verso gli Z'zu, a cominciare da quella definizione di «immigrati», basata sulla pretesa che, mentre gli altri erano lì da prima, loro fossero venuti dopo. Che questo fosse un pregiudizio senza fondamento, mi par chiaro, dato che non esisteva né un prima né un dopo nè un altrove da cui immigrare, ma c'era chi sosteneva che il concetto di «immigrato» poteva esser inteso allo stato puro, cioè indipendentemente dallo spazio e dal tempo.
Era una mentalità, diciamolo, ristretta, quella che avevamo allora, meschina. Colpa dell'ambiente in cui ci eravamo formati. Una mentalità che è rimasta in fondo a tutti noi, badate: continua a saltar fuori ancor oggi, se per caso due di noi s'incontrano – alla fermata d'un autobus, in un cinema, in un congresso internazionale di dentisti -, e si mettono a ricordare di allora. Ci salutiamo – alle volte è qualcuno che riconosce me, alle volte sono io a riconoscere qualcuno -, e subito prendiamo a domandarci dell'uno e dell'altro (anche se ognuno ricorda solo qualcuno di quelli ricordati dagli altri), e così si riattacca con le beghe di un tempo, le malignità, le denigrazioni. Finché non si nomina la signora Ph(i)Nk0 – tutti i discorsi vanno sempre a finir lì -, e allora di colpo le meschinità vengono lasciate da parte, e ci si sente sollevati come in una commozione beata e generosa. La signora Ph(i)Nk0, la sola che nessuno di noi ha dimenticato e che tutti rimpiangiamo. Dove è finita? Da tempo ho smesso di cercarla: la signora Ph(i)Nk0, il suo seno, i suoi fianchi, la sua vestaglia arancione, non la incontreremo più, né in questo sistema di galassie né in un altro. 
Sia ben chiaro, a me la teoria che l'universo, dopo aver raggiunto un estremo di rarefazione, tornerà a condensarsi, e che quindi ci toccherà di ritrovarci in quel punto per poi ricominciare, non mi ha mai persuaso. Eppure tanti di noi non fan conto che su quello, continuano a far progetti per quando si sarà di nuovo tutti lì. Il mese scorso, entro al caffé qui all'angolo e chi vedo? Il signor Pbert Pberd. – Che fa di bello? Come mai da queste parti? – Apprendo che ha una rappresentanza di materie plastiche, a Pavia. È rimasto tal quale, col suo dente d'argento, e le bretelle a fiori. – Quando si tornerà là, - mi dice, sottovoce, - la cosa cui bisogna stare attenti è che stavolta certa gente rimanga fuori... Ci siamo capiti: quegli Z'zu...
Avrei voluto rispondergli che questo discorso l'ho sentito già fare a più d'uno di noi, che aggiungeva: «ci siamo capiti... il signor Pbert Pberd... »
Per non lasciarmi portare su questa china, m'affrettai a dire: - E la signora Ph(i)Nk0, crede che la ritroveremo?
- Ah, sì... Lei sì... – fece lui, imporporandosi.
Per tutti noi la speranza di ritornare nel punto è soprattutto quella di trovarci ancora insieme alla signora Ph(i)Nk0. (È così anche per me che non ci credo). E in quel caffè, come succede sempre, ci mettemmo a rievocare lei, commossi, e anche l'antipatia del signor Pbert Pberd sbiadiva, davanti a quel ricordo.
Il gran segreto della signora Ph(i)Nk0 è che non ha mai provocato gelosia tra noi. E neppure pettegolezzi. Che andasse a letto col suo amico, il signor De XuaeauX, era noto. Ma in un punto, se c'è un letto, occupa tutto il punto, quindi non si tratta di andare a letto ma di esserci, perché chiunque è nel punto è anche nel letto. Di conseguenza, era inevitabile che lei fosse a letto anche con ognuno di noi. Fosse stata un'altra persona, chissà quante cose le si sarebbero dette dietro. La donna delle pulizie era sempre lei a dare la stura alle maldicenze, e gli altri non si facevano pregare a imitarla. Degli Z'zu, tanto per cambiare, le cose orribili che ci toccava sentire: padre figlie fratelli sorelle madre zie, non ci si fermava davanti a nessuna losca insinuazione. Con lei invece era diverso: la felicità che mi veniva da lei era insieme quella di celarmi io puntiforme in lei, e quella di proteggere lei puntiforme in me, era contemplazione viziosa (data la promiscuità del convergere puntiforme di tutti in lei) e insieme casta (data l'impenetrabilità puntiforme di lei). Insomma, cosa potevo chiedere di più?
E tutto questo, così come era vero per me, valeva pure per ciascuno degli altri. E per lei: conteneva ed era contenuta con pari gioia, e ci accoglieva e amava e abitava tutti ugualmente.
Si stava così bene tutti insieme, così bene, che qualcosa di straordinario doveva pur accadere. Bastò che a un certo momento lei dicesse: - Ragazzi, avessi un po' di spazio, come mi piacerebbe farvi le tagliatelle! – E in quel momento tutti pensammo allo spazio che avrebbero occupato le tonde braccia di lei muovendosi avanti e indietro con il mattarello sulla sfoglia di pasta, il petto di lei calando sul gran mucchio di farina e di uova che ingombrava il largo tagliere mentre le due braccia impastavano impastavano, bianche e unte d'olio fin sopra al gomito; pensammo allo spazio che avrebbero occupato la farina, e il grano per fare la farina, e i campi per coltivare il grano, e le montagne da cui scendeva l'acqua per irrigare i campi, e i pascoli per le mandrie di vitelli che avrebbero dato la carne per il sugo; allo spazio che ci sarebbe voluto perché il Sole arrivasse con i suoi raggi a maturare il grano; allo spazio perché dalle nubi di gas stellari il Sole si condensasse e bruciasse; alle quantità di stelle e galassie e ammassi galattici in fuga nello spazio che ci sarebbero volute per tener sospesa ogni galassia ogni nebula ogni sole ogni pianeta, e nello stesso tempo del pensarlo questo spazio inarrestabilmente si formava, nello stesso tempo in cui la signora Ph(i)Nk0 pronunciava quelle parole: - ... le tagliatelle, ve', ragazzi! – il punto che conteneva lei e noi tutti s'espandeva in una raggera di distanze d'anni-luce e secoli-luce e miliardi di millenni-luce, e noi sbattuti ai quattro angoli dell'universo (il signor Pbert Pberd fino a Pavia), e lei dissolta in non so quale specie d'energia luce calore, lei signora Ph(i)Nk0, quella che in mezzo al chiuso nostro mondo meschino era stata capace di uno slancio generoso, il primo, «Ragazzi, che tagliatelle vi farei mangiare! », un vero slancio d'amore generale, dando inizio nello stesso momento al concetto di spazio, e allo spazio propriamente detto, e al tempo, e alla gravitazione universale, e all'universo gravitante, rendendo possibili miliardi di miliardi di soli, e di pianeti, e di campi di grano, e di signore Ph(i)Nk0 sparse per i continenti dei pianeti che impastano con le braccia unte e generose infarinate, e lei da quel momento perduta, e noi a rimpiangerla.

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Antonio Tabucchi, Sogno di Robert Louis Stevenson, scrittore e viaggiatore in Sogni di sogni, Sellerio, Palermo, 1992

Una notte di giugno del 1865, quando aveva quindici anni, mentre si trovava in una stanza dell’ospedale d Edimburgo, Robert Louis Stevenson, futuro scrittore e viaggiatore, fece un sogno. Sognò che era diventato un uomo maturo e che si trovava sopra un veliero. Il veliero aveva le vele gonfie di vento e viaggiava nell’aria. Lui reggeva il timone e lo pilotava come si pilota un pallone aerostatico. Il veliero passò sopra Edimburgo, poi attraversò le montagne di Francia, si allontanò dall’Europa e cominciò a sorvolare un oceano azzurro. Lui sapeva che aveva preso quel vascello perché i suoi polmoni non riuscivano a respirare.............