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Modelli di cultura - Ruth Benedict



lunedì 03 dicembre 2007 legge Sandro Degli Esposti
Nelle indagini sulle culture condotte dall’antropologa americana Ruth Benedict (1887-1948) trova ampio spazio la descrizione delle pratiche di iniziazione con cui le differenti etnie prese in esame consentono ai loro membri di far parte - a vari livelli – della collettività- Ripercorrerne alcuni tratti fondamentali può non soltanto sollecitare curiosità verso aspetti delle “altre” culture, ma anche suggerire interessanti paralleli con atteggiamenti e comportamenti tipici della nostra realtà culturale. 

Ruth Benedict, Modelli di cultura, trad. E. Spagnol, Milano, Feltrinelli, 1970, cap. IV ( pp. 74-76 )
Gli dei danzanti sono esseri soprannaturali felici e amichevoli che vivono sul fondo di un grande lago molto lontano nel vuoto deserto a sud di Zuni. Danzano sempre. Ma preferiscono tornare a Zuni per danzare. Impersonarli significa perciò dar loro la gioia che maggiormente desiderano. Un uomo, quando si mette la maschera del dio, diventa per il momento il dio stesso. Non parla più in modo umano, ma lancia il grido caratteristico del dio. E’ tabù, e deve assumere tutti gli obblighi di chi è, per il momento sacro. Non solo danza, ma osserva dopo la danza un periodo di esoterico ritiro, e pianta bastoncelli di preghiera e si mantiene continente. Il pantheon zuni conta più di cento diversi dei mascherati e molti di questi sono raccolti in gruppi di danza che si esibiscono insieme, trenta o quaranta dello stesso tipo. Altri compaiono in gruppi di sei, dipinti nei colori dei sei punti cardinali – perché gli Zuni contano come punti cardinali anche lo Zenit e il Nadir. Ciascuno di questi dei ha certe particolarità nel costume, una maschera individuale, un luogo suo nella gerarchia degli dei, miti che narrano le sue imprese e cerimonie per cui è attesa la sua presenza. Alle danze degli dei mascherati provvede, e le esegue, una società che comprende tutti i maschi adulti della tribù. Anche le donne possono essere iniziate a “salvare la vita”, ma non è costume corrente. Le donne non sono escluse perché lo proibisca un qualsiasi tabù, ma la loro appartenenza a questa società non è cosa molto consueta, e oggi le donne che vi appartengono sono solo tre. A memoria d’uomo, non sembra ve ne siano mai state molte di più. La società degli uomini della tribù è organizzata in sei gruppi, ciascuno dei quali possiede la sua kiva, o stanza delle cerimonie. Ogni kiva ha i suoi funzionari, danze caratteristiche e un proprio registro di membri.
L’appartenenza all’una kiva o all’altra dipende dalla scelta fatta dal padre cerimoniale del ragazzo alla sua nascita, ma finchè il ragazzo non ha otto o nove anni non v’è iniziazione: e questa segna la sua ammissione alla vita rituale. Non lo introduce, spiega la dottoressa Bunzel, a misteri esoterici, ma stabilisce un legame con forze soprannaturali. Lo rende forte e, come dicono loro, gli dà valore. I “kacina della paura”, gli dei mascherati della punizione, sono presenti, e battono i ragazzi con le loro fruste di yucca. E’ un rito di esorcismo, che serve a “togliere gli incidenti nefasti”, e rendere propizi gli eventi futuri. Le busse a Zuni non sono mai usate come un sistema di correzione per i ragazzi. Il fatto che i genitori bianchi le usino per punizione è causa di infinito stupore. Si sa in anticipo che durante l’iniziazione i ragazzi sono molto spaventati, e nessuno li svergogna se gridano forte. Questo anzi dà maggior valore al rito.
Più tardi, di solito quando il ragazzo è sui quattordici anni e abbastanza grande per avere qualche senso di responsabilità, viene picchiato di nuovo da dei mascherati ancora più forti dei primi. Durante questa iniziazione gli viene infilata in testa la maschera di kacina, e gli vien rivelato che i danzatori non sono gli esseri soprannaturali del Sacro Lago, ma i suoi vicini e parenti. Dopo la frustata finale i quattro ragazzi più alti vengono messi faccia a faccia con i kacina che li hanno frustati. I preti sollevano le maschere dalle loro teste e le posano sulle teste dei ragazzi. E’ la grande rivelazione; i ragazzi ne sono terrificati. Le fruste di yucca vengono tolte dalle mani dei kacina e messe nelle mani dei quattro novizi, ai quali vien dato l’ordine di battere i kacina. E’ la prima lezione pratica con cui s’insegna loro che, come mortali, essi devono adempiere tutte le funzioni che i non iniziati attribuiscono ai soprannaturali stessi. I ragazzi frustano i preti, quattro volte sul braccio destro, quattro sul sinistro, quattro volte sulla gamba destra, quattro sulla sinistra. Poi i kacina vengono frustati a turno da tutti i ragazzi, sempre nello stesso modo, e i preti raccontano la lunga storia mitica del ragazzo che si lasciò sfuggire il segreto circa la vera natura dei kacina, semplici personificazioni degli esseri soprannaturali, e che fu ucciso dagli dei mascherati. Gli tagliarono la testa e la spinsero a calci sino al Lago Sacro. Il corpo, lo abbandonarono sulla piazza del villaggio. I ragazzi non devono a nessun costo parlare. Sono membri del culto, ora, e possono impersonare gli dei mascherati. Non posseggono ancora maschere. Non ne avranno finchè non saranno uomini sposati con una certa posizione economica.
CAPITOLO IV ( pp 105-107 )
Anche nella vita familiare nessuno esercita un’autorità personale. L’ordinamento patriarcale, il fatto che la casa in cui la famiglia abita appartenga alla donna, determina naturalmente uno spostamento d’autorità, rispetto a ciò a cui noi siamo abituati. Ma le società matriarcali di solito considerano come persona più autorevole della famiglia un uomo, benché non si tratti del padre. Il fratello della madre, capo della casa patriarcale è arbitro e capo responsabile. A Zuni invece non si riconosce nessuna autorità al fratello della madre, né tanto meno al padre. Nessuno dei due si occupa dell’educazione dei bambini di casa. Gli uomini amano molto i bambini, li portano in braccio quando non stanno bene, a sera se li tengono in grembo; ma non li castigano. La forza della cooperazione informa la vita familiare, come quella religiosa, e non si determina mai nessuna situazione che debba essere risolta con provvedimenti drastici. E quali situazioni potrebbero essere? In quasi tutte le altre civiltà il matrimonio è, generalmente, l’occasione in cui si ha modo di esercitare una certa autorità; nei Pueblos invece implica ben poche formalità. In tutti gli altri paesi del mondo il matrimonio chiama in gioco diritti di proprietà e questioni economiche, in cui i membri anziani delle famiglie hanno modo di far valere le loro prerogative. Invece nel matrimonio zuni non sono in gioco questioni che possano interessare gli anziani.Il poco peso dato dai Pueblos ai beni e al denaro toglie importanza a questioni altrove delicate, come il matrimonio, e tutte quelle che in altre forme di cultura implicano un investimento di beni del gruppo a favore del giovane.
Tutto rende impossibile che il bambino soffra di un complesso di Edipo. Malinowskj ha messo in rilievo il fatto che la struttura della società, presso i Trobriand, dà allo zio l’autorità che da noi va di solito associata con il padre. In Zuni, neppure gli zii esercitano autorità. Non sono tollerate le occasioni che ne richiederebbero l’esercizio. Così il bambino cresce senza i risentimenti determinati dalla sua situazione familiare, senza gli ambiziosi sogni ad occhi aperti in cui cerca compenso alle umiliazioni della vita reale. E così, quando si sarà fatto adulto, nulla gli farà desiderare una situazione in cui la sua autorità abbia un peso. Perciò l’iniziazione dei ragazzi è, in Zuni, così strana, vogliamo dire, in confronto alle pratiche che s’incontrano in tutte le altre parti del mondo. Perché l’iniziazione dei ragazzi è molto spesso, da parte di coloro che hanno autorità, un esercizio senza inibizioni delle loro prerogative: è una prova imposta da chi ha il potere a chi deve ora essere ammesso a far parte della tribù. Questi riti rivestono forme molto simili in Africa, nell’America del Sud e in Australia. Nell’Africa meridionale i ragazzi sono raccolti in gregge da uomini armati di lunghi bastoni, che essi usano liberamente ogni volta che se ne offra l’occasione. Gl’iniziandi devono passare fra due file di uomini, sotto una pioggia di colpi, e aspettarsi anche in seguito di essere bastonati alle spalle e canzonati. Devono dormire nudi, senza coperte, nei mesi più freddi dell’anno, con la testa, non i piedi, volti dalla parte del fuoco. Non possono spargere sul terreno le sostanze atte a tener lontani gl’insetti che li mordono la notte. Ai primi segni dell’alba devono andare allo stagno e rimanere immersi nell’acqua gelida finchè appare il sole. Non possono bere una goccia d’acqua durante i tre mesi di preparazione, e vengono nutriti con cibi disgustosi. In compenso, vengono insegnate loro, con grande solennità, formule incomprensibili, e parole esoteriche.
Nelle tribù indiane d’America di solito non si dedica tanto tempo all’iniziazione dei ragazzi, ma le idee sono spesso le stesse. Gli Apache, con cui gli Zuni hanno molti rapporti, dicono che domare un ragazzo è come domare un giovane puledro. Lo costringono a fare dei buchi nel ghiaccio e a immergersi nell’acqua gelida, a correre con la bocca piena d’acqua, lo umiliano nelle spedizioni guerresche che sostiene per prova, e in generale lo trattano in modo tirannico. Gli indiani della California meridionale lo seppelliscono in nidi di formiche che mordono.
Ma in Zuni l’iniziazione del ragazzo non è mai, in nessun modo, una prova. Si pensa che il rito acquisti valore se i ragazzi piangono sotto i colpi leggeri che vengon dati loro. Il fanciullo è accompagnato in ogni passo dal suo padre cerimoniale e riceve i colpi o aggrappato al dorso del vecchio, o inginocchiato fra le ginocchia di lui. Riceve sicurezza da questa specie di padrino che l’accompagna, invece di essere cacciato violentemente fuori del nido, come il ragazzo del Sudafrica. E la fase finale dell’iniziazione ha luogo quando il ragazzo stesso prende la frusta di yucca e colpisce il kacina così come lui stesso è stato per l’innanzi colpito. L’iniziazione non è un modo di scaricare sul fanciullo la miserabile volontà di potere degli adulti. E’ un rito di esorcismo e di purificazione. Conferisce valore al ragazzo ammettendolo a far parte del gruppo tribale. Hanno visto i loro vecchi onorare per tutta la vita l’atto del frustare come una benedizione e una cura. E’ un’investitura che li ammette al mondo soprannaturale.
CAPITOLO VI - ( pp.181-185 )
Il giovane Kwakiutl che stava per diventare membro di una delle società religiose era rapito dagli spiriti, e rimaneva nei boschi, in solitudine, per tutto il periodo nel quale, come si diceva, era posseduto dai soprannaturali. Digiunava per apparire emaciato, e si preparava alla dimostrazione di frenetica follia che doveva dare al suo ritorno. Tutta la Cerimonia dell’Inverno, la grande serie di riti religiosi dei Kwakiutl, serviva a “domare” l’iniziato che tornava pieno del “potere che distrugge la ragione dell’uomo”, e che era necessario riportare al livello della normale esistenza umana. L’iniziazione dei Danzatori del “Cannibale” bene esprimeva tutto lo spirito dionisiaco della cultura della costa di nord-ovest. La società del “Cannibale” era la maggiore fra le società dei Kwakiutl. I suoi membri avevano i posti d’onore nelle Danze d’Inverno, e al banchetto tutti gli altri dovevano aspettare finchè essi non avevano cominciato a mangiare. Ciò che distingueva il “Cannibale” dai membri di tutte le altre società religiose era la sua passione per la carne umana. Si gettava sugli spettatori, mordendoli e strappando bocconi di carne dalle loro braccia. La sua danza era quella di un folle inebriato dal “cibo”, un cadavere preparato in precedenza che gli veniva recato da una donna, sulle braccia tese. Nella grandi occasioni i “Cannibali” mangiavano i corpi di schiavi uccisi a questo scopo.
Il cannibalismo dei Kwakiutl era lontanissimo dal cannibalismo epicureo di molte tribù dell’Oceania e dall’abituale antropofagia di molte tribù d’Africa: il Kwakiutl aveva un’estrema ripugnanza per la carne umana e mentre il “Cannibale” danzava fremendo davanti alla carne che doveva mangiare, il coro cantava:

Ora sto per mangiare,/La mia faccia è pallida come quella di uno spettro./Sto per mangiare ciò che mi è stato dato dal Cannibale dell’Estremità Settentrionale del Mondo.
Si teneva conto dei bocconi che il “Cannibale” aveva strappato dalle braccia degli spettatori, e dopo prendeva emetici fino a rigettarli tutti; spesso anzi non li inghiottiva neppure.
Molto più grave della contaminazione della carne strappata a morsi dalle braccia di vivi si considerava quella della carne dei cadaveri preparati o degli schiavi uccisi per la cerimonia. Per quattro mesi dopo essersi macchiato di questa impurità il “Cannibale” era tabù. Rimaneva solo nella sua piccola camera da letto interna, con un danzatore dell’Orso di guardia alla porta; usava, per mangiare, speciali utensili che venivano distrutti alla fine del periodo di ritiro, e beveva sempre secondo il cerimoniale, non prendendo più di quattro sorsi per volta, e usando una canna per non accostare la tazza alle labbra; anche per grattarsi la testa adoperava uno speciale strumento. Per un periodo più breve gli erano proibiti anche i cibi caldi. Terminata la reclusione, quando tornava fra gli uomini, fingeva di avere dimenticato come si viveva normalmente, sicchè bisognava insegnargli a camminare, a parlare, a mangiare. Si credeva che si fosse tanto allontanato dalla vita, che essa gli era divenuta estranea. Anche dopo i quattro mesi di reclusione, era sempre sacrosanto: non poteva accostarsi alla moglie per un anno, nè giocare d’azzardo, né fare alcun lavoro, e di solito rimaneva isolato per quattro anni. Proprio la ripugnanza dei Kwakiutl per la carne umana faceva del cannibalismo una compiuta espressione della virtù dionisiaca insita nel terribile e nel proibito. Mentre viveva solo isolato nei boschi, l’iniziato si procurava un cadavere, prendendolo da un albero dove era stato collocato per lui. La pelle si era già seccata stando esposta all’aria e al sole, e l’iniziato lo preparava in modo speciale per farne il suo “cibo” nella danza. Intanto il periodo del suo ritiro volgeva alla fine, e la tribù si preparava alla Danza d’Inverno, che doveva essere innanzi tutto l’iniziazione del giovane a membro della società dei “cannibali”. La gente della tribù, a seconda delle proprie prerogative rituali, si disponeva ai riti. Chiamavano fra loro gli spiriti della Danza d’Inverno, e chi ne aveva il diritto dava dimostrazioni della sua soprannaturale frenesia. Erano necessarie ogni energia e la massima meticolosità nell’esecuzione dei riti perché il loro potere doveva essere tanto grande da richiamare il”Cannibale” strappandolo al suo ritiro fra gli spiriti. Lo chiamavano danzando e usando tutti i loro poteri magici, ma dapprincipio ogni sforzo era vano. Infine tutti i membri della società dei “Cannibali”, con un accesso generale di frenesia, riuscivano a smuovere l’iniziato: d’improvviso, lo si sentiva sul tetto della casa. Fuori di sé, scostava le assi del tetto e saltava giù, in mezzo alla gente, che cercava invano di circondarlo. Faceva un giro attorno al fuoco e di nuovo correva fuori per una porta segreta, lasciandosi dietro solo i sacri rami di cicuta che aveva recato con sé. Tutte le società lo seguivano verso i boschi e di lì a poco lo si avvistava di nuovo. Tre volte ancora spariva, e la quarta un vecchio si staccava dagli altri, andando avanti; “l’esca”, lo chiamavano. Il “Cannibale gli si gettava addosso, gli prendeva un braccio e lo mordeva, e gli altri potevano così raggiungerlo e portarlo alla casa dove doveva svolgersi la cerimonia. L’iniziato era sempre fuori di sé, e mordeva chiunque gli capitava a tiro. Quando giungevano alla casa della cerimonia, non si lasciava indurre a entrare. Infine la donna co-iniziata, il cui compito era di recare sulle braccia il cadavere preparato, compariva, nuda, reggendo il cadavere, e danzando all’indietro, con la faccia rivolta al “Cannibale”, lo incitava a entrare. Per un po’ lui non si lasciava convincere, ma alla fine si arrampicava un’altra volta sul tetto e saltava giù attraverso le assi spostate. Danzava follemente, incapace di controllarsi, con tutti i muscoli del corpo che fremevano di quel particolare tremore che per i Kwakiutl indicava la follia divina.
La danza col cadavere veniva ripetuta durante l’estasi del “Cannibale”. Forse la più sconcertante tecnica dionisiaca della Cerimonia d’Inverno è quella che infine doma il “Cannibale”, e fa da introduzione ai quattro mesi di tabù. Esprime in modo estremo il potere soprannaturale che, secondo le idee correnti nella civiltà Kwakiutl, è insito nel terribile e nel proibito.
Guidavano il rito quattro sacerdoti che possedevano per eredità il potere di domare il”Cannibale”. L’iniziato, fuori di sé, correva selvaggiamente per la stanza mentre gli assistenti cercavano di trattenerlo. Non riusciva più a danzare, perché la sua frenesia era troppo forte; con diversi riti di esorcismo i sacerdoti tentavano di “raggiungerlo” nella sua estasi. Tentavano dapprima l’esorcismo del fuoco, agitandogli al di sopra della testa corteccia di cedro fiammeggiante, finchè egli si accasciava. Poi tentavano un esorcismo con l’acqua, scaldando, con i gesti prescritti dal cerimoniale, pietre nel fuoco; con queste, sempre seguendo rigorosamente il cerimoniale, scaldavano l’acqua in un recipiente, che posavano sulla testa dell’iniziato. Infine con corteccia di cedro abbozzavano un figura che rappresentava il “Cannibale” preso da frenesia, e lo bruciavano sul fuoco.
L’esorcismo finale, però, era quello eseguito con il sangue mestruale. Sulla costa nord-occidentale il sangue mestruale era considerato impuro, e il disgusto giungeva a un’intensità eguagliata in poche altre regioni del mondo. Le donne erano costrette alla reclusione durante le mestruazioni, e la loro presenza rendeva inefficaci tutte le pratiche sciamanistiche. Non potevano attraversare un ruscello né accostarsi al mare, perché il salmone si sarebbe offeso. Quando qualcuno moriva a dispetto delle cure degli sciamani, si dava la colpa alla presenza insospettata, nella casa, di corteccia di cedro su cui era rimasta una traccia di sangue mestruale. Per l’esorcismo definitivo del “Cannibale” il prete prendeva dunque corteccia di cedro macchiata del sangue mestruale di quattro donne del più alto rango, la incendiava, e gettava il fumo in faccia al “Cannibale”. Via via che l’esorcismo agiva, l’iniziato si muoveva con gesti meno violenti, e alla quarta danza era domato, tranquillo: l’attacco frenetico era cessato.
CAPITOLO VI ( pp.188-193 )
Ogni individuo potenzialmente importante, maschio o femmina, cominciava in tenera età il suo apprendimento negli affari. Nella primissima infanzia gli era stato dato un nome che indicava soltanto il luogo della nascita; e quando per lui giungeva il tempo di assumere un nome più importante, gli anziani della famiglia gli consegnavano un certo numero di coperte ch’egli, al fine di poter ricevere il nuovo nome, distribuiva fra i parenti. Coloro a cui andava il dono si facevano un dovere di ricambiarlo prontamente con regali di assai maggior valore. Ogni volta che un capo distribuiva i suoi beni in un pubblico scambio poco dopo aver ricevuto uno di questi doni da un bambino, dava al bimbo il triplo di quanto aveva avuto da lui. Alla fine dell’anno il bambino doveva ripagare con un interesse del cento per cento coloro che l’avevano finanziato da principio, ma teneva per sé il rimanente come sua proprietà personale, e questo era l’equivalente dello stock di coperte da cui era partito. Per un paio d’anni egli le distribuiva, e raccoglieva gli interessi, finchè era in grado di pagare il suo primo potlàc. Quando era pronto, si raccoglievano i suoi parenti e gli anziani della tribù. In presenza di tutto il popolo, davanti al capo e ai vecchi, il padre gli conferiva allora il nome che designava la sua posizione nella tribù.
A partire da quel momento, il ragazzo aveva un posto consacrato dalla tradizione fra gli uomini titolati. Da allora in poi, nei potlàc che egli stesso offriva o a cui partecipava, riceveva nomi sempre più importanti. Ogni persona di qualche importanza cambiava nome come le serpi cambiano la pelle. I nomi indicavano le sue relazioni familiari, le sue ricchezze, la sua posizione nella tribù. Quale che fosse l’occasione del potlàc, un matrimonio, la raggiunta pubertà del nipote, una sfida intertribale a un capo nemico, l’anfitrione ne approfittava per convalidare l’assunzione di un nuovo nome e delle prerogative connesse, per sé o per un erede. […]
Quelle tribù non usavano la ricchezza per procurarsi beni economici di pari valore, ma come gettoni di valore arbitrario in un gioco in cui si mirava a vincere. Vedevano la vita come una scala, i cui pioli erano rappresentati dai titoli e dalle prerogative che vi andavano unite. Ogni passo su un piolo più alto richiedeva una copiosa distribuzione di beni, che però venivano restituiti a usura per rendere possibile il prossimo passo cui l’arrampicatore poteva aspirare. Questa associazione della ricchezza con la convalida dei titoli di nobiltà è peraltro solo un elemento del quadro. La vera ragione per cui l’uomo della costa nord-occidentale faceva tanto conto dei titolo di nobiltà, delle ricchezze, delle insegne araldiche e di tutte le prerogative di un’altra posizione sociale, mette a nudo la molla, l’idea ispiratrice di quella cultura: erano armi in una contesa in cui ciascuno cercava di gettare la vergogna sull’avversario. Ognuno, secondo i suoi mezzi, gareggiava senza tregua con tutti gli altri mirando a distribuire un numero di ricchezze che gli altri non potessero eguagliare. Il ragazzo che aveva appena ricevuto il primo dono di proprietà sceglieva un altro giovane a cui fare il dono. Il prescelto non poteva rifiutare senza ammettere di essere sconfitto fin dal principio; bisognava che i suoi beni eguagliassero il valore del dono; e se quando giungeva il momento della restituzione non poteva restituire all’avversario il doppio di quanto aveva ricevuto, si copriva di vergogna e il suo prestigio diminuiva, mentre aumentava in proporzione quello dell’altro. La lotta così cominciata continuava per tutta la vita. Il giovane che aveva avuto successo giocava con somme sempre più grosse e con rivali sempre più temibili. Era una vera battaglia. “Non combattiamo con le armi”, dicevano. “Combattiamo con le proprietà.” L’uomo che aveva regalato un “rame” aveva battuto il suo rivale; era una vittoria come se l’avesse battuto sul campo di battaglia. Una della danze kwakiutl si chiamava “portare il sangue nella casa”, e si diceva che le ghirlande di cicuta dei danzatori rappresentavano teste di nemici prese in guerra: le gettavano nel fuoco gridando il nome dei nemici che esse rappresentavano e urlando mentre il fuoco divampava. In realtà però le ghirlande rappresentavano i “rami” che essi avevano distribuiti, e i nomi che essi gridavano erano i nomi dei rivali battuti in questa contesa economica.
Lo scopo di ogni impresa dei Kwakiutl era di dimostrarsi superiori ai propri rivali, e veniva dichiarato apertamente, senza riguardi. Si esprimeva in auto-incensamenti sfacciati, cui si accompagnavano canzonature a chiunque capitasse a tiro. Giudicati sul metro di altre culture, i discorsi dei capi ai potlàc appaiono i discorsi di megalomani senza pudore:
Io sono il grande capo che fa vergognare di sé la gente.
Io sono il grande capo che fa vergognare di sé la gente.
Il nostro capo richiama la vergogna su tutte le facce.
Il nostro capo chiama l’invidia su tutte le facce.
Il nostro capo fa sì che la gente si copra la faccia davanti alle imprese ch’egli va continuamente compiendo nel mondo, Dando feste su feste a tutte le tribù.
Io sono il solo grande albero, io, il capo!
Io sono il solo grande albero, io, il capo!
Voi siete i miei sudditi, tribù.
Voi sedete nella parte posteriore della casa, tribù.
Io sono il primo nel distribuirvi beni, tribù.
Io sono la vostra Aquila, tribù.