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Letture intorno al Natale



lunedì 22 dicembre 2003 leggono vari
Natale in casa Buddenbrook
Thomas Mann, I Buddenbrook
(Torino, Einaudi 1971, traduzione di Anita Rho)
(Proposto da Alessandro Castellari)

- Figlia di Sion, allegrati! - cantavano i ragazzi del coro, i quali fino a quel momento avevan piantato là fuori un tale baccano che il senatore s’era dovuto affacciare alla porta per imporre un po’ di rispetto, ma ora cantavano meravigliosamente. Quelle voci chiare che, sorrette da voci più basse, si levavano gioiose e inneggianti, innalzavano con sé tutti i cuori, raddolcivano i sorrisi delle zitelle e inducevano i vecchi a guardare dentro se stessi, a riconsiderare il proprio cammino terreno, mentre quelli che erano a metà della vita dimenticavano per un istante i loro crucci.
Hanno sciolse le mani dal ginocchio che aveva tenuto abbracciato fino a quel momento. Era molto pallido, stiracchiava le frange dello sgabello, e si sfregava la lingua contro un dente con la bocca semiaperta e l’aria di aver freddo. Ogni tanto era costretto a respirare profondamente perché mentre il canto, quel limpido canto a cappella riempiva l’aria, egli sentiva il cuore serrarsi in una felicità quasi dolorosa. Natale... Attraverso l’alta porta bianca, ancora chiusa, trapelava il profumo dell’abete, dolce e aromatico, suscitando la visione delle meraviglie ch’erano nella sala, meraviglie attese ogni anno col batticuore, come uno spettacolo di magnificenza inconcepibile, sovrumana... che cosa c’era là dentro per lui? Quello che aveva desiderato, naturalmente: ciò era fuori dubbio, dal momento che non ne era stato dissuaso già prima, come da cosa impossibile. Il teatrino gli sarebbe saltato subito agli occhi, indicandogli il suo posto; l’agognato teatro dei burattini che era in capo alla lista dei desideri presentata alla nonna, sottolineato due volte, e che dopo che aveva visto rappresentare il Fidelio era quasi il suo unico pensiero.
Già, come risarcimento e premio per una visita al signor Brecht, Hanno era stato condotto recentemente a teatro, nel Teatro Civico, e in prima fila, a fianco della mamma, aveva potuto seguire, trattenendo il fiato, l’azione e la musica del Fidelio. Da allora non sognava che scenari d’opera, e la passione per il teatro non lo lasciava più dormire. Con indicibile invidia guardava per la strada le persone che, al pari dello zio Christian, frequentavano abitualmente il teatro: il console Döhlmann, il mediatore Gosch... Avrebbe potuto reggere alla felicità di andarvi, come loro, quasi ogni sera? Oh poter dare solo una volta la settimana un’occhiata alla sala prima dello spettacolo, sentir accordare gli strumenti e contemplare un poco il sipario calato! Perché tutto gli piaceva in teatro: l’odore di gas, i sedili, i suonatori, il telone...
Sarà grande il suo teatro dei burattini? Alto, largo? Come sarà il sipario? Bisognerà subito praticarvi un forellino, perché anche nel telone del Teatro Civico c’è un buco per guardar nella sala... Chissà se la nonna o la signorina Severin - perché la nonna non può provvedere a tutto - hanno trovato gli scenari per il Fidelio? Domani stesso egli si chiuderà in qualche stanza e darà la rappresentazione da solo... E nella sua fantasia ode già cantare i personaggi; perché musica e teatro per lui si sono subito intimamente uniti...
- Gerusalemme, esulta! - conchiudono i coristi, e le voci inseguentisi come in una fuga, si ritrovano in pace e in gioia nell’ultima sillaba. Il limpido accordo svanì nell’aria, e un profondo silenzio si posò sul vestibolo e sulla stanza dei paesaggi. Sotto il peso della pausa i familiari rimasero ad occhi bassi; solo il direttore Weinschenk si guardava attorno spigliato e disinvolto, e la signora Permaneder fece sentire quella sua tossetta secca che non poteva reprimere. La vecchia consolessa invece andò lentamente verso il tavolo e si sedette in mezzo alla parentela sul sofà che non era più isolato e discosto dal tavolo come una volta. Accostò la lampada e prese la grande Bibbia col largo taglio dorato sbiadito dal tempo. Poi inforcò gli occhiali, aprì i due formagli di cuoio che chiudevano l’enorme libro, cercò la pagina dov’era il segno, così che apparvero i grandi fogli spessi, ruvidi, giallastri, con le lettere cubitali, bevve un sorso di acqua zuccherata e incominciò a leggere il capitolo di Natale.
Lentamente, in un tono dimesso che andava al cuore, ella lesse le antiche, note parole, e la sua voce spiccava chiara, commossa e serena nel raccolto silenzio. - E pace in terra agli uomini di buona volontà! - ella disse. Ma appena ebbe finito, risuonò a tre voci nell’atrio Notte silente, notte sacra e la famiglia riunita nella stanza dei paesaggi fece coro. Cantavano con una certa cautela, perché la maggior parte non aveva orecchio, e ogni tanto si coglieva nell’insieme una nota bassa e stonata... Ma ciò non guastava l’effetto del cantico... La signora Permaneder lo cantava con labbra tremanti, perché esso tocca più dolcemente e dolorosamente il cuore di chi ha dietro di sé una vita agitata e la ripensa nella pace fuggevole dell’ora solenne... Madame Kethelsen piangeva lacrime silenziose e amare, sebbene non udisse quasi niente.
Poi la vecchia signora s’alzò. Prese per mano il nipote Johann e la pronipote Elisabeth e attraversò la stanza. La seguirono prima gli ospiti più anziani, poi i più giovani, nell’atrio si aggregarono le persone di servizio e i poveri di casa, e mentre tutti intonavano l’inno O abete di Natale e lo zio Christian faceva ridere i bambini muovendosi come una marionetta, tutti varcarono la gran porta spalancata, e con gli occhi abbagliati e viso ridente penetrarono in paradiso.
La sala da pranzo, odorosa di ramoscelli d’abete strinati, brillava e sfavillava d’infinite fiammelle, e l’azzurro della tappezzeria con le bianche statue degli dèi faceva sembrare ancor più luminoso il vasto ambiente. In quell’onda di luce palpitavano come stelle lontane le candeline accese, che laggiù fra le finestre dalle tende scarlatte coprivano l’abete immenso torreggiante fino al soffitto, adorno di fili d’argento e di grandi gigli bianchi, con un angelo splendente sulla punta e ai piedi un presepio. Sul tavolo coperto d’una tovaglia bianca e carico di doni, che occupava tutto lo spazio tra le finestre e la porta, era schierata ancora una fila di alberetti minori, ornati di confetti e scintillanti di candeline. Ed erano accesi anche i bracci del gas sporgenti dalle pareti, e ardevano i grossi ceri nei candelabri dorati ai quattro angoli della sala. Oggetti voluminosi, doni che non si eran potuti disporre sul tavolo, stavano allineati sul pavimento. Tavolini più piccoli, anch’essi apparecchiati di bianco, coperti di regali e abbelliti da piccoli abeti luccicanti, erano collocati a fianco delle due porte; erano i doni per la servitù e per i poveri.
Abbacinati e quasi impacciati nel ben noto ambiente, tutti fecero il giro della sala e sfilarono cantando davanti al presepio, dove un Gesù Bambino di cera accennava un gesto benedicente, poi, dopo aver abbracciato con un’occhiata i singoli oggetti, si fermarono in silenzio al proprio posto.

NOTE:
n La scena si svolge la vigilia di Natale del 1869, a Lubecca, nella casa della consolessa Buddenbrook.
n La consolessa è Elisabeth Buddenbrook, nata Kröger, madre di Thomas, Christian ed Antonie (Tony).
n Il senatore è Thomas Buddenbrook, padre di Johann (Hanno).
n La signora Permaneder è Tony Buddenbrook.
n Döhlmann e Gosch sono compagni di divertimento dello scapestrato Christian.
n Weinschenk è il marito di Erika, la figlia di Tony, e padre della piccola Elisabeth.
n Madame Kethelsen è una amica povera di casa Buddenbrook.
n La signorina Severin è l’istruttrice di Hanno.
La passione per il teatro di Hanno è quello spirito della musica e dell’arte (Adorno) che costituisce il “perturbante” della tradizione borghese e si pone come emblema della decadenza della famiglia Buddenbrook (der Verfall einer Familie). Questo è infatti l’ultimo bellissimo Natale avito in prossimità della fine di un mondo.


Un Natale di Maigret
Georges Simenon
(proposto da Daniela Collevati)

Non nevicava. Era ridicolo restarci male, a cinquant’anni sonati, se mancava la neve una mattina di natale: ma le persone d’una certa età non sono mai proprio così serie come si figurano i giovani.
Basso e denso, d’un bianco cattivo, il cielo pareva pesasse sui tetti. Il boulevard Richard-Lenoir era completamente deserto, e sopra al grande portone lì di fronte le parole:Magazzini Legal Figli e C: erano d’un nero di ceretta da scarpe. Le E, sa Iddio perché avevano un’aria malinconica. Sentiva di nuovo sua moglie andare e venire in cucina, insinuarsi sulla punta dei piedi in stanza da pranzo, insistere nelle precauzioni senza immaginarsi che lui si era alzato e stava alla finestra.Guardando l’orologio sul comodino Maigret s’accorse che erano le otto e dieci appena.
La sera prima erano andati a teatro. Dopo, anche loro avrebbero mangiato volentieri un boccone in trattoria per fare come tutti, ma dappertutto non c’era tavola che non fosse prenotata per la cena tradizionale e così, passo passo, a braccetto se n’erano tornati. Sicché stava per scoccare la mezzanotte quando erano rientrati in casa e non avevano avuto da aspettare per scambiarsi i regali.
Una pipa per lui, come sempre. Per lei una caffettiera elettrica d’un modello perfezionato che le faceva gola, e, per restar fedele alla tradizione, una dozzina di fazzoletti finemente ricamati.
Caricò macchinalmente la pipa nuova. Alcune case, dalla parte opposta del boulevard, avevano persiane alle finestre, altre no. Poca gente già in piedi. Soltanto, qua e là, un lume acceso, senza dubbio perché c’erano dei bambini che si erano alzati presto per precipitarsi verso l’albero e i giocattoli.
Avrebbero, lui e lei, trascorso una mattinata pacifica, nel loro quartierino silenzioso. Maigret si sarebbe trascinato fino a tardi in vestaglia, senza farsi la barba, e sarebbe andato a barattare due chiacchiere con sua moglie in cucina, mentre lei avrebbe messo il pranzo sul fuoco.
Non era triste. Solo che il suo sogno –di cui continuava a non ricordarsi – gli lasciava una sensibilità a fior di pelle, per così dire. E forse, a conti fatti, non era neanche il sogno, ma il Natale. Bisognava stare accorti, quel giorno, pesar le parole, così come la signora Maigret aveva calcolato i movimenti per uscire dal letto: perché anche lei si sarebbe commossa più facilmente del solito. Zitto! Non pensare a questo. Non dir nulla che possa farci pensare. Non guardar troppo per strada, fra poco, quando i ragazzini incominceranno a sfoggiare i loro giocattoli sui marciapiedi.
Marmocchi ce n’erano nella maggior parte delle case, se non in tutte. Si sarebbero sentite acute trombette, tamburi, pistole. Certe bambinucce stavano già cullando le bambole.
Una volta, diversi anni fa, lui aveva detto così, un po’ alla larga:
“Perché non approfittiamo del Natale per fare un viaggetto?”
“E andar dove?” aveva risposto lei col suo inattaccabile buon senso.
Andare a trovar chi? Neanche famiglia, avevano, cui render visita: tranne una sorella di lei, che abitava troppo lontano. Andare all’albergo in una città straniera, o alla locanda in campagna? Zitto! Era tempo di bere il caffè, e, dopo, si sarebbe sentito più in cenci. Era sempre piuttosto depresso, prima della prima tazzina di caffè e della prima pipata.
Proprio nel momento in cui allungava il braccio verso la maniglia della porta, questa si aprì senza rumore e comparve la signora Maigret con un vassoio in mano: guardò il letto vuoto, poi guardò lui delusa, quasi sul punto di piangere.
“Ti sei alzato!”
Era già tutta fresca, ben ravviata, lei, e portava un grembiale chiaro.
“Io che ero tutta contenta di servirti la colazione a letto!”
Certe volte aveva tentato, delicatamente, di farle capire che per lui quello non era un piacere, che gli metteva addosso un senso d’impaccio, che gli pareva d’esser un malato o un paralitico; ma per lei la colazione a letto restava l’ideale delle domeniche e delle feste comandate.
“non vuoi ricaricarti?”
no..non ne aveva il coraggio.
“Be’, allora vieni… Buon Natale!”
“Buon Natale!…Sei arrabbiata con me?”
Erano nella stanza da pranzo, col vassoio d’argento in un angolo della tavola, la tazzina fumante del caffè, i chifel dorati su una salvietta.
Deposta la pipa, mangiò un chifel per farle piacere, ma restava in piedi, osservava guardando fuori:
“Pulviscolo di neve.”
Non era neve sul serio. Cadeva dal cielo come una fine polvere bianca facendogli tornare in mente che, da piccino, cavava la lingua per coglierne qualche granuzzo.
I suoi occhi si posarono sul portone del palazzoni rimpetto, sulla sinistra dei magazzini. Ne stavano uscendo due donne senza cappello. Una, bionda, sui trenta, s’era buttata un cappotto sulle spalle senza neanche infilar le maniche mentre l’altra, più anziana, si stringeva in uno scialle.
La bionda pareva esitante, pronta a battere in ritirata. La bruna, piccolissima e rinsecchita, insisteva, e Maigret ebbe l’impressione che indicasse le sue finestre. Nel riquadro del portone, dietro di loro, apparve la portinaia, con l’aria di venire a dare man forte alla magra. Allora la giovane bionda si decise a traversar la strada, non senza voltarsi indietro, si sarebbe detto, con inquietudine.
“Cos’è che guardi?”
“Niente… delle donne…”
“Che fanno?”
“Sembra che vengano qui.”
Perché tutte e due, in mezzo al boulevard, alzavano la testa per guardare nella sua direzione.
“Speriamo non vengano a disturbarti il giorno di Natale.Non ho neanche rifatto le stanze.”
Nessuno avrebbe potuto avvedersene perché, tranne il vassoio, non c’era oggetto fuori posto e non un grano di polvere offuscava i mobili tirati a cera.
“Sei sicuro che vengan qui?”
“Si starà a vedere.”
Gli parve meglio, per precauzione, andare a darsi una sciacquata al viso e una pettinata, e a lavarsi i denti. Era ancora in camera, occupato a riaccendere la pipa, quando sentì suonare.


Le voci del mondo
Robert Schneider
(proposto da Saverio Mazzoni)

La prima domenica di Avvento dell’anno 1815 Elias Alder, all’età di dodici anni, fu nominato tiramantici ufficiale all’organo di Eschberg (un modesto esemplare di cinque registri).
L’incarico era per lui un semplice pretesto per vedere finalmente da vicino lo strumento misterioso. E in realtà nessuno conosceva l’organo come lui: fin da bambino, quando era stato condannato a sedere nell’ultimo banco della chiesa, si era messo a studiare i cinque registri e si era accorto dal suono che alcune canne erano di faggio, mentre le altre erano dello stesso materiale con cui era fatta la mascherina delle sue scarpe.
Elias era un assistente perfetto: eppure lo zio, l’organista Oskar Alder, non era contento: si sentiva addosso lo sguardo serio e vigile del ragazzo, tutto proteso a seguire le sue dita nodose sulla tastiera, e una volta lo vide addirittura aggrottare la fronte in una piega dolorosa solo perché una nota spuria si era infilata per sbaglio nella tonalità di mi maggiore. A quel benedetto ragazzo non sfuggiva nulla, neanche l’errore più veniale del dito, o la minima incertezza sul pedale.
Una domenica poi, constatando che Elias era in grado di ripetere tutte le voci di un corale dal soprano al basso, ne provò una sensazione di vero spavento. E non era finita, perché il tiramantici, con la sua potente voce di basso, si permetteva addirittura di ritoccare e migliorare il lavoro dell’organista! Completava a piena voce la linea zoppicante del basso, restaurava una frase un po’ confusa del contralto, decorava la melodia principale con audaci passaggi e coloriture. Se il maestro con un SI naturale aveva di nuovo preso una stecca, era subito pronto al salvataggio gridando disperatamente il SI bemolle, si divertiva poi a sperimentare sontuosi “canti fermi” fino a inserire nuove voci nella struttura già complessa del Lied.
All’organista si appannarono gli occhiali, e si impaurì.

La seconda domenica di Avvento Elias chiese allo zio di insegnargli a suonare l’organo. Oskar gli promise che lo avrebbe fatto, ma in cuor suo decise che non gli avrebbe insegnato neanche una nota. L’organista di Eschberg era lui: così era e così sarebbe stato anche in futuro.
Il maestro decise infine che era più saggio chiudere la balconata dell’organo e nascondere poi la chiave in posti sempre diversi.

Dopo un incubo terribile, in cui gli era sembrato di vedere all’organo una piccola sagoma al posto suo, si ridusse a nasconderla nei posti più impensati: chi poteva cercare una chiave nella testa cava della statua di Sant’Eusebio, oppure nell’acquasantiera, nell’asta del vessillo del Sacro Cuore o tra le pagine di un libro di preghiere? O ancora nel calice della Messa, cosa che provocava nel curato, sempre più distratto, seri dubbi sul mistero della Transustanziazione?
Ma a Elias non sfuggiva nulla. Ovunque la chiave venisse appesa, immersa, lasciata cadere o scivolare, poco dopo era già nelle sue mani.
Una notte – mancavano 4 giorni a Natale – Elias Alder salì furtivamente sulla cantoria. Aveva trovato la chiave nel reliquiario sotto l’altar maggiore, in mezzo alle ossa di San Wolfango. Elias era finalmente libero, chiuso dentro la chiesa, solo con se stesso e l’organo. L’oggetto misterioso era lì davanti a lui. Elias aprì la tastiera, accese una candela, la fissò bene al candelabro e accennò un segno di croce. Poi improvvisamente gli vennero le lacrime agli occhi, e lui stesso non sapeva come e perché.
Non vogliamo saperlo neanche noi: lasciamolo solo, il nostro musicista, aspettiamo che si sia calmato e che incominci a suonare le prime note della sua vita. Fuori è una notte di fohn, che ulula tra le cime degli alberi, si scatena come un bambino sui prati, spezza i rami più fragili o marciti, soffia nelle foglie secche spingendole contro le porte delle case.
Elias alzò il mantice, poi scivolò alla tastiera, cercò il principale da otto piedi, aggiunse un bordone, sfiorò con il dito indice un tasto dopo l’altro fin quando trovò la sua nota preferita, il primo FA: i polpastrelli si adagiavano negli incavi dei vecchi tasti d’avorio, così logori che in certi punti lasciavano intravedere il legno. Tenne il suo FA fino all’ultimo soffio. Poi alzò di nuovo il mantice e incominciò a mettere insieme le note di una melodia. Elias aveva incominciato a comporre.
L’entusiasmo crebbe, e con esso un’eccitazione quasi febbrile che lo accompagnò tutta la notte. Seguendo l’orecchio le dita trovarono rapidamente il FA Maggiore: Elias cercava la melodia di un canto natalizio, ne mormorava le frasi, andava alla ricerca dei tasti corrispondenti e li provava, senza mai stancarsi di tirare il mantice. Quando fu in grado di suonare la melodia per intero gli venne l’estro di migliorarla. Appianò quel che gli sembrava zoppicante, arricchì e irrobustì i passi più deboli e quando la candela fu consumata fino al moccolo aveva ormai tra le mani una melodia di misterioso splendore come i riflessi delle candele nel calice d’oro del curato.


Parenti serpenti
Maria Imelde Pizzirani (7/2/2003)
(Proposto da Maria Teresa Cassini)

“Cara mia, Natale che bello! Bianco, vacanze, regali, amici, cena... cose che ti riscaldano il cuore.
Be’, niente di tutto questo: Natale, il giorno più gramo.
Ma sarò scema io, a ostinarmi così, a volerli a pranzo ogni anno! E così non solo devo preparare la camera degli ospiti, e sai come sono sofistici quelli, ma ovviamente devo pensare a pranzo e cena della vigilia e a pranzo e cena di Natale! E per giunta, quest’anno hanno fatto sapere che sarebbero arrivati anche Carlotta e suo marito, li conosci, no? Anche loro a Bologna, dalla vigilia, per gli acquisti natalizi! Be’, devo dire che la cosa mi ha un po’ seccato, ma come facevo a dire di no a mio marito? In fin dei conti, sono i suoi genitori e sua sorella. E poi loro ci ospitano sempre sulla Costa Azzurra e a Cortina, dovremo cercare di tenerci al loro livello, no?
Be’, insomma, arriva la vigilia, e siamo qui che prendiamo l’aperitivo. Io stavo guardando l’anello di Carlotta, figurati, un Cartier, non meno di 10000 euro. Dei brillanti, una lavorazione che non ti dico! Ma sai come è fatta lei, non indossa certo delle robette. E sentiamo suonare.
Ma dico, è una cosa fatta apposta, per farmi dispetto. Qualcuno ce l’ha con me. Chi era? Be’, te lo puoi immaginare. Gli affezionati parenti, sì, proprio la zia Cesira e lo zio Gustavo. Dico io: proprio a me dovevano capitare dei parenti impresentabili, ma come quelli! Lei con la sua pelliccina di finto visone un po’ spelacchiatina, lui con un cappotto che gli tirava un po’, fra un bottone e l’altro, e la sua solita sciarpetta verde ramarro. E i cappelli! Roba d’antiquariato!
Avevo già aperto, ma quando li ho visti salire sono stata lì lì per chiudere e far finta di non esserci! Mi son sentita morire, adesso come faccio?
Li tengo sul pianerottolo.
Li blocco nell’ingresso.
Li mando in cucina e ordino agli altri di restare muti finché non se ne vanno.
Pensa, tutti gli anni ci portano un panettone, sempre con lo stesso bigliettino: con l’affetto di sempre alla nostra nipotina adorata. La nipotina! Io! Sorvolo su quell’affetto e su quell’adorata, sono cose tanto tristi, mi ricordano quando stavo in casa da loro e studiavo, in quella stanzina grigia o sul tavolo di cucina e la zia mi faceva le cremine per merenda. Mi sentivo tutta grigia anch’io, ma poi, appena ho potuto, me ne sono andata! Io lo so che vorrebbero vedermi, vorrebbero stare con me, ma come faccio io? Io ho una carriera, delle relazioni da coltivare, altro che vecchi zii!
Insomma, stringo i denti e li faccio entrare. Smack! Smack! Abbracci.
Non ti dico gli occhietti luccicanti di mia suocera, quando li ha visti, ma, gran signora qual è, è stata al gioco. La Carlotta, invece, ha pensato bene di dileguarsi, dopo un po’, ridacchando. L’avrei uccisa.
Per fortuna, sono andati via subito, buon per me che ho sempre detto: visite brevi. E poi mi è anche venuto in mente di regalargli una bottiglia di limoncello che era in una cesta regalo. Geniale, no?
Ma il prossimo Natale no, non posso sopportare un altro stress come questo! Ho deciso: andrò a Miami, già non ci sono mai stata, e poi non mi hanno invitata? Dunque...”

“ Ohi, Gustavo, siamo arrivati proprio in un brutto momento. Ho capito, sai, che avevano più voglia di stare con quegli altri, ma mi sembrava una fatta cosa non vederla per Natale, non abbracciarla!
Va bene che lei non ha mai tempo, e anche se le telefonavo, magari diceva che non poteva...
Ti ricordi quando era piccola con le treccine? Ma è stata ben brava, guarda mo’ che carriera che ha fatto! E che casa! Avevo quasi paura di andar dentro, non volevo sporcarle i pavimenti, anche se ha la donna che pulisce. Si capisce che è abituata a vivere con della gente fine, della gente da soldi, vero?
Noi non andiamo mica più bene, per lei! Però non mi posso mica scordare quegli anni che è stata da noi. Era brava. Oddio, in casa non faceva mai niente, ma aveva da studiare!
E poi... ti ricordi quando le regalammo quelle ciabattine rosse? Ecco, vedi, noialtri siamo anche ignoranti, non possiamo mica pensare di stare con lei, non siamo all’altezza! Anche se quando doveva andare a scuola le andavamo pur bene! E tutti quei posti che dicono sempre... noialtri non li abbiamo mai visti, non sappiamo neanche dove sono!
Ma hai visto che meraviglia la pelliccia di sua suocera? Però buttata lì su una sedia, come se niente fosse, si vede che non devono farne conto. E quell’altra che si girava nel dito quell’anello con tutti quei brillanti, sembrava che facesse apposta per farlo vedere. Mo a me non me ne importa niente né della pelliccia né dei brillanti.
Siamo proprio arrivati in un brutto momento! Ho visto, sai, che quel bicchierino l’hai mandato giù in fretta, e a me mi è anche andato un po’ di traverso. Ohi, noialtri siamo come siamo, ma a me non mi è mica piaciuta, questa visita! Ci siamo fatti gli auguri, questo sì, ma poi...
Ben, senti mo’, sai cosa ho pensato? E se quest’altr’anno andassimo a Castiglione dei Pepoli da tuo fratello, che è tanto che ce lo dice di andare da loro per Natale?”


Natale 2003
Massimo Alberghini

Non vengono più dalla mia cucina quell’odore... quelle voci, né quei rumori
Nessuno chiude più a chiave nella credenza del salotto buono i tesoro di raviole e panoni
Ho sulle mani e sul cuore i lustrini lasciati da una letterina colorata che avrei avuto ancora tanta voglia di scrivere, ma che nessuno stasera potrà più fingere di affannarsi a cercare
Non c’è più neanche vero freddo, né neve blu e argento sotto la luna, né i ghiaccioli iridescenti a rendere scherzosi sul terrazzo dei vicini
Né l’odore della legna bruciata nella stufa insieme alle bucce di mandarino, né quello degli aghi di un vero abete
Solo la magia è rimasta intatta e assieme alla nostalgia stanno chiuse in una palla di vetro soffiato, rossa d’amore.


La coltura degli alberi di Natale
Thomas S. Eliot
(Poesie, trad. Roberto Sanesi, Milano, Bompiani 1994)
(Proposto da Magda Indiveri)

Vi sono molti atteggiamenti riguardo al Natale,
e alcuni li possiamo trascurare:
il torpido, il sociale, quello sfacciatamente commerciale,
il rumoroso (essendo i bar aperti fino a mezzanotte)
e l’infantile – che non è quello del bimbo
che crede ogni candela una stella, e l’angelo dorato
che spiega le ali dalla cima dell’albero
non solo una decorazione, ma anche un angelo.
Il fanciullo stupisce di fronte all’albero di Natale:
lasciatelo dunque in spirito di meraviglia
di fronte alla festa, a un evento accettato con come pretesto,
così che il rapimento splendido, e lo stupore
del primo albero di Natale ricordato, e le sorprese, l’incanto
dei primi doni ricevuti (ognuno
con un profumo inconfondibile ed eccitante)
e l’attesa dell’oca e del tacchino, l’evento
atteso e che stupisce al suo apparire,
e reverenza e gioia non debbano
essere mai dimenticate nella più tarda esperienza,
nella stanca abitudine, nella fatica, nel tedio,
nella consapevolezza della morte, della coscienza del fallimento,
nella pietà del convertito
che si potrebbe contaminare di vanagloria
spiacente a Dio e irrispettosa verso i fanciulli
(e qui ricordo con gratitudine anche
Santa Lucia, con la sua canzoncina e la sua corona di fuoco):
così che prima della fine, l’ottantesimo Natale
(significando qui per ottantesimo l’ultimo, qualunque
esso sia)
le accumulate memorie dell’emozione annuale
possano concentrarsi in una grande gioia
simile sempre a un grande timore, come nell’occasione
in cui il timore giunge ad ogni anima:
perché l’inizio ci ricorderà la fine
e la prima venuta la seconda venuta.


Nuttata ‘e Natale
Salvatore Di Giacomo, Poesie
(proposto da Margaret Collina)

Fenette
tutta na vota ‘a museca.
Sfiatate
zampogne e ciaramelle
fenettero ‘e sunà. Pe nu
mumento,
dint’ ‘o silenzio, ‘a grotta
rummanette accussì:
po’ luntano sparaie
n’urdema botta,
e nu gallo cantaie:
“chicherichì”
“chicherichì!…” tante e
tant’ ata galle
rispunnettero a ttuono.
L’organo d’ ‘a parrocchia ‘e ffunzione
nfra tanto accumpagnava
spannenno ‘o suono
attuorno,
e già p’ ‘a strata ‘a gente
cammenava.
Era Natale. E s’era fatto
iuorno.


Il Natale delle zitelle
Marie Noël, Le Rosaire des joies
(Paris, Stock 1930, trad. di G. Davico Bonino, in Lunario dei giorni di quiete, Torino, Einaudi 1997, p. 518)


Tre zitelle, tre, eccoci arrivate qui,
portando tre vecchie lampade,
per adorare il Bambino...
O Vergine, eccoci qua, le ultime di tutti:
d’un tal ritardo, eccoci qua, umiliate,
ma il fatto è che gli altri, partendo,
ci hanno dimenticato.

Tutto il paese in festa, senza di noi,
a mezzanotte se n’andò.
Nessuna di noi, da sola, osò venirsene ed entrare...
Infine, eccoci qua, l’una ha condotto l’altra,
a poco a poco facemmo tutta la strada insieme
per vedere il nostro piccolo Dio...
Poverino, come trema!

Possiamo sfiorarlo con la punta delle dita?
Le nostre dita – toccatele – son tiepide.
Siam noi, Gesù Bambino, siam noi, le tre zitelle,
tre, così povere e brutte,
che nessuno ha mai voluto prenderci in sposa.
Un marito, passi! E’ un figlio
che manca al nostro cuore.

E quando voi, volgendovi
perché l’ombra allo sguardo vi celi,
Madre, timidamente schiudete, scostandola,
la vostra povera veste
per allattare il vostro bimbo affamato che piange,
nostro malgrado, il cuore ci si spezza:
è Lui che desideriamo!


Vigilia
Alessandro Parronchi, Un’attesa (1937 – 1949)
(Urbino, Istituto Statale d’Arte 1962)

Arrestati, mia mente, e che nessuna
immagine che improvvisa t’afferra
né cosa tanto dolce sulla terra
sia che possa offuscarti in questa bruna

notte il pensiero del tuo Salvatore,
che dagli astri del suo trono divino
scendi fino all’estremo tuo giardino
a far viva la tua carne che muore.

Un atomo non trovo in me che serbi
di ciò che vi lasciasti Tu il ricordo
tra i tormenti delle mie colpe acerbi

non una nota del divino accordo
nulla che di riceverti sia degno,
Signore che per me lasci il tuo Regno.


Manifestazioni religiose: Natività
Valerio Magrelli
Didascalie per la lettura di un giornale
(Torino, Einaudi 1999)

A Italo Calvino
Questo brusio, il ronzare di congegni
Per l’aerazione, clic di infinite valvole
Termostatiche, fase o bifase, questi
Panneggi di microvibrazioni
Che avvolgono la sera in un estremo brivido
Molecolare d’onde,
Queste carezze sinusoidali a fasce a bende
A bande elettromagnetiche, tutto questo sonoro
E leggero gomitolo d’impulsi, di relais chiacchierini
Di sussurranti sensori, questo cavo artificio palpitante
Che è il nostro mondo, quanto,
Quanto dista dal fiato
Fondo, colmo, grasso, dell’animale
Che spezza a lenti colpi un freddo
Blocco d’aria sopra la mangiatoia?


Natale ferroviario
André Frénaud, Il silenzio di Genova e altre poesie
(trad. di G. Caproni, Torino, Einaudi 1967)
(Proposto da Isa Speroni)

San Giuseppe non aveva mai visto locomotiva
e aveva paura di perdere i biglietti.
Era una sera di grandi partenze, la stazione febbrile
di folla e di fischi, di luci.
Giunti troppo presto, s’erano gingillati al buffet...
Non avevano prenotato i posti,
e ci fu anche chi disse che avessero sbagliato treno.

Nessuno ad augurargli buon viaggio.
Gli amici non erano stati avvertiti.
Vomitando fumo giallo e turchino come un drago
il treno cambiava binario agli scambi,
e ancora cambia, va più svelto, va.
Scompaiono i sobborghi ed i segnali.

In piedi nel corridoio. Chi avrà compassione
d’una donna incinta e così bella che geme?

Nello scompartimento vicino alcuni zeloti
s’accapigliarono spartendosi le provviste.
Dei richiamati facevano i finti tonti.
Un pubblicano tronfio d’esose esazioni
e la sua signora, una negra bellissima,
occupavano i posti d’angolo sul corridoio.
Un gran sacerdote faceva finta di leggere.

Un treno passa fragoroso e il bambino
già ne sbigottisce nella notte materna.
Via dritti per la gran distesa, nevica, piove, che importa,
fa caldo fin sui ponti rumoreggianti
quando rinfresca l’aria il fiume attraversato.
Già il tempo s’addormenta e le città diradano.
Foreste son superate e borghi, la valle rimonta.
Alle stazioni sconosciute le sbarre
s’abbassano e si rialzano nella campagna
arrotondata di lassù dalla volta stellata.