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La Canzone di Guglielmo


lunedì 12 gennaio 2004 legge Andrea Fassò
Tutti conosciamo gli ideali del mondo feudale: coraggio, onore, fedeltà fra signore e vassallo o fra compagni d'armi. Abbiamo letto del rapporto tra il cavaliere che torna a casa dopo aver combattuto aspramente e la sua donna che lo accoglie senz'ombra di affettazione, di malizia e senza tentativi di seduzione, ma con energia veramente eroica.
Eppure, se si vogliono conoscere non solo i nobili sentimenti, ma anche i sentimenti vili, rozzi, bassi, comici, si può leggere insieme la Canzone di Guglielmo, che nel suo apparente disordine compositivo offre una varietà di personaggi, atteggiamenti, ruoli, funzioni ben superiore a quella della più celebre e più conosciuta Chanson de Roland. Infatti la Canzone di Guglielmo presenta caratteri arcaici e barbarici che ci fanno intravedere molto in profondità le radici della nazione franca e dell'Europa medievale nel suo complesso.
In filigrana - nelle sue luci come nelle sue ombre – si vede anche l'Europa di oggi, erede del mondo greco-romano e cristiano ma anche del mondo germanico.
La lettura viene condotta dal filologo romanzo Andrea Fassò, il curatore stesso dell’edizione italiana della Canzone di Guglielmo.




La Canzone di Guglielmo

Nonostante il disordine che caratterizza, nella forma e nel contenuto, la redazione in cui ci è giunta, la Chanson de Guillaume è ritenuta comunemente uno dei capolavori dell’epica francese.
Eppure, anche in coloro che più la ammirano, si avverte spesso un disagio più o meno esplicito, riassumibile all’ingrosso in questo concetto: la Chanson de Guillaume non è la Chanson de Roland. Peggio ancora, le è molto vicina per alcuni aspetti; l’influenza dell’una sull’altra si può dire sicura; e tuttavia quale differenza! Se l’epica «è» la Chanson de Roland, se una canzone è tanto più epica e tanto più bella quanto più somiglia alla Chanson de Roland, se insomma la Chanson de Roland è l’unità di misura e la pietra di paragone di ogni chanson de geste, allora…
Non avranno ragione quegli studiosi (non tanto pochi) che considerano il Guillaume un’opera di second’ordine, con parecchi buoni spunti ma messa insieme alla meno peggio da un giullare un po’ rozzo?
Cercherò di rispondere attraverso un discorso che concerna sia la canzone sia il genere poetico a cui appartiene. (Andrea Fassò)

www.labottegadellelefante.it Ass.elefante@libero.it
Riprodotto presso Futurcopy, v. Andrea Costa 6, tel 051-4399033, www.futurcopy.it

Da La Canzone di Guglielmo


XXVIII

Come l’oro si depura dell’argento,
così fu scelta la gente valorosa.
I codardi fuggono con Tebaldo, 330
con Viviano restano i valenti cavalieri;
tutti insieme combattono in prima linea.
Come l’oro dall’argento si separa,
così si scelsero i gentili uomini.
Dapprima combatterono in prima linea 335
tutti quanti insieme i valorosi:
non si poté distinguere il più ardito.
Ai primi colpi Tebaldo si volge,
se ne fugge per la strada verso Bourges.
In uno spiazzo all’incrocio di quattro strade 340
quattro briganti sono impiccati bocca a bocca;
bassa è la sommità, corte le forche.
Il cavallo prosegue, lo porta passando sotto;
un impiccato sulla bocca lo urta.
Lo vide Tebaldo, dolore ebbe e vergogna; 345
per la paura lordò la sua gualdrappa,
e quando sentì che era tutta immerdata,
alzò la coscia e la spinse via.
Chiamò Girard, che lo seguiva nel cammino:
«Amico Girard, prendete quella gualdrappa; 350
c’è oro pregiato e pietre preziose,
cento libbre ne ricaverete a Bourges».
E Girard gli ribatté:
«E io che me ne faccio, che è tutta immerdata?»

[...]

XL

Trenta corni sul monte suonano l’appello.
Settecento uomini montano la guardia; 490
non c’è chi non abbia spada insanguinata
per aver menato grandi colpi in campo;
prima di tornare ancora ne meneranno.
Viviano si aggira in cima alla collina,
trecento uomini della sua terra vede; 495
non c’è chi non abbia redini sanguinanti
e fra le cosce la sella vermiglia;
con le braccia le budella si tengono
perché i cavalli in terra non le rompano.
Quando li vede, tutti insieme li chiama: 500
«Fratelli baroni, che potrò fare di voi?
Per nessuno al mondo avrete più medico!»

XLI

«Per amor di Dio, baroni, vi prego!
Perché andare a morire nei vostri letti?
Su chi faranno vendetta i vostri amici? 505
Nel regno di Luigi non c’è uomo
col quale, se vi riducesse a tal partito,
i vostri figli pace o tregua accetterebbero,
né roccia o palizzata lo riparerebbe,
né castello né torre né antico fossato, 510
dall’essere uccisi dalle loro spade!
Vendichiamoci finché siam vivi!»
Rispondono: «Come volete, prode marchese!»
Le armi prendono, sui cavalli balzano;
scendono giù, li hanno attaccati. 515
Con grande forza tornano a colpire.

XLII

Dal monte vengono giù;
sull’erba del prato scendono i Francesi,
dei loro vedono morti e feriti.
Chi avesse visto i damigelli gentili 520
legare le ferite, stringere i lacci!
Chi al braccio è ferito tronca allora la lancia
e la lega per poterla portare;
beve del vino chi nel campo lo trova,
chi non ne ha beve al ruscello torbido, 525
gli uomini sani ne danno ai feriti;
chi signore non ha, ne dà al compagno.
Lasciano i vivi, rendono omaggio ai morti.

XLIII

Settecento uomini della loro terra trovano:
tra i piedi trascinano le budella; 530
le cervella escono dalla bocca
e dagli scudi colano sull’erba;
velati hanno i visi e pallide le guance,
stravolti gli occhi delle loro teste;
gemono e gridano quelli che perdon l’anima. 535
Quando li vedono, accorati li chiamano:
«Signori baroni, che sarà di voi?
Per nessuno al mondo avrete più medico!»

[...]
LXIV

Dei suoi venti Viviano dieci ne perse.
Dicono gli altri: «Amico, che faremo ora?»
«Diamo battaglia, signori, con la grazia di Dio!
Vedete, ho fatto partire Girard: 750
ora verrà Guglielmo o Luigi;
con l’uno o l’altro, vinceremo gli Arabi».
E quelli rispondono: «Con gioia, prode marchese!»
Con i suoi dieci uomini torna all’assalto.
In terribile pericolo lo mettono i Pagani; 755
dei suoi dieci non ne lasciano uno vivo.
Col suo scudo sovrano a tenere il campo rimase,
lunedì al vespro.
Col suo scudo solo rimase nella mischia.

[...]
LXIX

Grande fu il caldo come d’estate in maggio,
lunga la giornata, da tre giorni non mangiava.
Grande è la fame e dura da sopportare, 840
e crudele la sete, non può resistere.
Dalla bocca cola il sangue chiaro
e dalla ferita al fianco sinistro.
Lontane erano le acque, non le seppe trovare;
per quindici leghe non c’era fonte né guado: 845
solo l’acqua salata nelle onde del mare;
ma in mezzo al campo scorreva un torbido rigagnolo
da una roccia assai prossima al mare;
coi cavalli i Saraceni l’avevano infangato,
di sangue e di cervella era tutto mischiato. 850
Là venne correndo Viviano il glorioso:
sull’acqua salata del guado si chinò,
assai più ne bevve di quanto volesse.
Quelli gli lanciarono i loro spiedi aguzzi,
gran colpi gli assestarono sul greto. 855
Forte fu la corazza, non la poterono scalfire,
che gli ha protetto i fianchi;
ma alle gambe e alle braccia e altrove
in più di venti punti hanno il conte ferito.
Si raddrizza allora come ardito cinghiale 860
e dal fianco sinistro trae la spada;
da valoroso si difende Viviano.
Lo incalzano come i cani un forte cinghiale.
Salata era l’acqua che aveva bevuto dal mare,
fuori uscì, non gli poté restare in corpo; 865
di nuovo gli sgorgò dalla bocca e dal naso;
grande fu l’angoscia, gli occhi si annebbiarono.
Non seppe più seguire un cammino.
Duramente i Pagani lo premono:
da più parti l’assalgono i guerrieri, 870
giavellotti gli lanciano e affilati dardi;
tanti gliene scagliano sul suo scudo a quarti
da non poterlo sollevare verso la testa;
cade ai suoi piedi.
I Pagani lo premono con forza 875
e duramente il suo valore fiaccano.

LXX

Lanciano giavellotti e dardi affilati,
al conte lacerano tutto l’usbergo;
il duro acciaio taglia il ferro minuto,
sì che il petto dei suoi anelli è cosparso. 880
Giù a terra le budella gli cadono.
Non confida di durare più a lungo;
implora allora la grazia di Dio.

LXXI

Viviano va errando per il campo;
gli cade l’elmo davanti sul nasale, 885
fra i piedi trascina le budella;
col braccio sinistro le sostiene.
Nella destra porta una spada d’acciaio:
tutta è vermiglia dall’elsa in avanti,
il fodero pieno di fegato e di sangue; 890
sulla punta si appoggia.
La morte lo sta opprimendo,
lui con la spada a terra si sostiene.
A gran voce implora Gesù onnipotente,
che gli mandi Guglielmo il buon Franco, 895
o Luigi, il forte re guerriero:

LXXII

«Vero Dio di gloria, che vivi in Trinità,
e nella Vergine fosti generato
e in tre persone fosti ordinato,
sulla santa croce ti lasciasti tormentare, 900
difendimi, Padre, per la Tua santa bontà:
per nulla al mondo nel cuore possa entrarmi
di fuggire di un intero piede da battaglia campale!
Fino alla morte fammi mantenere la mia promessa,
Dio, che io non l’infranga, per la Tua santa bontà. 905
Mandami, Signore, Guglielmo dal naso curvo:
è uomo esperto in battaglia campale,
la sa guidare, la sa vincere».

LXXIII

«Domineddio, Padre glorioso e forte,
non sia mai che da fuori mi venga, 910
che qui dentro nel corpo mi entri
di fuggire di un intero piede per paura della morte!».
Per una valle arriva un Berbero
un agile cavallo lanciando al galoppo;
alla testa colpisce il nobile vassallo 915
sì che a terra ne spande le cervella.
Arriva al galoppo il Berbero:
fra le cosce ha un gran destriero,
nella destra un affilato dardo.
Alla testa colpisce il valente cavaliere 920
sì che sull’erba le cervella gli cadono;
in ginocchio lo fa cadere.
Sventura fu che cadesse tale prode.
Addosso gli corrono da più parti i Pagani,
giù per il greto lo massacrano. 925

[...]
XCVIII

«Signori, nobili uomini, per amor di Dio, 1275
pregare vi voglio che mi diate congedo:
è il mio signore, a servirlo devo andare».
Scende la scala,
va alla porta, l’ha disserrata,
l’apre verso di sé, lascia entrare il conte. 1280
Lui la guarda e le chiede:
«Dama Guiborc, da quando in qua custodisci la mia porta?»
«In fede mia, sire, è la prima volta.
Sire, conte Guglielmo, scarsa truppa hai con te!»
«Sorella, cara amica, da quando in qua sei mio portiere?» 1285
«In fede mia, sire, da poco, mica da molto.
Sire Guglielmo, pochi cavalieri riconduci!»

XCIX

«Tieni, dama Guiborc: questo è tuo nipote Guischard.
Mai più non vedrai vivo il conte Viviano».
La nobile donna gli tese le braccia 1290
e lui vi adagiò il vassallo morto.
Pesava il corpo, le vennero meno le braccia;
era donna e debole aveva la carne;
a terra crollò il cadavere,
la lingua si girò tutta da un lato. 1295
Giovedì al vespro.
Guiborc lo guarda giù a terra:
velato ebbe il viso e pallida la guancia,
stravolti gli occhi della testa;
la lingua tutta penzolava sulla sinistra, 1300
sul mento l’elmo gli era scivolato.
Pianse Guiborc, la confortò Guglielmo:

C

«Per Dio, Guiborc, hai ragione di piangere!
Si diceva un tempo alla corte del mio signore
che eri moglie di Guglielmo, uomo potente, 1305
ardito conte, valoroso guerriero.
Ora sei moglie di un vile fuggiasco,
un codardo conte, un vigliacco che volta le spalle,
che dalla battaglia non riconduce un solo uomo.
D’ora in poi sarai tu il tuo cuoco e il tuo fornaio, 1310
al fiero baronaggio non apparterrai,
né mai più vedrai Viviano mio nipote.
Piaccia o no, finita è la mia baldanza;
mai più al mondo avrò onore!»
Pianse Guglielmo, lacrimò Guiborc. 1315
La dama ascoltò il lamento del suo signore,
del suo dolore una parte dimenticò.
Quando parlò, con grande amore disse:

CI

«Marchese Guglielmo, ti prego, per amor di Dio!
E` gran dolore che un uomo pianga, 1320
e gran peccato che si disperi.
Fu costume del tuo gran parentado
che quando altre terre andarono a conquistare,
sempre morirono in battaglia campale.
Preferisco che tu muoia all’Archamp sul mare 1325
piuttosto che il tuo lignaggio da te sia svilito
e dopo la tua morte ai tuoi eredi sia rimproverato».
Quando l’ode Guglielmo, scuote il capo,
piange dagli occhi teneramente e con dolcezza;
chiama Guiborc, sua amica e sua sposa; 1330
nella sua lingua le dice:
«Sorella, cara amica, ti prego, per amor di Dio!
Piaccia o no, molto ho di che piangere.
Sono passati trecento e cinquant’anni
da quando io nacqui da mia madre; 1335
vecchio sono e debole, non posso portare armi.
E` venuto meno ciò che Dio m’aveva donato,
la gran gioventù, che non può tornare;
e i Pagani mi hanno preso in tale disprezzo
che per me più non si voltano, più non fuggono. 1340
La battaglia Deramé ha vinto,
ha preso il bottino, disarmato i morti;
entrati sono i Pagani nelle loro navi;
lontani sono i territori sui quali ho il comando,
lontani [?] gli uomini che dovrei radunare, 1345
e se anche arrivassi all’Archamp sul mare,
già i Saraceni se ne sarebbero andati.
Piaccia o no, sono rimasto tutto solo;
mai più al mondo avrò onore!»
Piange Guglielmo, Guiborc lo conforta: 1350
«Ah, marchese, signore, ti prego, per amor di Dio!
Col tuo permesso ora lasciami mentire:
di tali uomini ne avrò trentamila;
quindicimila sono già apparecchiati
per combattere in battaglia campale». 1355
«Dove sono, Guiborc? Non me lo devi celare!
Sorella, dolce amica, dimmi la verità».
«Su nel palazzo sono a desinare».
Allora rise il conte e lasciò il pianto.
«Ora va, Guiborc, menti pure, te lo permetto». 1360
Allora Guiborc salì per la scala;
prima piangeva, ora si mise a cantare;

[...]
CIII

Poi lo fa sedere a una bassa tavola:
per il dolore alla più alta non può andare;
poi d’un cinghiale gli portò una spalla.
La prende il prode e in fretta la mangia, 1405
facendo così come se fosse ben cotta.
Lei gli portò un gran pane di fina farina
e in più due grandi focacce arrostite,
e anche un gran pavone allo spiedo,
e ancora un gran nappo di vino: 1410
con le due braccia un gran peso sostenne.
Mangiò Guglielmo il pane di fina farina,
le due focacce arrostite;
tutto mangiò il gran pezzo di porco arrostito
e bevve in due sorsi un sestario di vino, 1415
tutte mangiò le due focacce arrostite
e a Guiborc neanche una ne offrì
né il viso e lo sguardo levò.
Lo vide Guiborc, scrollò il capo e sorrise
e pure pianse da ambo gli occhi del viso. 1420
Parlò a Guglielmo nella sua lingua, e gli disse:
«Per Dio di gloria, che mi fece convertire,
al quale renderò quest’anima peccatrice,
quando verrà il giorno del gran giudizio,
chi mangia un gran pane di fina farina 1425
e non tralascia le due focacce arrostite
e mangia intero un gran pezzo di porco allo spiedo
e poi un gran pavone arrostito
e in due sorsi beve un sestario di vino,
ben dura guerra farà al suo vicino; 1430
mai troppo vilmente fuggirà dal campo
né il suo lignaggio per causa sua sarà svilito».

[...]
CV

Il conte Guglielmo da tavola si alzò.
Pronto fu il letto, andò a coricarsi. 1485
La nobile Guiborc lo massaggiò dolcemente:
non c’è tale sposa nella Cristianità
per servire e onorare il suo signore,
né per esaltare la santa Cristianità,
mantenere e custodire la sua legge. 1490
Stette con lui finché dolcemente si addormentò;
lo raccomandò all’altissimo Dio.
Poi va nella sala a parlare ai cavalieri.
Dorme Guglielmo finché viene sera:
balza dal letto come ardito cinghiale; 1495
«Monjoie! — grida — Nobili cavalieri, a cavallo!»
Chiede armi, gliele portano.

[...]
CXXX

Mentre Guglielmo scambiava le selle,
Gui vide il re dibattersi sull’erba;
sguainò la spada, gli tagliò la testa.
Fortemente si indignò Guglielmo:
«Briccone, canaglia, come fosti tanto ardito 1965
da alzar le mani su un uomo ferito!
In alta corte ti sarà imputato».
Risponde Guiot: «Ma cosa dite!
Se non aveva piedi per camminare,
aveva occhi per vedere 1970
e testicoli per generare figli.
Al suo paese si sarebbe fatto portare:
ne sarebbe nato un erede di Deramé
che in questa terra avrebbe cercato di nuocerci.
Senza esitazione ci si deve liberare». 1975
«Nipote,» disse Guglielmo, con saggezza ti sento parlare!
Corpo hai di fanciullo e giudizio di uomo.
Dopo la mia morte tieni tutta la mia eredità».
Allora fu mercoledì.
Ora ebbe vinto la sua battaglia Guglielmo. 1980


(ed. a cura di Andrea Fassò, Milano-Trento, Luni 2000 – I ed. Parma, Nuova Pratiche Editrice 1995; ora Roma, Carocci 2003)


Dall’introduzione all’edizione italiana

Il poema narra una vicenda in gran parte analoga a quella di altre due canzoni, La Chevalerie Vivien e Aliscans. Il re saraceno Deramé ha invaso con un immenso esercito le terre intorno alla Gironda; invano Viviano consiglia al conte Tebaldo di chiamare in soccorso Guglielmo; Tebaldo con i suoi uomini muove incontro ai Pagani all’Archamp, sul mare (20-184); poi, spaventato dal loro numero, fugge coprendosi di onta, mentre i suoi uomini (fra cui il suo scudiero Girard, che come Viviano è nipote di Guglielmo) accettano di battersi al comando di Viviano, fedele al suo voto di non arretrare di fronte al nemico (185-472). Nella tremenda battaglia, di diecimila Francesi ne restano venti; Girard parte per chiedere soccorso a Guglielmo; Viviano, rimasto solo, torturato dalla fame, dalla sete, dal caldo, muore da martire sotto i colpi dei Pagani (473-928).
Giunto a Barcellona, Girard riferisce allo zio e alla sua sposa Guiborc la grave notizia; Guglielmo, Girard e Guischard nipote di Guiborc ripartono per l’Archamp con trentamila uomini (929-1085); dopo quattro giorni di combattimento cadono, ultimi, anche Girard e Guischard, quest’ultimo rinnegando la fede cristiana alla quale si era convertito (1086-1228). Guglielmo torna, solo e sconfitto, al suo palazzo, dove Guiborc gli fa coraggio: in sua assenza ha radunato trentamila uomini, ai quali racconta, mentendo, che Guglielmo è vincitore; ora bisogna inseguire i Pagani e impadronirsi della ricca preda (1229-1432). Guglielmo torna con i suoi all’Archamp; di nascosto, con la complicità di Guiborc, lo segue Gui, giovanissimo fratello di Viviano, che si dimostra eccellente cavaliere, salva lo zio nella mischia e infine decapita Deramé già ferito per impedirgli di avere discendenti. Tutti i Francesi sono morti, Guglielmo e Gui rimangono soli e vincitori (1432-1980).
La canzone potrebbe finire qui; ma a questa prima parte (detta comunemente G1) segue una seconda parte (G2), che molti considerano un’aggiunta posteriore, e che in effetti rispetto alla prima presenta una serie di incongruenze. Guglielmo trova Viviano morente ma ancora vivo (in effetti ai vv. 924 ss. si dice che i Pagani lo massacrano e ne nascondono il corpo, crivellato di colpi, sotto un albero, ma non si dice espressamente che è morto; e tuttavia sono passati diversi giorni!) e fa in tempo a dargli la comunione (1981-2052); poi, col suo corpo sul cavallo, torna verso Orange (altra incongruenza: tre giorni prima era partito da Barcellona); ma i Saraceni lo circondano, lo costringono a abbandonare il cadavere e catturano Gui (2053-90). Guglielmo uccide il pagano Alderufe (2091-2209; ma un Alderufe era stato ucciso tempo addietro da Viviano: semplice omonimia o ennesima incongruenza?); inseguito dai Saraceni, giunge sotto Orange; Guiborc non vuol credere che quel fuggiasco sia il suo sposo; questi è costretto a sterminare altri Pagani e a farsi riconoscere mostrando il suo naso; convinta, Guiborc lo lascia entrare (2210-2328). Piena di tristezza, Guiborc sa dare però un saggio consiglio: Guglielmo vada a Laon a chiedere soccorso a re Luigi; a difendere Orange rimarrà lei con settecento dame armate (2329-2453). A Laon il re accoglie Guglielmo con onore ma gli rifiuta il soccorso; l’eroe indignato lo ‘sfida’, ossia rompe il legame di vassallaggio e gli rende il feudo; ma sono presenti il padre, Aymeri, e i fratelli di Guglielmo, che gli promettono aiuto; allora anche Luigi si impegna a intervenire con trentamila uomini (2453-2509). Insorge la regina, sorella di Guglielmo, la quale odia Guiborc e la sospetta di volere avvelenare il re per mettere sul trono sé stessa e il marito. Guglielmo reagisce insultando la sorella; solo Aymeri gli impedisce di ucciderla. Luigi decide infine di rimanere inviando però ventimila uomini (2510-2635). Otto giorni dopo l’armata è pronta. E` a questo punto che compare il garzone di cucina Rainouart (Reneward nella grafia del ms; Renoart, Renouart in altri testi della geste), nuovo eroe di quest’ultima parte del racconto: di statura e forza gigantesca, vestito di stracci, disposto a combattere solo con la sua pesante pertica (tinel : palo per trasportare secchi) e a piedi, reagisce con furia omicida alle burle dei compagni. Partito con l’esercito, dimentica il tinel ; piuttosto che farne a meno, corre fino a Laon a riprenderlo (2636-2789). A Orange Guiborc riconosce in lui il proprio fratello, ma gli dice soltanto che aveva un fratello con lo stesso nome, per amore del quale gli donerà cavallo e armi. Rainouart accetta solo la spada: gli potrà servire se il tinel si spezzerà. Di nuovo è oggetto di scherzi pesanti e si vendica accoppando qualcuno degli incauti. Dà la sveglia a tutti a colpi di tinel ; così in piena notte l’esercito percorre ben quindici leghe (2790-2940). I «codardi» ottengono da Guglielmo il permesso di tornare; ma Rainouart li costringe a tornare all’Archamp, dove si batteranno da prodi (2940-83). Rainouart uccide i Saraceni a centinaia e libera i prigionieri cristiani (ma il poeta dimentica Gui, catturato al v. 2077), che raggiungono Guglielmo (2983-3156). Rainouart continua ad affrontare Pagani mostruosi e quasi invincibili, finché il tinel infine si spezza; si ricorda della spada; usa e ammira quest’arma «così piccola» che dà risultati straordinari. I Saraceni fuggono (3157-3342). Si torna a Orange con un enorme bottino e si fa festa, ma sbadatamente ci si dimentica di Rainouart, il quale, umiliato e offeso, se ne va ‘sfidando’ Guglielmo (3343-79). Guglielmo incarica quattromila cavalieri di ricondurre indietro Rainouart; lui ne uccide un centinaio, finché Guglielmo ottiene il suo perdono (3380-3473). Rainouart rivela di non essere mai stato battezzato. Condotto a un enorme fonte battesimale, ha Guglielmo e il nipote Bertran per padrini e Guiborc per madrina; riceve in dono ricchezze, feudi e una sposa, Ermentrud. Infine racconta la sua storia e viene riconosciuto da Guiborc come suo fratello (3474-3502).

La storia

Come per la Chanson de Roland, per il ciclo di Guglielmo si pone da sempre il problema del rapporto con la storia. Guglielmo d’Orange presenta infatti affinità innegabili con Guglielmo conte di Tolosa, venerato dalla Chiesa come san Guglielmo il 28 maggio.
Nel 781 Carlo Magno aveva costituito l’Aquitania in regno, assegnandola al figlio Ludovico o Luigi (il futuro Ludovico il Pio), nato tre anni prima, e affidandone l’amministrazione a nove conti, fra i quali il conte di Tolosa. Nel 789 la contea di Tolosa fu data a Guglielmo, figlio del conte Teoderico e di Alda figlia di Carlo Martello: Guglielmo era quindi cugino primo di Carlo Magno, parentela di cui i poemi non fanno parola. A lui fu affidata la difesa della frontiera pirenaica contro le scorrerie saracene. Nel 793 l’emiro Hixem I invase la Settimania, distruggendo i sobborghi di Narbona. Guglielmo lo affrontò — riferisce la Cronaca di Moissac — super flumen Oliveio, quasi certamente l’Orbieu fra Carcassonne e Narbona. Benché vittoriosi, i Saraceni subirono tali perdite che si ritirarono oltre i Pirenei col ricco bottino. Nell’803, al fianco di Ludovico, Guglielmo partecipò alla spedizione che si concluse con la presa di Barcellona e la costituzione della Marca Hispanica. Amico di Witiza, che col nome di Benedetto aveva fondato nel 782 l’abbazia di Aniane, Guglielmo nell’804 si fece monaco ad Aniane e fondò poi in un luogo solitario l’abbazia di Gellona, dove si ritirò nell’806 e morì nell’812. Al moniage dell’eroe epico corrisponde dunque quello del personaggio storico.
Il 15 dicembre 804 Guglielmo firma un atto di donazione in favore di Gellona per la salvezza della sua anima e di quelle dei parenti:

facinora mea minuanda vel de parentes meos qui defuncti sunt, id est genitore meo Teuderico et genetrice mea Aldane, et fratres meos Teodoino, et Teoderico et sorores meas Abbane et Bertane, et filios meos et filias meas Witcario et Hidehelmo et Helinbruch, uxores meas Witburgh et Cunegunde…

Anche la sposa Guiborc si aggiunge così agli elementi comuni ai due Guglielmi. Tuttavia, le discordanze sono molte di più. Nessun cenno, nei poemi, di una seconda moglie Cunegonda, dei figli (Guglielmo d’Orange non ne ha); genitori e fratelli hanno nomi diversi. Tutto il resto della leggenda di Guglielmo, a cominciare dal contenuto del Frammento dell’Aia, appare pura invenzione, con l’unica eccezione, forse, di Viviano.
Hermann Suchier credette di trovare il modello del Viviano epico nel Vivianus conte di Tours che ebbe un ruolo importante sotto il regno di Carlo il Calvo e che nell’851 morì in una battaglia contro i Bretoni, dopo che il re aveva abbandonato il campo. Luogo della battaglia, secondo Suchier, sarebbe stato Larchamp nel Maine. Ferdinand Lot respinse questa tesi, mostrando la labilità delle ipotesi di Suchier e delle presunte corrispondenze fra poema e storia. Sull’identificazione di Vivien con Viviano di Tours gli studiosi si sono divisi fino a oggi.
Sembra aver prestato qualcosa di sé a un personaggio epico il musulmano Abd-er-Rahman, il quale nel 732 capeggiò la famosa incursione che fu fermata da Carlo Martello a Poitiers: il suo nome — che è anche di diversi principi musulmani fra VIII e XI secolo — si rifletterà in quello di Deramé.
Circa quindici anni dopo la sua morte, Guglielmo viene celebrato in un poema latino. Nell’827 il chierico Ermoldo Nigello compone il poema In honorem Hludowici, narrando le campagne militari di Ludovico il Pio; il primo dei quattro libri contiene il racconto della conquista di Barcellona, il cui eroe principale è il conte Wilhelmus. Con le chansons de geste tuttavia il poema non ha in comune né il contenuto (nessuna canzone narra la conquista di Barcellona) né lo stile, che procede da una evidente imitazione di Virgilio, di Ovidio e di altri poeti latini. Si è molto discusso però sui versi 844-45 in cui Ermoldo, esaltando le gesta di Ludovico (non di Guglielmo, si badi), scrive:

Haec canit orbis ovans late vulgoque resultant ;
Plus populo resonant, quam canat arte melos. (ed. Faral, p. 66)

‘Il mondo intero canta con entusiasmo queste azioni, e se ne ripercuote l’eco fra il volgo; anzi risuonano più nel popolo che grazie all’arte della poesia’.

Allude forse a canti epici diffusi fra il popolo? Commenta Riquer:
‘Indiscutibilmente, Ermoldo non usa il verbo canere in riferimento al popolo: di conseguenza non possiamo affermare con sicurezza che alluda a canti popolari. Ciononostante, ci viene detto che le imprese guerresche carolinge godevano di una straordinaria popolarità. La poesia d’arte da un lato, il ricordo tradizionale dall’altro, iniziavano il loro lavoro immediatamente dopo i fatti storici. E` da presumere che le due correnti non avrebbero tardato a fondersi’.
E` possibile insomma, ma non certo, che all’inizio del IX secolo esistessero canti popolari sulle imprese degli eroi carolingi, o per lo meno di Ludovico il Pio. Su Guglielmo di Tolosa è difficile dire di più.
Resta il fatto che, rispetto a un piccolo nucleo di fatti storici dell’età carolingia abbiamo, tre secoli dopo, poemi che li ampliano e li modificano in maniera fantastica. (Andrea Fassò)