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Lettere di Aldo Capitini e Danilo Dolci

  
lunedì 23 febbraio 2009 legge Rocco Cerrato
La nonviolenza non è cosa negativa, come parrebbe dal nome, ma è attenzione e affetto per ogni singolo essere proprio nel suo esser lui e non un altro, per la sua esistenza, libertà, sviluppo. […] La non violenza non può accettare la realtà come si realizza ora, attraverso potenza e violenza e distruzione dei singoli e perciò non è per la conservazione, ma per la trasformazione; ed è attivissima, interviene in mille modi, facendo come le bestie piccole che si moltiplicano in tanti e tanti figli. Nella società la nonviolenza suscita solidarietà viva e dal basso. […] È evidente che, come si può esaminare l’influenza della nonviolenza sull’educazione, formazione e trasformazione dell’uomo, così si possono studiare modi per condurre l’uomo alla nonviolenza per esempio, facendo partecipare i singoli, uomini e donne, all’istruzione, all’esercizio e al controllo della vita pubblica, alla produzione e alla distribuzione, tendendo ad eliminare i modi coercitivi, autoritari, le chiusure nazionalistiche, razziali, gli abusi burocratici, le prepotenze del potere e lo sfruttamento: tutte cose che sono, esplicitamente o implicitamente, violenza»(A. Capitini, Religione aperta). A quarant’anni dalla scomparsa del grande filosofo perugino fautore della nonviolenza, la Bottega dell’Elefante è lieta di leggere, assieme a Percorsi di Pace, alcune delle lettere inviate all’amico Danilo Dolci e da poco pubblicate per i tipi di Carocci.



ALDO CAPITINI-DANILO DOLCI, Lettere 1952 – 1968, a cura di G. Baroni e Sandro Mazzi, Roma, Carocci, 2008 (pubblicazione promossa dalla Fondazione Centro Studi Aldo Capitini)

30 [228-232]

(Pisa) 20 ottobre 1955
Carissimo Danilo,
Ho il testo della lettera che tu ti proponevi di diffondere per presentare ancora efficacemente la situazione di chi soffre la fame, e le decisioni che tu prendi e che proponi a tutti. Ecco le mie osservazioni:
1. Sono d’accordo nell’invito al digiuno "almeno per un giorno". Tanti di noi sono abituati a mangiare ogni giorno regolarmente, e non hanno mai interrotto questa abitudine se non qualche volta per malattia, quando cioè, non ne sentivano il bisogno e volevano rimettersi in salute, tornando al più presto a sentire l’appetito e a soddisfarlo senza alcun impedimento. Bisogna tagliare queste abitudini, bisogna sentire nel proprio corpo e nel proprio animo, che cosa è la fame, sentire gli odori e sentire che gli altri mangiano, sperimentare le tirature allo stomaco, la debolezza, la testa che gira. Il significato fondamentale sarà il contatto con tutti coloro che hanno sofferto e soffrono la fame in Italia e nel mondo, e che sono tanti. Ne verrà anche un’interruzione salutare al consueto procedere delle nostre giornate, nelle quali certe cose anche frivole ci sembrano fondamentali, e ci si spazientisce subito se mancano: sarà un risveglio al dolore, al disagio. Ma siccome lo avremo incontrato per nostra decisione, ecco che ne verrà uno slancio alla forza spirituale, alla sua libertà di porre un sacrificio, di sollevarsi a un ideale di unità con tutti coloro che soffrono. In dicembre, quando molti si accingono a fare grandi mangiate come se nel mondo tutto andasse bene, e non ci resti altro che godercelo tranquillamente, un giorno di digiuno-unità con gli affamati è una cosa sommamente religiosa. Te lo prometto proprio per le feste di dicembre.
2. All’obiezione che il nostro digiuno non gioverà agli affamati, anche se destinassimo ai miseri ciò che spenderemmo in quel giorno o in quei giorni, la risposta è facile: la nostra opera non è soltanto perché l’affamato abbia sùbito il cibo, ma perché ci sia unità tra tutti, perché il tu rivolto ad ogni essere sia di profondo affetto, vicinanza, compresenza. Il nostro digiuno è un atto di vicinanza, non giova, ma celebra un’unità di amore. Si capisce che da lì risorgeremo più decisi ad operare perché nessuno soffra la fame, e più aperti ad ogni essere nel mondo. Siccome in tutto il nostro operare anche sacrosanto, anche destinato al miglioramento fisico, al pane di tutti, potremo dimenticarci della situazione di chi nelle stesse giornate nostresoffre la fame, il digiuno di un giorno ce lo ricorda e fa sentire direttamente, personalmente, ci aggiorna anche se ci arresta un po’, e ci avvicina alla situazione di persone viventi, di tu; perché non c’è soltanto "il problema", ma ci sono anche le persone, e noi non dobbiamo soltanto lavorare per risolvere i "problemi", ma anche per unirci alle persone con il nostro intimo animo.
3. Riconosciuto il significato del digiuno, si presentano sùbito due regole perché questo risultato si realizzi effettivamente (ogni iniziativa ha le sue regole e una tecnica di attuazione). La prima è che il significato del digiuno non è diminuito per nulla se gli altri non lo sanno; non c’è, dunque, bisogno di dirlo, di cercare di dirlo. Gesù Cristo che sapeva bene il pericolo farisaico, raccomandava di non ostentare i digiuni. Difatti c’è sempre la tentazione di vederlo come quell’atto per cui noi siamo più a posto di coloro che non digiunano. Se il digiuno dovesse servirci per farci sentire meglio dei mangioni, dei "forchettoni", è meglio non farlo. Esso deve soltanto darci un avvertimento, una sospensione dell’ottusità quotidiana per la situazione altrui, e una unità amore con gli affamati: cose positive, e non polemiche con altre persone. L’altra regola è che il digiuno non deve compromettere le nostre forze in modo difficilmente rimediabile. Se fosse così, ci sarebbe il fatto che noi diventiamo malati, e siamo di peso agli altri che devono spendere tempo, energie, denari, per noi, e ognuno ha il dovere di evitare fastidi e pesi per colpa propria. Bisogna che ognuno, tanto più in un paese povero, cerchi di mantenersi in buona salute: è importante questo, per non creare altri impacci. Che noi soffriamo in silenzio è una cosa, che noi roviniamo il nostro fisico è un’altra cosa. Il digiuno di un giorno è sofferenza soltanto, di più giorni può essere origine di malattia per certi corpi.
4. C’è poi il caso del digiuno che sia prendere su di sé l’espiazione del male fatto da altri o da sé stessi. Gandhi digiunava anche se qualcuno faceva un grosso peccato nella sua comunità. Ora, che noi dobbiamo sentirci coinvolti nel male fatto da altri, che la bontà consista nel vedere gli altri, anche se peccatori come capaci di fare meglio può valere il mostrar loro che siamo convinti che nel male fatto da loro c’era un po’ di colpa nostra, è tutto vero, tutto religioso. Ma qui dovrei discutere a lungo sulla necessità dell’espiazione, che è nell’induismo con il Karma e con il cristianesimo con la crocifissione. Io credo che in una religione aperta non bisogna parlare di espiazione, che il colpevole o un altro per lui debba fare, ma soltanto di dare il bene, e subito, al posto del male. Uno ha ucciso, si moltiplichi la non violenza.
5. C’è infine il digiuno come arma pubblica di lotta. Lo sciopero della fame per affermare che si ha ragione, per es. da parte dei carcerati; i digiuni di Gandhi per far cessare stragi eseguite dal governo o dai propri seguaci. Questi digiuni hanno il significato ben visibile che soffrendo e correndo il rischio di morire, agiscono sugli affezionati a me perché si frenino o sulle autorità perché non si scateni, lasciandomi essa morire, il caos civile. Ma questo digiuno presuppone che ci sia questo legame, questa ripercussione, o affetto dei seguaci o paura delle autorità: deve esserci questo vincolo, questo rapporto di causa e di effetto. Gandhi digiunava per un grosso peccato commesso nella colonia; ma avverte che un tale digiuno da parte di un capo, o da un maestro di giovani non è da fare se non c’è affetto, e quindi dispiace in chi assiste al digiuno.
6. Nella società c’è chi soffre la fame, non lavora, non si istruisce, si guasta fisicamente e moralmente. Ci sono larghe moltitudini così. Tu, nel triangolo Trappeto Partinico Montelepre, stai vicino a gruppi di queste persone. Ma nella società c’è anche chi mangia, lavora, si istruisce, si mantiene sano fisicamente e moralmente. Tra questi ultimi bisogna subito distinguere chi fa queste cose in modo chiuso e chi le fa in modo aperto. I chiusi non hanno scrupoli e cercano di stare al mondo meglio che possono, anche con una certa dignità e senza colpe davanti al codice, e al massimo lavorano per la propria famiglia: il resto della società è mezzo, strumento; possono anche farsi un po’ di cultura, ma come cultura per loro, il problema degli altri non c’entra. Gli aperti fanno più o meno queste cose, ma ci aggiungono un tormento, uno scrupolo, un dolore continuo perché ci sono quelli che soffrono la fame, la disoccupazione, le malattie. Questa è l’apertura sociale: non esser tranquilli mai, perché ci sono altri che stanno molto peggio di noi. Come l’apertura religiosa è porsi il problema di chi è morto, e non ha la vita, come l’abbiamo noi. Ora, tu conosci l’apertura sociale, e ti sei mosso e sei arrivato a Trappeto. Altri hanno fatto molto meno, ti hanno dato qualche aiuto più o meno saltuario, oppure lavorano per un’elevazione spirituale e culturale che risulti al bene di tutti, e per una trasformazione politica-sociale-giuridica che migliori le situazioni tristi di questa società sbagliata, che ha bisogno di riforma negli animi e nelle strutture. Siamo ben convinti tu ed io dell’ampiezza del problema; e come che Gandhi, che pur diceva che agli affamati Dio si presenta come il pane, tuttavia mostrava il valore degli atti dell’anima, della verità, della nonviolenza, del rapporto amorevole con tutti, e non scatenava gli affamati a depredare il pane e ad uccidere gli affamatori, ma li elevava anzitutto spiritualmente, educativamente, e li liberava inquadrandoli in un metodo di lotta più civile di quello usato dai rappresentanti della civiltà; così tu ed io sappiamo di dover dare il pane e di dovere, nello stesso tempo, mutare il rapporto tra uomo e uomo in un rapporto liberato, aperto, eterno, da realtà di tutti, anche se si dovesse morire di fame. La differenza tra te e noi cittadini, anche se aperti, è che tu soffri e sei vicino a chi soffre; perciò noi abbiamo il preciso dovere (anche continuando, – per necessità di guadagno, per scelta di lavoro, per ragioni di salute – la vita che facciamo) di impiantare una vita che sia vicina, spiritualmente se non è possibile materialmente nello spazio, alla vita tua e dei tuoi vicini. Sto pensando ad un’iniziativa di questo genere, una specie di impegno di solidarietà economica e di un tipo di vita praticabile anche se spazialmente separati, che sia di massimo contatto con coloro che vivono in miseria (e ce ne sono in ogni luogo); farò uno schema che proporrò in discussione agli amici e ai C.O.R. ma oltre a questo che è il modo di vita, di costume e l’amministrazione dei nostri mezzi, c’è un’altra cosa che possiamo fare in modo aperto: portare avanti la lotta politico-sociale per trasformare la società, portare avanti il lavoro di valori d’arte, di pensieri, di idee, per trasformare l’uomo dal di dentro. Anche questo è necessario, pur se non dà immediatamente un pane allo stomaco degli affamati, ma dà vita dell’anima.
7. E c’è un lavoro che io ti consiglio di intraprendere, con i tuoi collaboratori. Sono i C.O.S., centri di orientamento sociale. Li sto riprendendo, alcuni mi hanno chiesto di ricostituirli, periodici, aperti a tutti e a tutto, cominciando dai problemi locali anche minimi.
Io posso controllare e indirizzare al lavoro, valendomi dell’esperienza di Perugia e degli altri luoghi, negli anni 1944-47. Ho fatto già un piano che posso mandarti. Se tu impianti e controlli dei C.O.S. settimanali o quindicinali in ogni paese o quartiere intorno a te, ponendo temi urgenti e guidando le discussioni, con ampi resoconti alla stampa, ed alle autorità, anche inviate alle riunioni, fai un’opera sacrosanta, sia per formare una comune coscienza informata, concreta, nonviolenta dei problemi e delle soluzioni, sia per creare quella risonanza alle tue iniziative, alle tue proposte ed anche alle tue decisioni, come può essere quella del digiuno settimanale a scopo di premere su chi deve muoversi: come può avvenire questo, se non hai costituito un legame il più largo possibile intorno a te?
Affettuosamente,
il tuo Aldo

167

Danilo, che facciamo? [appunto manoscritto di A.C. al testo ciclostilato]
Perugia, 10 agosto 1960

L’idea della marcia per la pace è piaciuta ad alcuni, ma non ha ancora avuto una grande risonanza. Bisogna fare ora una riunione per decidere se fare la marcia il 4 ottobre 1960, o se rinviarla per prepararla meglio. Perché la manifestazione raggiunga lo scopo di svegliare molte coscienze e di imporsi all’attenzione di tutti, bisogna che sia affollata, ben nota, viva, come sono state quelle dell’Estero.
Propongo, perciò, a coloro che rappresentano movimenti affini, gruppi, riviste, una riunione a Perugia nella mattina di domenica 4 settembre per esaminare:
1, la propaganda che ciascuno si impegna di fare, le adesioni di partecipanti che si possono raccogliere;
2, chi si impegna di venire a Perugia giorni prima della manifestazione per aiutare l’organizzazione;
3, la possibilità di raccogliere mezzi;
4, l’opportunità di costruire un Comitato.
La riunione si può fare domenica 4 settembre, alle ore 10 precise, a casa mia in Viale Roma 19 (filobus n. 2, scendere a porta S. Pietro).
Nel pomeriggio alle 17,30 riunione pubblica al C.O.R. in via dei Filosofi n. 33 sul tema "Ragioni attuali della nonviolenza": chi vuole, potrà intervenire.
Cordiali saluti. Aldo Capitini
Carissimo,
mandi qualcuno? [nota manoscritta in calce al testo ciclostilato]
MARCIA PERUGIA-ASSISI

PER LA FRATELLANZA DEI POPOLI [Documento allegato]


Nell’idea di "fratellanza dei popoli" si riassumono problemi urgenti di questo tempo: il superamento dell’imperialismo, del razzismo, del colonialismo, dello sfruttamento; l’incontro dello Occidente con l’Oriente asiatico e con i popoli africani che aspirano con un impetuoso dinamismo all’indipendenza; la fratellanza degli europei con le popolazioni di colore; l’impianto di giganteschi piani di collaborazione culturale, tecnica, economica; lo sviluppo di strutture democratiche, autonome e intercomunicanti, in ogni parte del mondo; l’avvento di tutti i giovani in un’educazione aperta e fraterna; la fine del pericolo della guerra e dell’educazione alla violenza; il risparmio di somme enormi da destinare al miglioramento delle zone depresse e al sollevamento e al conforto dei sofferenti e dei vecchi.
Il Centro di Perugia per la nonviolenza, indipendente dai partiti politici e dalle religioni, promuove una manifestazione pubblica, pratica, elementare e significativa, in forma di marcia da Perugia a Assisi, alla quale potranno partecipare persone di ogni fede e ideologia, di ogni condizione e paese. Il termine di Assisi è scelto perché San Francesco nel Medioevo e in occidente, e Gandhi nell’Età moderna e in Oriente, sono due grandi maestri popolari attuatori e propagatori del metodo nonviolento, da cui si possono sempre prendere, anche avendo diverse ideologie, preziose ispirazioni. Starà ai partecipanti alla marcia allargare e arricchire con i loro "cartelli" il significato della manifestazione.
La marcia, ordinata e sottile per non disturbare il traffico (e sul lato sinistro della strada), si muoverà da Perugia il 4 ottobre 1960.
Sarà necessario predisporre un’accurata organizzazione, e raccogliere fin da ora non solo adesioni ed offerte, ma anche promesse di collaborazione, perché la cosa abbia un carattere di efficacia e di dignità. Il 4 settembre sarà tenuta a Perugia una riunione per l’esame delle adesioni pervenute e delle possibilità di un’organizzazione adeguata; sulla base di questo esame sarà confermata la data della marcia.
Per informazioni rivolgersi al Centro nonviolenza, casella postale 201, Perugia.
168 [211]
(settembre 1960)

Una bibliografia essenziale sulla nonviolenza (in italiano)



1. Autobiografia di Gandhi editore di Treves
2. Aldo Capitini: Elementi di una esperienza religiosa (Laterza)
Nuova socialità e riforma religiosa (Einaudi)
Discuto la religione di Pio XII (Parenti)
Aggiunta religiosa all’opposizione (Parenti)
Danilo Dolci (Lacaita)
L’obiezione di coscienza in Italia (Lacaita)

Religione aperta (Guanda)

Rivoluzione aperta (Parenti)
3. Albert Schweitzer: Pensieri?
4. Albert Einstein: Idee e opinioni (Schwarz)
5. Lamberto Borghi (cosa è più utile?)
6. Edmond Privat: In India con Gandhi?
7. Giovanni Pioli: Per l’abolizione della guerra (Sirio Trieste)
Rinunzia alla violenza (Alaya Milano)
8. Faim et Soif, n° 22 (1958): L’India di Gandhi e la nonviolenza
9. Tibor Mende: Conversazioni con Nehru (Einaudi)
10. Nehru: Autobiografia (Feltrinelli)
11. Gandhi: Lettere dall’Ashram

Caro Aldo,
potresti integrare questa bibliografia?
Speravo che due di noi venissero con voi, da Perugia ad Assisi. Ma ho visto la copia della lettera che ti hanno mandato…Tienici comunque informati almeno uno verrà.
Con affetto e gratitudine
Danilo
Tra poco riceverai gli appunti.


181 [223-226]

Cagliari, 7 febbraio 1961

Carissimo Danilo,
Ho letto con molto interesse le tue note sull’India. Quello che hai visto deve essere terribile, e mi stupisco che ci sia gente che abbia voglia di perdersi a guardare i vecchi templi, e i vari paesaggi. Resto tuttavia convinto che quello che è il paese che finirà per dire più di tutti, appunto perché da tanti e gravi contrasti in sé, non vuole mollare su certi principi, e soffre, e vuole essere moderno. I Cinesi, razionalisti e meno sensibili al "vivente", si sono gettati alla pianificazione, e faranno grandi passi, ma tutto non è pianificabile, e un giorno avranno bisogno (come al tempo di Budda) dell’India per riacquistare il senso del vivente, del decentramento, della nonviolenza. Certo, gli indiani per le loro vecchie idee o scrupoli o miti, perdono tempo e vite, ma bisogna riconoscere che l’ideale costituisce una riserva. Il problema è di depurare le vecchie idee e questo mi pare che Gandhi lo abbia fatto, ridandole alla nonviolenza, che è amore all’esistenza, alla libertà, allo sviluppo di tutti. Depurare e attivizzare al massimo, più ancora dei pianificatori spietati. I gandhiani, tu con i tuoi, noi, dobbiamo riuscire in queste due cose: 1) salvare il meglio del "vecchio" (Cristo, San Francesco, Budda, Gandhi), istituendo una riserva per quanto ne avranno bisogno i pratici violenti, e 2) costituire un’attività molteplice molto maggiore di quella dei pianificatori che tagliano gli indugi col coltello, ma finiscono con l’essere meno attivi, tanto gli ostacoli si vincono con la forza. Il racconto che tu fai di quella specie di alveare che sono i gandhiani con le loro attivissime iniziative, mi pare che sia un esemplare. Lì è lo spirito di Gandhi (specie di più largo e moderno moto di San Benedetto, che si occupò della campagna nella rovina del mondo antico), non in Nehru, o nei gruppi ufficiali dirigenti, pieni di compromessi.
Resta un problema grosso: il rapporto con lo Stato, e con ciò che esso deve fare con interventi centralistici e giuridici. Spostato il centro – capovolto il metodo Stalin-Cina –, lo Stato deve dare a tutti, anche se non sono pienamente aggiornati alla più rigorosa nonviolenza; lo stato interviene con strumenti giuridici che si valgono di coercizioni. Per arrivare a questi in India è necessaria una larga e cosciente attività politica, democratica, avanzata (trovando i denari e quindi socializzando le grandi ricchezze, creando scuole, facendo grandi lavori pubblici). Ma se ci fosse soltanto questo e non il lavoro "alveare", si perderebbe moltissimo. Come nel Risorgimento italiano la Destra resse per qualche anno dopo il ’70, e poi venne la sinistra, così là ci vorrebbero alcuni gruppi dirigenti di politica avanzata, e non so se ci siano. La nonviolenza approfondita supererà l’idea del karma e del ricco meritevole. Ma finché non sono arrivati alla nonviolenza come amore per i singoli tu, direi che è meglio che pensino che i ricchi sono meritevoli, altrimenti i miseri ammazzerebbero tutti. Così in Italia, finché i miseri non sono diventati profondamente nonviolenti, è meglio che mitologicamente temano l’inferno, altrimenti ammazzerebbero milioni d’italiani e di fratelli. Naturalmente il lavoro da fare è di togliere i miti (in India e in Italia), e di dare loro la vera e profonda ragione della nonviolenza.
Nelle tue Note vedrei, verso la fine, un pericolo di incomprensione o di fraintendimento, ammettendoeccezioni alla nonviolenza; così si va a finire in Stalin. Io mi auguro che le eccezioni i gandhiani non le facciano, e nello stesso tempo stimolino una politica che attraverso lo Stato fornisca adatti strumenti.
Non so quanto resterò qui, e quanto starò nel Continente. Hanno dichiarato l’edificio universitario mal sicuro, e si fanno esami, e non lezioni. Forse verso il 15 febbraio vado a casa. Tienimi informato dei tuoi movimenti. Sarebbe bene che ci vedessimo, per stabilire alcune cose importanti. Meglio se metti in programma una corsa a Perugia. Io ho forti limiti per le mie condizioni di salute.
Affettuosi saluti a te e Pietro [Pinna],

Aldo


A presto! Quasi certamente sarò a Perugia dal 12 febbr. al 12 marzo. Il 27 febbraio ci sarà, forse, a Roma una riunione per il progetto per l’obb. di cosc., non so se vi andrò, per via della salute. Sarai avvisato della data.

186

Perugia, 16 maggio 1961

Carissimo Danilo,
Ricevo il tuo telegramma e ti ringrazio dell’occasione che mi dai di essere presente in mezzo ai tuoi amici, che sono anche miei amici. Domenica 14, nella sala del nostro Centro di orientamento religioso ho parlato a lungo delle tue corrispondenze dall’India e dall’America (che gentilmente mi hai mandato), davanti ad una riunione numerosa, che poi ha discusso largamente, ascoltando anche le testimonianze di Giovanni Piergallini e di Luisa Schippa, che è tornata con grande affetto e stima per il nostro lavoro. Io non ho il testo di ciò che è stato detto nelle due ore e mezzo della riunione, ma ho presenti i punti principali.
Anche se la ragione dei due viaggi di Danilo è diversa, perché in India egli è andato per una riunione per l’obbiezione di coscienza, il suo atteggiamento è costante: osservare il rapporto tra disoccupazione e pianificazione, ispirandosi ai due principi nostri, sociali e religiosi: 1) che ci sia il lavoro per tutti; 2) che tutti cooperino partecipando alla pianificazione. Perciò egli trova inadeguati a questo duplice ideale l’India e gli Stati Uniti, il paese più povero e il paese più ricco del mondo, uno che subisce le conseguenze del colonialismo che è sempre parziale, un altro che porta le conseguenze dell’individualismo liberistico e proprietario. Sono due grandi Paesi, che hanno in comune di essere stati colonie dell’Inghilterra, e che probabilmente nel futuro si incontreranno sempre più. Ma bisogna stare attenti a non confondere Gandhi con tutta l’India o Roosevel con tutti gli Stati Uniti americani. Sarebbe come confondere Mazzini con tutta l’Italia dell’Ottocento.
Si capisce che l’attenzione e la tensione di Danilo è stata maggiore in India che in America. In India il sentimento umano è stato più scosso, la problematica è apparsa più vicina a quella di Danilo stesso nella Sicilia. Anche per noi è importante. Sono convinto che con il tempo l’India avrà da dire al mondo più dell’America. Negli Stati Uniti è prevedibile un continuo contrasto e continui compromessi a sempre più alti livelli tra l’individualismo e gli interventi collettivistici statali, per la resistenza che gli americani hanno verso le pianificazioni, che pur saranno necessarie.
Ma l’India sta peggio e io penso che darà di più. Mentre l’antefatto degli Stati Uniti è lo slancio alla potenza (espressa così bene nella fotografia, che è nella corrispondenza, del grattacielo Rockefeller), con un certo senso del diritto naturale e del libero godimento delle cose della vita; l’antefatto dell’India è l’universalismo cosmico religioso, mitezza d’animo e di costume.
Gli americani tendono all’espansione e possono fare un impero come i Romani; gli indiani, al massimo, hanno l’ingenuità di fare gli apostoli insistenti e sorridenti di cose che certe volte sono tanto semplici che già le sappiamo.
Giustamente Danilo osserva il ritardo che l’idea della reincarnazione porta ad un attivo interesse sociale; giustamente osserva che una interpretazione remissiva e stagnante della nonviolenza non basta, anzi è sbagliata. Tutti abbiamo ammirato la descrizione del Gandhigram, del villaggio gandhiano, della comunità che è un alveare di iniziative esatte. Io penso che l’importanza di quella costruzione di vita, come di quella di Danilo e dei suoi collaboratori in Sicilia è molto grande, perché in queste cose c’è una riserva non solo sociale, ma anche religiosa. L’Europa è avvelenata dai nazionalismi reazionari, l’America ha troppe tentazioni di titanismo imperialistico e affaristico che può portare al bellicismo e a spazzare via gli avversari, come disturbatori "dell’ordine" americano. Invece quel lavoro paziente di comunità nonviolenta che studia se stessa e forma strumenti per guidarsi ed elevarsi, è veramente l’indicazione di un ritmo più pacato, di un vivere dove ci si conosce e ci si controlla insieme, e dove si progredisce rispettando sempre più la vita.
E la pianificazione? Ecco in breve ciò che penso in proposito. Ho scritto da decenni che ci voleva una pianificazione dal basso e sono contento di vedere che essa è avviata. Per me significa questo: l’intervento di tutti per migliorare e aiutare le condizioni di ciascuno si realizza in due direzioni: una è questa del lavoro di centri e di alveari sacrosanti, che realizzano in modo moderno e più grande, ciò che fecero i benedettini mentre il mondo antico si disfaceva; e l’altra è quella politica-centrale che fa pianificazioni generali, ma apertecontinuamente agli stimoli e alle presenze e ai dati che vengono dal basso. La collaborazione di queste due attività produce, secondo me, risultati più duraturi.
Mentre c’è una pianificazione centralistica, dall’alto, prevalentemente industriale che impone se stessa a tutta la periferia, e sacrifica qualche volta due cose preziose:

1) la libertà di informazione e di critica per tutti, anche i senza partito, i popolani, gli umili, le donne, gli ultimi (anzi da dare specialmente a loro);
2) l’educazione alla nonviolenza e a sentirsi uniti nell’intimo a tutti, sempre più in esterno.

Deve esserci un’altra pianificazione, che è, da una parte, politica, coraggiosa, severa verso gli sfruttatori, ma dall’altra parte prende ispirazione, stimoli, e riceve continui controlli dalle comunità dal basso nonviolente. Perciò bisogna costituire queste; e una tale forza susciterà, al fianco suo, la pianificazione aperta e non chiusa.
Se in India si svilupperanno, da un lato le comunità gandhiane nonviolente, dall’altro le correnti politiche a indirizzo socialista, forse si realizzerà questo tipo che sto dicendo. E allora l’insieme sarà più complesso e profondo, più utile all’umanità, di ciò che sta facendo la Cina, indubbiamente molto serio.
In Occidente le cose sono più difficili perché cresce il borghesismo che si accontenta di divertirsi per sé e, al massimo, per i familiari, e le due grandi forze, l’America e la Chiesa romana, sono stabilizzatrici di un ordine che è passato, non fondato sulla religione della compresenza di tutti e sulla vita pienamente solidale di tutti. La Chiesa divide l’umanità in credenti e non credenti, in salvati e dannati; difende la proprietà privata, si allea con i capitalisti e i generali; solo nell’apparenza è nonviolenta, o lo è per lasciare le cose come sono. Le colonie dei paesi cattolici erano o sono le peggiori. E anche l’America dovrebbe rimuoversi, e arrivare alla religione della nonviolenza, della compresenza di tutti. Ci vorranno decenni, forse secoli. Intanto vorrà fare i suoi affari, non perdere il livello del suo benessere. Ma in questo c’è qualcosa di borghese e di vecchio. Invece dal lavoro dei centri di India e di Sicilia viene un’aria fresca e vivificante, di mattino.
Ripeto: bisogna far vivere una pianificazione ispirata, sollecitata, chiesta ma anche controllata da zone dove si siano stabiliti rapporti umani di socialità nonviolenta. Allora la pianificazione del centro può prendere anche provvedimenti coercitivi, ma sarà evidente a tutti che non sono per durezza razionale. Ripeto: il ricambio fra due azioni così condotte è sano e vitale. Siamo grati a chi lavora per costituire anche in Italia queste forze e coscienze dal basso, che provocheranno certamente una migliore politica anche dall’alto.