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Lavinia fuggita-Anna Banti


lunedì 02 marzo 2009 legge Donatella Franchi

Nei conservatori veneziani del ’700 una serie di divieti impediva alle donne di comporre musica. Così Lavinia, maestra del coro e d’orchestra al Conservatorio della Pietà di Venezia dove insegnava Antonio Vivaldi, è costretta ad alterare le partiture del famoso compositore per far eseguire la propria musica. Tutto il racconto si basa sull’intreccio tra creatività e relazione, tra la necessità di creare di una donna e le regole e i ruoli imposti dal potere.
Lavinia, che impersona l’energia creativa delle donne, e le due amiche che rappresentano la capacità di riconoscere e trasmettere la sua creazione, sono figure emblematiche di un percorso di ricerca di sé che passa necessariamente attraverso la separazione e la sofferenza per raggiungere la consapevolezza del proprio valore e della propria originale capacità di esprimersi.
Si tratta di temi connaturati alla scrittrice, il suo romanzo più famoso è Artemisia, incentrato sulla figura della pittrice Artemisia Gentileschi.
Il racconto Lavinia fuggita è stato tradotto in un’opera da camera e in una installazione che intreccia più forme artistiche.



Anna Banti, Lavinia fuggita ( tratto dalla raccolta di racconti di Anna Banti Campi Elisi, Mondadori, Mi, 1963 )

Fu un miracolo che Iseppo Pomo, battellante chiozzotto, imboccasse diritto il rio della Pietà; dalla laguna la nebbia colmava ogni fessura dell’abitato e passar sotto il ponte e trovarsi nel rio non cambiò nulla, soltanto le voci che volavano per l’aria, fitte e allegre come fosse bel tempo, risuonavano in una maniera diversa, più stipata. Erano voci di donna: forse sul ponte, forse dalle finestre, e parlavano svelto come a Chioggia non si usa. Iseppo vogava cauto e lento, il barco era pesante e bisognava stare attenti che il portello dell’Ospedale non gli sfuggisse…
…Un campanone smisurato comincia a suonare. Iseppo poco conosce Venezia, ma non occorre pratica per capire che questa è la voce di San Marco. Sono, sul principio, rintocchi inceppati, ingroppati, quasi la nebbia non li lasciasse passare, senonchè la nebbia alleggerita, le finestre del rio si distinguono e anche il suono si sta liberando. Per godersele, Iseppo chiude gli occhi, sebbene non sia un suono festoso, tutt’altro, anzi sembra che un immenso colombo stia lagnandosi nel cielo velato e singhiozzi per tutti quelli che faticano e son tristi senza un perché.
…Iseppo si riscuote, sta per aprire gli occhi, quando gli batte in fronte un tocco leggero come una beccata d’uccello. Guarda, è una cartaccia che lo ha sfiorato cadendo dall’alto e adesso è ai suoi piedi: una carta scritta e spiegazzata, di quelle che si buttano perché non servono più.
Curioso e sveglio, il ragazzo si volta in su e davvero come di uccelli smarriti remiga per la nebbia rarefatta un volo di fogli che l’aria conduce lentamente. Lui è solo nel battello e non può muoversi per acchiapparli come gli piacerebbe e farebbe, se fosse coi piedi in terra. Li segue dunque con gli occhi, ma intanto spinge e aguzza lo sguardo da dove possa essere piovuto quello sciame che adesso il rio è pieno e paiono oche e papere screziate, galleggianti su uno stagno. Le finestre della Pietà son tutte graticci, ma certo all’ultimo piano, dove la nebbia copre ancora la visuale, ce n’è qualcuna libera. Fu per questa osservazione che Iseppo si mise a perlustrare queste grate e Zanetta lo vide, pigiata fra le figliole da ago che aspettavano l’uscita della sposa. Se lo raccontarono quel fatto, quando anche loro furono sposati. Lei vide Iseppo, ma Iseppo in quel momento non vide lei, e ritornava a guardare in alto come un allocco perché i fogli seguitavano a piovere, tanto che anche nel barco ne capitarono una diecina e il ragazzo potè raccoglierli e scartocciarli, pensava che verrebbero buoni a qualcosa, erano fibrosi e resistenti. Appunto mentre li lisciava col palmo, dietro le grate della Pietà si mise un vocìo, un frastuono che cresceva: lui ripose le carte sotto poppa e gli faceva rabbia non vedere in faccia queste ragazze che pigolavano. Appunto mentre stava chinato lo colpì sulla schiena un grosso oggetto che non era un sasso, ma duro e sgarbato come una mano villana. "Oè, oè" fa lui voltandosi acceso e pronto a insolentire, mentre con la destra gli riesce di acchiappare un quadernaccio spesso, squinternato dal volo, che per poco non finisce in acqua. Il barco accusava anch’esso il colpo, oscillando, dalle grate le invisibili ragazze ridono spiegatamente. Iseppo non apre il volume, come niente fosse lo ripone insieme alle altre carte. Se lo avesse aperto, pensava, lo avrebbero canzonato. Non dubitava tuttavia che le pagine del volume fossero simili ai fogli che aveva raccolto e disteso. Erano fogli scritti. Ma d’una scrittura bizzarra, e Iseppo, che dal prete un po’aveva imparato a leggere, non la riconosceva. Fasci di righi come nastri, neri, e in mezzo, impigliati certi segni come mazzetti di ciliege, ma fatti male, o come girini colla coda: quando gli vennero in mente i libri che leggono quelli che cantano in chiesa e si ricordò di aver saputo che le figliole della Pietà son brave a cantare e a suonare.
Pareva che non si fossero mai separate, che soltanto un muro e le diverse occupazioni della mattinata le avessero, come un tempo, divise per qualche ora. Non si abbracciavano. Zanetta si sedeva, cavava il cucito, tirava il primo punto la beccata dell’ago sulla tela inseguiva il crepitio dei fuselli: perché le dita di Orsola, propriamente, volavano. Casa Bertozzi è alta come una torre, costruita sulla sabbia in faccia al mare libero, senza compagnia, lontana, forse per superbia di ricco, dalle poche case degli ortolani che hanno alle spalle il porto e possono raccontarne la giornata…Dei casi loro, della loro stessa nuova vita non parevano curiose e neppure interessate. Cadeva in terra un gomitolo, Zanetta si pungeva un dito: l’intercalare di Apollonia che cuce o di Giuditta che fila, ritornavano sulle labbra delle due compagne spatriate, ricreando le mura e la luce del laboratorio perduto, dove ognuna si lagna e tutte complottano la cabala della fortuna. Così, era naturale che Orsola mormorasse: "se non rifanno l’ultimo scalino del coro, qualcuna si azzoppa di certo", a cui Zanetta, dopo aver infilato l’ago, rispondeva che è come la storia delle spinette, il Menegoni non ci perde tempo, durano accordate un giorno solo. Allora Orsola abbandona le dita sulle mazzette e gli occhi sulla vetrata. Sospira: "gran bello stare sulle Zattere, di maggio". Anche Zanetta ha smesso di cucire e anche lei fissa i vetri da cui, oltre il cielo, appena scorge un filo di orizzonte…
Alle Zattere andarono per l’Ascensione, questo è un gran ricordo anche perché Lavinia era con loro. E Lavinia disse, proprio quella mattina dell’Ascensione, che tutte si erano levate avanti giorno e perdevano la testa per la smania d’imbarcarsi: "quest’altro anno non saremo insieme". Nel comune silenzio la rivedono, le sue due amiche, alla grata del dormitorio da cui speculavano insieme che tempo farebbe: a testa in su, con quel suo magro profilo aquilino e le corde del collo tese come fosse una vecchia, eppure era giovane ma si vedeva che non era una delle solite e sapeva quel che diceva…
I tre barconi furono appena sufficienti e ci volle un gran tempo perché tutte scendessero lo scalino scivoloso, specie le giubilate che avevano paura e volevano dire prima l’avemaria. Le ragazze lavoranti stavano in piedi strette come acciughe e aggrappate l’una all’altra che al minimo movimento crollavano tutte insieme: quelle di coro, invece, s’erano accomodate sotto la tenda e mostravano di conversare come dame, quasi non s’accorgessero dei curiosi fermi a guardare sul marciapiede, popolo e cavalieri che ne dicevano di ogni colore. Fra loro, Candida la sciancata di buon cuore, faceva cenno a Lavinia che venisse avanti, ma pareva che Lavinia non sene fosse avvista, essa rimaneva in piedi accanto all’albero, la più alta di tutte, e il vento che le frugava la sottana sembrava che non ci trovasse nulla, tanto era magra. A causa sua Orsola non profittò del privilegio di oboista scelta anzi, traballando, insieme a Zanetta, aveva finito per avvicinarsele e tirarle la veste. Toccava sempre a loro due, in ogni occasione, ricordarle di tenere il suo rango di maestra, lei non si curava di soprusi, eppure aveva fama di superba. C’era da aspettarselo. Neppure si voltò, stava lì impalata, e colle labbra e le narici strette quasi trattenesse il respiro, guardava verso il Lido. Non c’era altro da fare che lasciarla stare, e pensare a godere la barcheggiata per conto proprio, che con quel vento allegro e il sole e la gran confusione, pareva di essere in viaggio…
C’era, laggiù, una gran vela rossa e gialla, esse conoscevano bene la mattana di Lavinia per i velieri grossi che vengono di lontano, tutte lo sapevano, alla Pietà, che era stata trovata in un lembo di vela d’oriente. A questo punto successe il solito miracolo, Lavinia ritrovò il senso esatto del momento e senza turbarsi, con piede sicuro, filò fino a poppa, saltò, perse una scarpetta, la ripescò, piegata in due, da non sapere come facesse a raddrizzarsi …
Orsola e Zanetta avevano preso in mezzo Lavinia, Zanetta insisteva che si levasse la scarpa bagnata, lei ci avrebbe messo dentro il fazzoletto, tanto era larga, ma Lavinia diceva di no e spalancava gli occhi sui barconi ancorati lì presso, tanto fitti che passando dall’uno all’altro si sarebbe comodamente arrivati a metà acqua tra le Zattere e la Giudecca. Ragazzetti neri e nudi saltavano di ponte in ponte, si attaccavano alle corde, raggiungevano la nave più lontana, quella che, a un tratto, appariva enorme per vele spiegate e si capiva che stava per partire: il significato dello sguardo di Lavinia era chiaro. Per fortuna le due amiche erano lì a salvarla dalle idee balzane. Salvarla e salvarsi. Perché le idee di Lavinia paiono facili e semplici, appunto come saltare da un battello all’altro che appena occorrebbe alzare il piede per abbandonare la riva. Da Piccole fu la stessa cosa quando Lavinia passò dall’uno all’altro strumento con una facilità che irritava le specialiste: fu per levarsela di torno che la fecero maestra concertatrice, carica di fatiche senza spicco. Orsola deve a lei i suoi successi nell’oboe e Zanetta di essere tolta ogni tanto all’ago, per rafforzare i contralti. "Che ci vuole?" diceva Lavinia: e per sortilegio le difficoltà si scioglievano…
Nel giardino merendarono. "ce n’è, per Chioggia, dei bei giardini?" Chiede Orsola che non esce neppure per la messa. L’amica fa un verso, colle spalle e con la bocca, di scherno vezzoso e insolente: macchè. In verità chi aveva visto e goduto quel giardino non aveva bisogno di vederne altri, esso si specchia alla memoria, pulito come uno smeraldo… Nel giardino, naturalmente, Lavinia stava confusa fra lavoranti e bambine: non che si mescolasse alle chiacchere dei gruppi e ne facesse parte attiva, anzi si faticava a riconoscerla, così sbiadita e inerte, colle braccia lungo i fianchi come stesse aspettando un ordine: e neppure cercava di sedersi…Dal padiglione veniva correndo la Sagrestana, diceva qualche cosa alle più vicine e già alle lontane era giunto il bisbiglio: "c’è anche Don Antonio, presenta Angelica al Serenissimo"; quando la sua voce chiamò: "venga la maestra Lavinia, obbedienza della Priora": e affannando, dava l’affanno a tutte.
"Che cosa le avranno fatto?"…
Lavinia taceva e piangeva quando uscì dal padiglione. L’aria era viva s’era fatta aspretta, il pomeriggio era inoltrato, il giardino, colle sue foglioline brillanti, rifletteva il rosso e il violetto del cielo e non incoraggiava più i giochi e il chiacchierio delle stanche ragazze.
Esse si avvicinavano ai muri di cinta, le piccole ci si arrampicavano per guardar la laguna ancora tutta chiara, anzi pallida, appena sfiorata dal vento. Desideravano uscire, ritrovare i battelli, l'allegria e le peripezie dell'imbarco, non avevano più paura; ma si aspettava l'ordine della Priora. E invece della Priora uscì dal padiglione Lavinia, ratta come un cane frustato. Aveva sotto il braccio un grosso quaderno di musica, ma non di quelli usuali, delle partiture di scuola, coperti di bruno. Questo era più spesso, legato di tela rossa e gialla: sembrava raccolto da terra dove si fosse sfasciato, alcuni fogli pendevano. Lavinia piangeva, il suo pianto era ben visibile anche se si riparava nella rigidezza del viso, tutto teso in fermezza, a occhi spalancati, talché le lacrime che ne traboccavano le bagnavano le gote come una pioggia silenziosa. La luce rossa del tramonto le batteva in faccia, doveva vederci poco e infatti inciampò in una frotta di bambine che s'intestavano al gioco dei quattro cantoni. Orsola aveva riconosciuto il quaderno.
Ma, insieme a Zanetta, Orsola passava un momento cattivo, il pianto di Lavinia non la intenerì, anzi le parve un tradimento alla sua fiducia. Insomma se tutto era andato di traverso, la passeggiata, la vacanza, il godimento del giardino, la colpa era di questa sciocca col suo librone sotto il braccio, che non sapeva divertirsi come gli altri né lottare alla pari con le nemiche: e ora piangeva. Cosa s'era lasciata fare e dire? E cosa serviva, adesso, farsi scorgere? Il dispetto cresceva, per la parzialità che le portavano l'avrebbero pestata. Oscuramente sentivano che quel dispetto le salvava da un altro sentimento, struggente, che stava in agguato. Perciò le voltarono le spalle.
Alla Pietà, per cena, Lavinia mancò all'appello. S'era perduta come un fazzoletto, come un ago nella sabbia: impossibile raccapezzare quando era stata vista l'ultima volta, se si era imbarcata con le altre; Orsola e Zanetta, sgomente, ripetevano di non saperne nulla, e questa verità pareva inverosimile a loro stesse che, da quel punto, furono in disgrazia. La cercarono in casa, dalle soffitte alle cantine, a lume di moccoli, di lucernette, di stoppini, un corteo disordinato di ombre e fìammelle si sparse per ogni dove e l'Ospedale pareva invasato. Ogni semplice lavorante diceva la sua e si prendeva l'arbitrio di suggerire sciocche supposizioni, le piccole ricusavano di andare a letto per questo nuovo gioco che chiudeva la vacanza in modo così eccitante. Maestre e figlie di coro ciondolavano per i corridoi svogliate e scandalizzate, le soliste spingevano lo zelo e l'ironia fino a cercar sotto gli armadi e dentro i cassetti, dove non sarebbe entrato un gatto. Si frugò in chiesa, in coro, nei confessionali, fra i banchi, dietro l'organo, nella federa dei contrabbassi. "Lavinia" e "Siora Maestra" gridavano a intervalli le bambine; e l'effetto dell'eco, nelle vaste stanze, faceva ridere le più stordite. Ignazia camminava senza guardare né in qua né in là e borbottava paternostri a Sant'Antonio che fa ritrovare le cose perdute, ma la Sagrestana le diede sulla voce: "vergogna, chiedere aiuto a un gran santo per una svergognata"…

L'armadio di Lavinia era aperto, ebbero l'impressione che il battente ancora oscillasse. I suoi quattro stracci, qualche libro, un fascio di carte, tutto intatto: e, sopra le carte, il quaderno dalla copertina gialla e rossa, come appena deposto. Lo aprirono, era ben quello che Orsola conosceva, col suo titolo a stampatello,Lavinia del coro, Cantate e Concertini. Orsola lo sfogliava, Zanetta stava a guardare. Lo riposero in silenzio e, senza dirselo, furono certe che Lavinia non l'avrebbero vista mai più.
Avevano tanto parteggiato per Lavinia. Ma Lavinia, piangendo prima, scomparendo adesso, scrollava tutto l'edificio stravagante in cui viveva e portava a vivere chi le stava vicino. I suoi azzardi, quei pensieri di una naturalezza sconcertante che forzavano l'ordine delle cose, le regole, quel che dicono gli altri: manifestati senza asprezza di opposizione, anzi con una innocenza che s'imponeva come un diverso colore della pelle: tutto s'era sciolto e risultava chimerico, un sogno, forse un peccato. Lavinia lo sapeva, a quest'ora, se quel che aveva desiderato era malefico: a loro non rimaneva che ricordare e domandarsi se anche il ricordo fosse permesso o da sfuggirsi, chi non voglia dannarsi l'anima.
Fu proibito, infatti, dall'indomani, nominare la fuggiasca, chiederne notizie: e consigliato di comportarsi come mai fosse entrata alla Pietà e per tanti anni ci fosse vissuta. Per mesi, se le anziane e le sorveglianti ebbero occasione di riprendere una figliola per irregolarità o petulanza, usarono allusioni minacciose a un esempio esecrabile, estremo pericolo all'anima e al corpo: una sorta di tentazione diabolica purtroppo gravante sulla comunità, a cui ognuna potrebbe soggiacere se non stesse bene attenta. In quei casi, tutti gli occhi si volgevano dalla parte di Orsola, e anche di Zanella. Non fu tuttavia per questo che esse finirono per trovarsi male alla Pietà.
Di notte, dai letti vicini, si consultavano bisbigliando: ormai di giorno non avrebbero osato toccare un argomento tanto scottante e poco si facevano vedere insieme. Il fatto è che i loro ragionamenti portavano diritti a un'angosciosa ribellione: il che non era mai accaduto quando Lavinia era con loro. Si tormentavano: era così quieta, non cercava spassi, a nessuno portava rancore, non curava la vanità, ti ricordi? arrivava sempre vestita di traverso e coi capelli tirati. Qual era la sua colpa, oltre questa fuga che forse coincideva colla sua morte, se non la sua incapacità di gustare i privilegi di una ragazza dotata per il canto e per il suono? Tanto si accalorava ZanettaOrsola doveva pian piano zittirla, e una notte, dopo un gran sospiro, si risolvette a confidarle quel che non aveva mai detto a nessuno. Sì, Lavinia era buona e generosa, non aveva malizie e intrighi come quest'altre del coro, ma, purtroppo, non c'era modo di cavarle di testa la smania di alterare le partiture da eseguirsi, d'introdurre certe sue invenzioni e mutar la distribuzione delle parti, a volte sostituiva addirittura i motivi delle arie. Una pazzia, una maledizione. Lei se n'era accorta per caso e da principio non aveva visto in questo arbitrio che uno scherzo azzardato, una bravata che poteva costar cara ma si prestava anche a qualche risata. Queste manipolazioni non avvenivano del resto che in occasioni ordinarie, quando si sapeva che il Dalla Porta non era in Venezia, ed erano passate lisce, con gran sollazzo, anche se un poco impaurito, dall'unica confidente. La quale però s'era dovuta accorgere che Lavinia non se ne divertiva affatto, anzi tremava. Tremava copiando di nascosto le parti alterate, tremava dirigendo le prove e, da ultimo, si sottraeva ai suoi obblighi con cento pretesti e ne lasciava il carico a Chiara, a Lucetta: per questo l'avevano retrocessa da prima a seconda maestra del coro. Qualunque scusa avesse messo avanti per disimpegnarsi, non resisteva al desiderio di ascoltare le esecuzioni. Rintanata in cantucci da cui si poteva intendere senza esser visti, stava con la testa tra le mani, a momenti levava la fronte, faceva un gesto come per interrompere l'orchestra; si alzava in piedi di furia, pareva che a fatica si trattenesse dall'intervenire. Orsola soltanto, avvertita, aveva potuto seguire questi maneggi: i quali, da segreti che erano, andavano facendosi sempre meno cauti. Un giorno l'aveva incontrata che passeggiava in su e in giù, davanti alla porta del coretto, e si fermava e stringeva i pugni, poi ricominciava ad andare. Un'altra volta, eccola seduta, come se nulla fosse, sullo scalino che portava all'organo, col quaderno aperto al "maestoso" che le ragazze stavano eseguendo: e così, sulle ginocchia, ne annotava una variante, inventata allora. Cominciarono a coglierla in quegli atti che sembravano soltanto strambi, ed era una compassione sentirla ricorrere a certe spiegazioni assurde e marchiane, da bambini. Aveva perduto il ditale, le era caduto non sapeva dove. "È il modo, questo, di cercarlo?" si scandalizzò Ignazia, guardandole le mani macchiate d'inchiostro. E un'altra volta che venne a passare la Priora, disse che si sentiva male, che le erano venute le palpitazioni ed era corsa su a prendere aria. Stava, infatti, colla mano sul cuore, pallidissima, la testa appoggiata al muro, gli occhi socchiusi. La Priora la guardò, stette zitta un momento, le labbra le si gonfiarono di malumore, parve che stesse per scoppiare in qualche cosa di grosso: poi le ordinò due giorni di infermeria, guai se si fosse levata.
A letto, Lavinia non faceva che rimescolarsi sotto le coperte, sembrava che non potesse star ferma, e non mangiava neppure il pollo concesso alle ammalate. «Begli scherzi da stupida» disse Orsola che l'andò a trovare, ma neppure si mise a sedere, tanto c'era furia di prove quella settimana "ti rovini la salute e un giorno o l'altro ti pescano e perdi il concetto, ti mettono in lavanderia. Fortuna" continuava sorridendo "che all'oratorio di adesso non hai tempo di metterci le mani." Con un fil di voce, guardando il quadro di cielo chiaro sopra la grata della finestra, Lavinia rispose con una domanda: se questo oratorio, l'Ester non è vero? le paresse buono, le fosse piaciuto. "Che discorsi!" fa Orsola "certo che è buono, tutte dicono che Don Antonio non ha mai mandato di meglio dacché è a Mantova: ma cosa c'entra..." Allora Lavinia, colle vampe sul viso, e accennando a Orsola che si chinasse sul letto, prese a spiegarsi.
L'oratorio era suo, tutto scritto da lei, Lavinia. Da mesi l'aveva terminato, aveva aspettato l'occasione della lontananza del Vivaldi e l'aveva introdotto con la complicità di Zelinda, la portiera sordomuta, che non aveva capito nulla. La scrittura del maestro era stata imitata a meraviglia, nessuno aveva sospettato una soperchieria tanto eccezionale, così era stato disposto che per Pasqua l'oratorio fosse eseguito. "Capisci, non avevo altro mezzo, mai mi prenderebbero sul serio, mai mi permetteranno di comporre. La musica degli altri è come un discorso rivolto a me, io devo rispondere e sentire il suono della mia voce: più ne ascolto e più so che il mio canto e il mio suono sono diversi. Non è uno scherzo: potresti star zitta quando ti senti chiamata da chi ti vuol bene? Pensa dunque, qui dentro c'è tutto il mio bisogno, strumenti, voci, chi ascolta: ma senza inganni, per me, è come un tesoro sepolto, nessuno suonerebbe una nota sola di quel che invento. Povera me se se ne accorgono, se Don Antonio tornasse... Giura che non parlerai, giura!"
Orsola non parlò, ma costernata, eccitata non potè tacere a Zanetta ("te ne ricordi?") che anche una ragazza può comporre in musica, se vuole. Che s'è visto, e lei lo sapeva di certo. Voleva aggiungere: aspetta e vedrai; ma si fermò in tempo, e Zanetta, con un'alzata di spalle, tornò alle sue faccende, mentre Orsola volava all'ultima prova dell'Ester, era il venerdì santo. Le pareva, adesso, di dovere affrontare un impegno eccezionale, era sicura che l'assolo dell'oboe, così esteso e di primo piano, era stato immaginato per lei, provando, quel pomeriggio, si sentiva bruciare le guance e affondar gli occhi.- "Non sarà l'Ester che ti porterà in Parigi!" - rise Angelica, sfiorandola, mentre lei si levava il beccuccio di bocca e prendeva fiato: chissà perché quelle parole, quella voce ampollosa, quel socchiudersi degli occhi scuri che sempre ammiccavano con una soave ferocia, le diedero un brivido di freddo.
E difatti, il sabato mattina, chiamata improvvisa: l'Ester, con tutte le sue conclamate bellezze, passava in archivio, ordine di riprendere l'oratorio dell'anno scorso. Servì, a Lavinia, una vera febbre terzana che la trattenne in infermeria un mese buono, del resto nessuno parve sospettarla. Tanto le ripeteva Orsola che seguitava a visitarla, ma sembrava smentire, coll'inquietudine del contegno, queste assicurazioni. Invece diceva il vero, solo il suo stato d'animo era, da quel sabato santo, tutto un imbroglio di rimpianto, di ammirazione, d'indignazione; e anche, bisogna confessarlo, di dispetto. Non sopportava, insomma, che Lavinia rispondesse all'ingiustizia con tanta quiete, l'avrebbe voluta, malgrado la malattia, pronta al combattimento e vittoriosa. "Alla fine, chi te l'ha detto che non è permesso comporre? E vedi quante meraviglie per il perlato di Silvia, l'estensione di Angelica, la cavata di Barbara: perché non spiegarlo, di che sei capace? Vai dalla Priora, ti fai intendere, porti i quaderni: oppure chiedi un abboccamento a Don Antonio, la prima volta che capita. È un prete, infine, ha obbligo di confessione..."
Ma Lavinia non stava più allo scherzo, se pure c'era mai stata. Per far piacere all'amica, provava a ridere, ma gli occhi, ingranditi dalla febbre, le diventavano selvatici. Diceva che era finita, che ormai non avrebbe più il coraggio di ricorrere ai mezzi di prima; che mai più avrebbe potuto sentirsi. Non avrebbe mai parlato alla Priora, no, mai. Piuttosto sarebbe tornata ai suoi paesi. "Quali paesi, che non ne sai nulla" interrompeva Orsola per farla ragionare. Lavinia si voltava al muro e non rispondeva più.
A poco a poco, tuttavia, quel consiglio dato alla leggera, di aprirsi col Maestro, forse appunto per l'estrema audacia che comportava, si vide bene che non lo respingeva del tutto e che lo addomesticava in silenzio, durante le lunghe ore di letto. Cominciò a domandare: "E' tornato Don Antonio?". E arrossiva, sotto i lenzuoli tirati fino al mento, il petto le fremeva di un palpito precipitato, visibile. Eran cominciate le prove della Giuditta, l'ultimo e vero oratorio del Vivaldi, di nuovo Orsola aveva i minuti contati, arrivava a scappa e fuggi, e una sera s'affacciò all'uscio, il tempo di annunziare, più cogli occhi che con la voce: «È arrivato!». Sulla sua sedia di convalescente Lavinia faceva filacce per le piaghe: aprì la bocca, spalancò gli occhi, Orsola era già sparita. Ogni volta che ci ripensa, adesso che ha tutto il tempo di pensare, Orsola si convince che la sua gran fretta di quella sera, quel buttarsi a precipizio per le scale non era che un pretesto: arrivò infatti in coro prima di tutte, inseguita da una paura atroce, quella di sostenere l'aspetto di Lavinia sbigottita, Lavinia, così debole, messa al punto di decidersi; ora o mai più. Ancora oggi tenta di giustificarsi come l'amica fosse presente: un colpo di mano, quell'annunzio brutale, per metter Lavinia colle spalle al muro e darle la forza della disperazione. Ma non serve: quando Zanetta si lascia andare a ripetere: "cosa le avranno fatto", Orsola si sente complice di quelli che stavano nel padiglione e avevano in mano - sicuro come li vedesse - il quaderno giallo e rosso, il corpo del delitto confiscato. "Cosa le abbiamo fatto" vorrebbe correggere, e raccontare il tormento di quei giorni: Pasqua era passata, ma era come la settimana di Passione quando si è ragazzine e si piange per i triboli di Gesù. Meglio star zitta, perché turbare Zanetta? e pensarci stanotte, da sola, a quelle giornate spinose che Don Antonio s'era piccato a diriger di persona le prove della Giuditta, mai contento, dando di sciocca a tutte, anche a Giulia e a Pasca. Lavinia, convalescente, non si teneva in piedi e girava la casa come un fantasma, mentre pareva che, dalla Priora alle sorveglianti più accanite, nessuna si occupasse di lei. Eppure tutte l'avevano trovata, in ore indebite, ferma sugli scalini che menano al coro, non si capiva se salisse o scendesse; e nemmeno tirava fuori quelle sue scuse magre di prima,tanto si sapeva che nel nuovo oratorio non aveva parte alcuna. Il fatto è che per quelle scale, sull'ultimo pianerottolo, si apriva l'uscio del ridotto del Maestro, dove spesso, se lo coglieva il suo attacco d'asma, interrotte all'improvviso le prove, si rinchiudeva per un'ora e più, magari neppure si riposava, lo sentivano camminare. Per angoscia, dicevano. In quei momenti, guai chi osasse bussare a quell'uscio e Lavinia lo sapeva come l'altre. Pure, chi avesse avuto bisogno di trovarlo solo,non aveva altra occasione. Occorreva, a Lavinia, un coraggio enorme…

Fu una settimana giusta avanti l'Ascensione. Orsola è alle spalle di Lavinia, e lotta, al solito, tra l'affetto e lo struggimento di non poter fermare una macchina che va a precipizio: quella mano magra che scrive, quella testa china senza pace. Dice: "fa presto, smettila, Zanetta ha la chiave". Insiste "la chiave" e sa che Lavinia intende "l'altana". L'altana infatti è l'unico spasso che la tenti: trovarsi così vicina al cielo, e nessuno ti vede, anche se dalle terrazze intorno nasce un sussurro fitto come di uccelli e sono voci umane senza viso. "Volo: non credi che si volerebbe a buttarsi?" diceva due sere fa, e rideva come non aveva più fatto, metteva anche un po' di paura, sebbene alla fine scavalcarono tutte e tre la ringhiera e andavano su per i tetti come gatti. Ma stasera Lavinia non s'alza, si rigira soltanto e dice, guardando fissa l'amica: "a me lo faresti un piacere, Orsola?".
Glielo fece si capisce. Per quattro mattine di seguito si levò all'alba e in punta di piedi, sapendo quel che rischiava, salì in coro: se mai l'avessero sorpresa aveva la scusa pronta per una novena speciale alla Madonna. "Questo è il mio ritratto" le aveva detto Lavinia porgendole i fogli "lo impari e poi ti ricordi di me come fossi dipinta".
Era una lunga aria per oboe, come una lamentazione da giovedì santo, pareva sempre la stessa ed era sempre diversa, cambiava di tono ogni dieci battute, era difficilissimo prendere i fiati e Orsola penò assai a conquistarla. Quattro giorni e quattro notti passò smemorata, inseguita dalle volùte di quel canto: di notte, durante quel poco sonno, lo sentiva diffuso per tutto il corpo e nell'aria, le pareva che il cielo ne vibrasse. La sera del quarto giorno salì al camerotto di Lavinia, come una sonnambula."Sono pronta, mi dirai domattina se va bene."
Com'era già chiaro per le scale; le altre mattine Orsola non se ne era accorta, forse fu l'ombra di Lavinia che la precedeva a colpirla, sembrava che fuori ci fosse già il sole. Si sentiva agitata, ma non per paura di essere scoperta, al contrario provava l'ansia di quando, insieme alle compagne, prendeva posto davanti al leggio per una esecuzione solenne: imboccando lo strumento il fiato le mancava. Lavinia, davanti a lei, era austera di attenzione, "pareva una principessa" usa dire Orsola quando ripete a Zanetta di quella mattina. Era infatti tutta bianca nella luce di un finestrone e batteva il tempo come dirigesse un'orchestra. Le prime note furono timide, in sordina, dopo, quasi per la spinta di una ragione trionfante, l'aria si liberò da ogni cautela e ascese pura.
Pareva che il coro e la chiesa di sotto l'aspettassero, ora alla suonatrice faceva vergogna anche il pensiero di doversi nascondere, i fiati soccorrevano puntuali, il cuore le riempiva tutto il petto, la mente era così lucida che, senza scostarsi dal suono, registrò i segni della sveglia nei dormitori e non se ne atterrì, quasi se ne compiacque. Pacatamente, la volùta delle ultime note si allargò, si restrinse, smorzò il volume, mentre il cappellano della prima messa compariva sull'uscio della sacrestia. Neppure levò il capo e si avviava all'altare, piccolo, colla pianeta di traverso e Orsola era così contenta che ebbe voglia di riderne, la fermò una nuova soggezione per Lavinia e il sentimento che avrebbe dovuto ringraziarla. Ma come? Non si ricorda d'altro che d'essere scesa, senza fretta, dietro di lei che, all'ultimo scalino,si voltò e mise una mano sulla spalla, forse voleva parlare. Così si divisero.
Quello che disse Lavinia nei suoi ultimi giorni alla Pietà, Zanetta e Orsola lo rammentarono solo dopo che fu sparita,come succede delle ultime parole dei morti, che crescono col tempo. Allora, specie a Orsola, ancor presa dalla cantata dell'oboe, quelle parole vaghe, svaporate, parevano effetto di farnetico e sciocche da far rabbia. Lavinia non pensava più alla musica, fantasticava invece del levante, delle terre da cui credeva di essere venuta per via di mare sotto l'ombra di una vela gialla e rossa. "Devo tornare laggiù, qui non c'è posto per me, e ho bisogno di spazio. Mi vestirò da uomo, farò il pastore, all'aperto, sotto il sole e alla luna." Descriveva sul serio una pianura immensa e brulla, dove se alzi la voce ti risponde un'eco che non sai donde venga e non c'è limiti né regole per andare e per fermarsi per vegliare o per dormire. Avrebbe mangiato erbe e radici come San Giovanni e suonato un flauto di canna come i pastori antichi. "Ma che ne sai, chi te la detto che c'è una pianura così?" scoppiava Zanetta. "E poi come ci arrivi?" "E' il mio paese" rispondeva Lavinia con un viso beato. Smise anche di copiar musica e stava assorta; per punizione fu messa un giorno intero a pane e acqua.
Scomparsa lei, e discese nel fondo di quel disagio che era sgomento, rimpianto, e l'amaro sospetto di aver parteggiato per cose non lecite, Orsola e Zanetta non si resero conto che soffrivano anche per l'immagine di quella pianura senza limiti dove Lavinia non è più che una voce sotto il cielo, e nessuno può dirle: no.
Piace a tutte e due veder fiorire sui vetri, a poco a poco, il lume del cielo notturno, fatuo e sottile come una presenza diafana, messaggio, come a loro sembra, di lontananza. E' la luce dell'alto mare solcato dai barconi di levante che hanno la vela rossa e gialla e i marinai dai baffi di pece, chissà sul ponte non ci sia un pastore magro, tutto zigomi, che soffia in un flauto di canna e canta, con la voce dell'oboe, il ritratto di Lavinia fuggita. E' tardi, le mogli dei pescatori chiudono la porta di casa sul magro foco e sui bambocci raffreddati, vanno al porto, passando compreranno il pane per la cena, bisogna che Zanetta torni a bottega. Peccato, anche lei cominciava ad ascoltare il richiamo che Orsola aspetta, dal fondo di quella pianura senza limiti dove lo spazio si scioglie in una libertà che non è più solitudine, uno può chiuderla tutta nel petto; Orsola ha infatti chinata la testa sulla spalla e non ha bisogno degli occhi per raggiungere Lavinia e mostrarle, trionfante, il quaderno salvato, colla sua copertina e il titolo Cantate e concertini.