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Letteratura e identità nazionale - Ezio Raimondi


lunedì 20 gennaio 2003  legge Gian Mario Anselmi
"Gl' italiani hanno piuttosto usanze e abitudini che costumi". Le abitudini sono passive, mentre invece i costumi sono tradizione, scelta. Lo affermava amaramente Leopardi 180 anni fa. C'è in Italia una desolante "mancanza di società", sulla quale il poeta dei Canti medita nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi in Italia, con la stessa sensibilità filosofico poetica.E' il grande lettore Ezio Raimondi a ripristinare questa lettura originale di Giacomo Leopardi come colui che "si avvia verso quella che potremmo definire una sociologia della vita quotidiana del mondo italiano".Con notevole anticipo su temi oggi scottanti, Ezio Raimondi tenne nel 1993-94 un famoso corso universitario (poi raccolto in volume nel '98), sul temadell'identità nazionale italiana vista alla luce della nostra moderna tradizione letteraria. Attraverso capitoli su Leopardi, Manzoni, Nievo, De Sanctis, Croce, Serra, Gramsci, Longhi, l'autore apre finestre originalissime sulla storia culturale, politica e di costume del nostro paese.Di particolare rilevanza le pagine su un poco conosciuto Leopardi analista dei costumi italiani, sul cruciale tema della giustizia dall'ottica di Manzoni, sul passaggio di generazioni che segnò la nascita della nazione italiana. La lettura tenuta da Gian Mario Anselmi sarà dedicata al capitolo su Leopardi e in particolare a quella parte in cui Ezio Raimondi analizza il concetto di "società stretta" elaborato da Leopardi per definire il rapporto tra ceti dirigenti e governati, così diverso in Italia rispetto allo scenario europeo.

Ezio Raimondi, Letteratura e vita nazionale

Un poeta e la società: Leopardi

La "società stretta"

Leopardi, pur percependo rapidamente
il processo della civilizzazione moderna, definisce tale fenomeno con un linguaggio
che gioca di continuo sulla tradizione letteraria. Nel Discorso sopra lo stato
presente dei costumi degl'Italiani, egli scrive che "considerando le opinioni
e lo stato presente dei popoli", si nota subito "la quasi universale
estinzione o indebolimento delle credenze su cui si possono fondare i principii
morali, e di tutte quelle opinioni fuor delle quali è impossibile che
il giusto e l'onesto paia ragionevole, e l'esercizio della virtù degno
d'un savio, e da altra parte l'inutilità della virtù e la utilità
decisa del vizio dipendenti dalla politica costituzione delle presenti repubbliche".
Conseguenza di ciò è che "la conservazione della società
sembra opera piuttosto del caso che d'altra cagione, e riesce veramente meraviglioso
che ella possa aver luogo tra individui che continuamente si odiano s'insidiano
e cercano in tutti i modi di nuocersi gli uni agli altri" (p. 124).

Con questo periodare ampio e analiticamente ricco, il poeta osserva come il
presente nasca dalla perdita delle credenze, e il termine "credenza"
va inteso nel senso di fede appartenente a un passato lontano, capace di creare
principi morali. Quella su cui si fonda il presente è infatti una moralità
profondamente diversa. E' avvenuta una trasformazione radicale e, anche se non
viene detto esplicitamente, le morali del passato andate in crisi non sono state
sostituite da risposte in qualche modo esaustive.

"Il giusto e l'onesto" è espressione che traduce il latino
iustum atque honestum, modo di dire usato nel linguaggio della tradizione ciceroniano-umanistica
per definire una moralità, in un certo senso, pubblica e privata. In
altri termini, richiamandosi all'"inutilità della virtù"
e alll'"utilità del vizio" nelle repubbliche e negli stati
contemporanei, Leopardi indica che si è entrati in una civiltà
a stretto contatto con la concorrenza. Anche se si riferisce esplicitamente
al mondo mercantile, senza dubbio, la dialettica vizio / virtù è
legata alla battaglia che la vita contemporanea comporta.

Tutto ciò induce a osservare che la conservazione della società
è legata al caso e che, nella storia, non sussiste una logica profonda.
Risulta singolare come la società abbia trovato il suo equilibrio, mentre
gli individui sono in permanente conflitto fra di loro. In questa visione del
mondo hanno giocato le letture passate dei grandi moralisti del Seicento. Erano
loro a sentire l'umanità sottoposta a contrasti continui. La differenza
sta nel fatto che i moralisti del Seicento avevano come referente la corte,
cioè lo Stato assoluto, mentre Leopardi si trova di fronte a costituzioni
nuove che, con un termine generico, definisce "repubbliche". Di seguito
al passo citato egli aggiunge infatti che "il vincolo e il freno delle
leggi e della forza pubblica, che sembra ora essere l'unico che rimanga alla
società, è cosa da gran tempo riconosciuta per insufficientissima
a ritenere dal male e molto più a stimolare al bene. Tutti sanno con
Orazio che le leggi senza i costumi non bastano, e d'altra parte che i costumi
dipendono e sono determinati e fondati principalmente e garantiti dalle opinioni"
(p. 125).

Usando Orazio, Leopardi afferma che le leggi non hanno senso se non sono sostenute
dai costumi. A loro volta, però, i costumi hanno bisogno di fondamenti,
di garanzie, nelle opinioni, di valori, che il presente ha perso. Leopardi è
consapevole del fatto che, a vent'anni dalla Rivoluzione Francese, si sta avviando
una rifondazione della società. Pertanto il suo giudizio, anche se estremo
per il lessico con cui viene proposto, trova riscontro nei nuovi interpreti
post-rivoluzionari della società. Stiamo parlando della cosiddetta fase
della Restaurazione, durante la quale si costituiscono strumenti nuovi per interpretare
il mondo moderno: è questa situazione che porta il poeta ad affermare
che "in questa universale risoluzione dei principii sociali, in questo
caos che veramente spaventa il cuor di un filosofo, e lo pone in gran forse
circa il futuro destino delle società civili e in grande incertezza del
come elle possano durare e sussistere in avvenire, le altre nazioni civili,
cioè principalmente la Francia, l'Inghilterra e la Germania, hanno un
principio conservatore della morale e quindi della società, che benché
paia minimo, e quasi vile rispetto ai grandi principii morali e d'illusione
che si sono perduti, pure è d'un grandissimo effetto" (p. 125).
In una società moderna, carica di aspetti problematici sul futuro, i
paesi più avanzati – Inghilterra, Francia e Germania, o, come Leopardi
dirà più tardi, l'"Europa settentrionale" – hanno
"un principio conservatore della morale" che assicura un nuovo equilibrio.
La modernità rappresenta quindi non solo una perdita, ma anche uno sviluppo
che diviene una forma di vita ben precisa.

Non esiste una costituzione che abbia completamente sostituito ciò che
è andato perduto dell'etica antica – i "grandi principii morali
e d'illusione" – della grandezza, dell'eroismo, della progettualità
e del futuro da conquistare. Si è però trovato un surrogato importante:
in questi paesi si è sviluppata una vita associata autentica. Leopardi
definisce tale situazione come una "società stretta". La"società
stretta" è quindi la possibilità che gli uomini hanno di
dialogare sinceramente fra loro e di avere rapporti quotidiani autentici vivendo
insieme. Si tratta di "un comercio più intimo degl'individui fra
loro", di uno scambio di esperienze e di opinioni ritenuto dagli stessi
uomini autentico, reale e onesto. Si tratta di una vita associata intensa, che
conserva ancora qualcosa dell'ormai passata morale della gloria e dell'ambizione.
Il momento fondante della "società stretta" è quindi,
senza dubbio, la possibilità di un rapporto autentico, basato su un vero
conversare. Leopardi osserva poi che in Italia questo non avviene come in altri
paesi.

Anche Manzoni, più o meno negli stessi anni, anche se da un punto di
vista diverso, osserva l'esistenza di questo problema. Egli, per scrivere i
Promessi sposi, si rende conto di aver bisogno di una lingua di conversazione,
che, a differenza di quanto, per esempio, accadeva in Francia, in Italia mancava.
Nonostante frequentasse a Milano una "società stretta", Manzoni
senta la necessità di una lingua con cui poter dibattere le idee, in
grado di parlare del presente, di una lingua che possieda quanto è necessario
per rappresentare le cose e gli uomini.

Manzoni – non è un caso – scrive in francese e ha amici francesi,
nei confronti dei quali confessa di provare un po' di invidia, poiché
non può, come accade a loro, disporre di una lingua nazionale –
l'italiano – ma solo del francese e del milanese. Egli si trova a dover
scoprire, o meglio, a inventare, una lingua media da far parlare in un paese
che non possiede "conversazione". A queste considerazioni bisogna
poi aggiungere che nella cultura italiana ci sono soltanto alcune grandi personalità,
mentre la cultura francese è caratterizzata da un livello medio che permette
alle idee di diventare patrimonio di tutti.

Per vie diverse e con linguaggi, scelte e temperamenti radicalmente differenti,
Manzoni e Leopardi percepiscono quindi che il problema della modernità
consiste pure nel chiedersi come la letteratura possa far fronte allo sviluppo
di una società nuova. Leopardi, dal canto suo, mette a fuoco la mancanza
di un vero e proprio scambio intersoggettivo, di una intensa vita di relazione
affidata alla parola, alle idee e ai problemi del presente. E' convinto che,
essendo venute meno le grandi passioni, la vita si sia ingrigita e manchi di
grandi progetti, ed è convinto che la società moderna sia invasa
da quel vuoto da lui chiamato "noia". Nei suoi pensieri, la "società
stretta" potrebbe, invece, ridurre tale sensazione di vuoto, perché,
riempiendo la vita di finalità, lascerebbe aperto uno spazio alla progettazione,
al desiderio e anche alle passioni, che, pure se diverse da quelle del passato,
sarebbero ancora capaci di intrattenere l'uomo e di sottrarlo alla disperazione
muta, nata dal vuoto e dall'incontro con la noia.

La "società stretta" fa sì che, al di là della
sua costituzione politica, un paese diventi una "domestica unione".
Esiste ancora un rapporto vero tra le persone e da esso nascono "una occupazione,
un pascolo, un trattenimento alla vita" (p. 126). Anche se il vuoto rimane,
"l'uso scambievole" conferisce pienezza alla vita. Inoltre, gli uomini
diventano più attivi: le loro facoltà non si inaridiscono, ma
prendono forza dalla stima reciproca che pian piano cresce. Da tutto questo
nasce "l'ambizione" come "vincolo e sostegno potentissimo della
società". Può sembrare un paradosso, ma ciò che Leopardi
chiama ambizione è un rapporto di tensione con l'altro nel riconoscimento
della sua esistenza. Nel mondo antico questo tipo di ambizione era il desiderio
e l'etica della gloria e della magnanimità: un'etica della vita pubblica,
cui, in un certo senso, si subordinava la vita privata. Questi valori, però,
dopo il Rinascimento sono scomparsi e, come avrebbe detto Machiavelli, sono
stati sostituiti dai concetti di "onore" e di £reputazione".
L'"onore", cioè la stima dell'altro nella "società
stretta", genera l'"opinione pubblica": non esiste infatti una
"società stretta" senza opinione pubblica.

In questi pensieri si avverte l'influenza del grande Settecento francese, ma
si sente anche l'ingresso della rivista come strumento di un'attualità
più diretta, che comprende però interamente la tradizione della
prosa moralistica degli antichi. Gli antichi sono stati infatti punti di riferimento
per Leopardi: gli hanno fornito alcuni strumenti per interpretare la vita contemporanea.
Non si può poi dimenticare che, proprio in questi anni, si sviluppa un
pensiero storiografico e sociologico nuovo, a cui Leopardi, diversamente da
Manzoni, dedica un'attenzione limitata.

Nelle pagine che stiamo leggendo, invece, l'antistoricista Leopardi ragiona
in modo differente: la storia è un caso, non ha una linea interna, non
ha un'evoluzione dello spirito – che è quanto Hegel stava sostenendo
in quel periodo nel mondo tedesco. Leopardi si avvia così verso quella
che potremmo definire una sociologia della vita quotidiana del mondo italiano.
Anche il termine "costume" deve essere collocato in una giusta direzione
lessicale, poiché è terminologia tipica della storiografia e dell'analisi
politica settecentesca: si pensi a Voltaire e al suo Saggio sui costumi, in
cui il termine "costumi" definisce la vita sociale.

Per Leopardi l'opinione pubblica è poca cosa se commisurata al sistema
delle virtù e alle forme di vita del mondo antico, anche se è
sufficiente a creare un'idea di società. L'pinione pubblica diventa quindi
una misura secondo cui si valutano gli uomini, si afferma quasi come una morale
che deve essere riconosciuta e conformemente alla quale bisogna comportarsi.
Leopardi scrive infatti che "gli uomini politi di quelle nazioni si vergognano
di fare il male come di comparire in una conversazione con una macchia sul vestito
o con un panno logoro e lacero; si muovono a fare il bene per la stessa causa
e con niente maggiore impulso e sentimento che a studiar esattamente ed eseguir
le mode, a cercare di brillare cogli abbigliamenti, cogli equipaggi, coi mobili,
cogli apparati: il lusso e la virtù o la giustizia hano fra loro lo stesso
principio, non solo rimotamente parlando, il che è da per tutto e fu
quasi sempre, ma parlando immediatamente e particolarmente" (p. 129).

L'opinione pubblica è una forza della vita comune che impronta di sé
le vite dei singoli: è una misura di valore in sostituzione di altre
morali. Leopardi è convinto che, tra mondo antico e cristianesimo, si
sia costituita una morale, che, andata in crisi nel mondo moderno, non è
stata sostituita da un sistema nuovo.

Nel passo citato, il poeta introduce, come esemplificazione, alcuni piccoli
atti della vita quotidiana: il vestirsi, una macchia, il seguire la moda, lo
stare secondo certe forme. Leopardi possiede innegabilmente un'abitudine filosofica
e, al tempo stesso, si muove con concretezza verso una definizione precisa dei
comportamenti e degli uomini. In questo si sente il poeta: egli ha bisogno dell'individualità
delle cose e dei fatti, le sue generalizzazioni avvengono sempre all'interno
della vita quotidiana. Come direbbe Husserl, la vita quotidiana è Lebenswelt,
è ciò che vediamo a occhio nudo, ciò che constatiamo col
tatto e con le sensazioni.

Ora, dove esiste un'opinione pubblica si trova la conversazione e le idee circolano
liberamente tra gli uomini. Da ciò deriva la possibilità di un
"buon tuono", di un bon ton, che consiste nell'educazione della parola
e nel riconoscere un valore già insito nel modo di parlare. Ma dal rispetto
di se stessi nasce anche il rispetto dell'altro. Dove non c'è il "buon
tuono" la morale pubblica non ha fondamento, perché non esiste una
misura comune. Si possono verificare atteggiamenti diversi, ma, in tal caso,
dal punto di vista politico, non rimarrebbero che la forza o il potere, ed entrambi
non sarebbero certo in grado di creare i buoni costumi.

Leopardi constata che la società italiana non ha "fondamento di
morale" comune ed è priva di "ogni vero vincolo e principio
conservatore della società" (p. 131): in Italia manca ancora la
"società stretta". Ragionando da uomo del Settecento, egli
cerca le ragioni di tale mancanza: una di queste potrebbe essere il clima. Egli
scrive infatti:

"Ora il passeggio, gli spettacoli e le Chiese sono le principali occasioni
di società che hanno gl'italiani; in essi consiste, si può dir,
tutta la loro società (parlando indipendentemente da quella che spetta
ai bisogni di prima necessità), perché gl'italiani non amano la
vita domestica, né gustano la conversazione o certo non l'hanno. Essi
dunque passeggiano, vanno agli spettacoli e divertimenti, alla messa e alla
predica, alle feste sacre e profane. Ecco tutta la vita e le occupazioni di
tutte le classi non bisognose in Italia" (p. 131).

Leopardi parla da nobile e distingue tra bisogni primari e bisogni secondari.
I primi riguardano la sopravvivenza immediata, i secondi la cultura. Separa
quindi le classi bisognose, che devono soltanto attendere alla loro sopravvivenza
quotidiana e che non appartengono a una società colta, dalle classi non
bisognose a cui si sente legato, i ceti alto-borghesi e nibiliari.

Leopardi vive poi con inquietudine la condizione di scrittore appartenente a
una classe aristocratica: per liberarsi dalla famiglia cerca infatti una professione.
A Milano tenta di entrare nel mercato editoriale, mentre a Bologna spera di
diventare segretario in accademia: vive un disagio e sente che il ruolo dello
scrittore nei confronti della società sta cambiando. Però, quando
distingue fra classe bisognosa e classe non bisognosa, si esprime con la logica
della seconda.

Pascal – e Leopardi certo lo rammentava – parlava del divertimento
come desiderio di sfuggire al dovere della riflessione e come tentativo di eludere
qualcosa che appartiene alla condizione vera dell'uomo. Nel fondo Leopardi conserva
questo pensiero. E' la riflessione che conta nell'esperienza, le conseguenze
che da essa si traggono, mentre lo spettacolo resta un evento singolo, non crea
una "società stretta": lo spettacolo è un surrogato
negativo, la maschera di un'assenza. Leopardi sembra affermare che, in fondo,
gli italiani non hanno un "centro" e non sono nemmeno in grado di
formare "un pubblico italiano", corrispondente, nella dimensione della
cultura come spettacolo, all'opinione pubblica.

Già Alfieri, scrivendo le sue tragedie, aveva percepito l'assenza di
un pubblico. A questa considerazione Leopardi aggiunge che all'Italia manca
anche un teatro nazionale: il poeta aveva in mente Shakespeare e il teatro nazionale
inglese più recente; Schiller, Goethe e il teatro nazionale tedesco;
la Francia di Racine e di Corneille fino a Voltaire. In confronto a ciò
in Italia non manca solo il teatro, ma anche una letteratura nazionale moderna:

"Lascio stare che la nazione non avendo centro, non havvi veramente un
pubblico italiano, lascio stare la mancanza di un teatro nazionale, e quella
della letteratura veramente nazionale moderna, la quale presso l'altre nazioni,
massime in questi ultimi tempi è un grandissimo mezzo e fonte di conformità
di opinioni, gusti, costumi, maniere, caratteri individuali, non solo dentro
i limiti della nazione stessa, ma tra più nazioni eziandio rispettivamente"
(p. 132).

In Italia è assente quella "letteratura nazionale moderna",
che, invece, altrove aveva creato una conformità, un'omogeneità,
un insieme di opinioni, gusti, caratteri e maniere individuali in grado di creare
un'identità. In Italia le città sono un mondo a sé stante:
"Ciascuna città italiana non solo, ma ciascuno italiano fa tuono
e maniera a sé". E, dal momento che non esiste un "buon tuono",
non possono esistere nemmeno "convenienze di società" o bienséances,
la presenza, cioè, di regole di comportamento a cui tutti si conformano
e che tutti accettano spontaneamente. Ne consegue che non si può avere
cura del proprio onore, al punto che "ciascun italiano è presso
a poco ugualmente onorato e disonorato" (p. 133). La "società
stretta" diviene quasi un diaframma nei confronti delle verità ultime
della vita, del rapporto tra uomo, natura e caso. In quest'ottica si può
vedere in modo più profondo, ravvicinato e rigoroso, quale sia veramente
la realtà nascosta dell'uomo: essa diventa sperimentabile ogni giorno
nella noia, nella mancanza di un progetto, nell'assenza di una grande costruzione.
E' una filosofia pratica, dove si vedono esattamente le cose: nude, povere,
piene di lacune, in uno spazio che non è costruito per l'uomo. Gli italiani
istintivamente riconoscono questa situazione, ma non ne ricavano un vero e proprio
pensiero: resta la percezione della vanità della vita, congiunta al disprezzo
di essa. Anzi, proprio da tale situazione nasce un'"indifferenza profonda,
radicata ed efficacissima verso se stessi e verso gli altri, che è la
maggior peste de' costumi, de' caratteri, e della morale" (p. 141).

Non ci sono ideali per cui schierarsi, ma solo indifferenza. A questo punto
"… il più savio partito è quello di ridere indistintamente
e abitualmente di ogni cosa e d'ognuno, incominciando da se medesimo" (p.
141).

Leopardi, come si può leggere anche in pagine profonde delle Operette
morali e nello Zibaldone, ha riflettuto più volte sul problema del riso.
Nel Discorso che stiamo esaminando, egli coglie il tipo di società da
cui nasce la disposizione al riso: "Gl'italiani ridono della vita: ne ridono
assai più, e con più verità e persuasione intima di disprezzo
e freddezza che non fa niun'altra nazione". In mancanza di un fervore che
viva come elemento comune e di fronte alla freddezza dei rapporti umani, gli
italiani si rifugiano nel riso, che diviene quindi espressione di un atteggiamento
di duro cinismo. Il giudizio leopardiano è assai severo: "Le classi
superiori d'Italia, sono le più ciniche di tutte le loro pari nelle altre
nazioni. Il popolaccio italiano è il più cinico de' popolacci".
Il termine "popolaccio" è l'equivalente del francese populace:
si tratta del ceto più basso della società. Il cinismo investe
tutte le classi e non ha carattere permanente, predeterminato da qualche destino,
ma nasce da condizioni precise, dal muoversi di una società particolare.
Leopardi spiega infatti che esistono delle differenze: in realtà anche
altrove si ride, ma non si ride degli uomini, bensì delle cose o dei
fenomeni. In Italia, invece, "il più del riso è sopra gli
uomini e i presenti" (p. 143): il riso viene a sostituire la conversazione,
intesa piuttosto come derisione. Si tratta di una satira che non mira a corregere
ma è, alla lettera, un divertimento alle spalle di qualcuno. Da questo
"abito di cinismo" scaturisce il fatto che "non rispettando gli
altri, non si può essere rispettato" (p. 144). Non esistono un amore
e una stima capaci di condurre alla lealtà e alla franchezza.

Che conversazione può dunque esistere in un'Italia ancora così
lontana dal moderno, pur essendo ormai diventata moderna? Ci sono le conversazioni
"nei caffè e nei luoghi pubblici": un elemento ulteriore per
affermare che non esiste una vera conversazione, un reale scambio umano che
veicoli il passaggio di esperienza e rappresenti l'interesse di capire l'altro
da sé. C'è, invece, una "guerra senza tregua", continui
conflitti e contrasti, in cui la parola diviene una strategia di difesa e di
offesa. […] Come può esserci il senso di un'appartenenza se si
danno questi comportamenti? Se l'individuo non ha amore per sé e rispetto
di sé – quindi rispetto degli altri – non può esistere
un "amore scambievole sì nazionale che generalmente sociale"
(p. 146).

In un quadro così buio e negativo, può sembrare che Leopardi celebri
ed esalti gli altri paesi pur non avendoli mai visitati. In effetti è
paradossale che una così grande intelligenza europea non conosca nulla
dell'Europa direttamente. Leopardi è vissuto per poco tempo a Milano,
la più europea delle città italiane, poi si è fermato a
Bologna, a Firenze, a Pisa, ed è morto a Napoli: questo fu il suo itinerario.
Andò anche a Roma, ma non è mai arrivato al di là delle
Alpi. Si nota una diversità radicale rispetto a Manzoni, che, tra il
1810 e il 1820, vive a Parigi, una città europea piena di energie spirituali
nuove e che trova in Claude Fauriel, una delle grandi intelligenze parigine
di quegli anni, l'amico più diretto. Leopardi legge il francese, l'inglese,
e, della cultura tedesca, conosce soltanto De l'Allemagne di Madame De Stael.
Intuisce però che, nei paesi settentrionali avanzati, è nata una
"società stretta", capace, in parte, di riparare alla perdita
dei valori antichi. […]

Riprendendo le tesi della storiografia settecentesca, Leopardi afferma che la
Francia e l'Inghilterra – e anche l'Italia – si sono liberate dal
mondo feudale per entrare nella civiltà della borghesia. Egli aggiunge
però che vi sono paesi, come la Spagna, che, proprio su un residuo di
feudalità, fondano il proprio spirito nazionale. […] Insomma, la
civiltà moderna nasce dalla battaglia contro gli abusi e contro l'oscurantismo,
anche se certi paesi meridionali dall'avanzo di "barbarie dell'età
media", ossia del Medio Evo, hanno tratto un denominatore comune capace
di creare uno spirito nazionale. All'Italia manca anche questo fondamento che
la civiltà moderna offre alle nazioni d'Europa e d'America più
sociali e più vive.

"Gl'italiani [infatti] hanno piuttosto usanze e abitudini che costumi"
(p. 153). I "costumi" sono valori che vengono dal passato, accettati
da ognuno di noi con atto di responsabilità personale. I costumi si tramandano
e ognuno sceglie, anzi decide di assumerli su di sé, rendendoli parte
integrante dell'identità individuale. Le usanze e le abitudini, invece,
si ricevono passivamente: non esigono una risposta ma solo un'accettazione più
o meno meccanica. Il costume nasce poi anche da una responsabilità che
il cittadino si assume, mentre l'usanza e l'abitudine non comportano il confronto
e il 'misurarsi con l'altro'. A volte, quando non si danno i costumi, si trovano
solo usanze intese come realtà provinciali, come ambiti più ristretti,
quasi localistici. Da ciò e, insieme, dallo sviluppo del pensiero radicale
moderno, dipende l'"indebolimento de' principii morali", i quali si
fondano sulla persuasione: tali "principii" valgono infatti solo se
l'individuo li considera parti essenziali di sé.

Nei paesi che hanno creato una "società stretta", ci sono dunque
regole da rispettare, d'altra parte, scrive Leopardi, "dove è minor
civiltà cioè corruzione" i costumi "son più corrotti,
o vogliamo in somma dir più cattivi" (p. 157): in qualche modo viene
qui ripreso anche Rousseau.

L'Italia si è evoluta, ma non ha compiuto il percorso delle società
avanzate: non è ancora riuscita a compensare la perdita degli antichi
valori. Leopardi aggiunge poi, con una nota di pessimismo, di non saper vedere,
dopo aver constatato "la mancanza di società" (p. 157), come
l'Italia potrà mai "risorgere". L'uomo è un ente naturale
che, perduto il rapporto con la natura, vive secondo leggi sue. E' lo spirito
dell'uomo, che dipende dal corpo, a fondare un carattere nazionale. E proprio
gli italiani che, per natura, sarebbero vivaci, estroversi e avrebbero il senso
dello spettacolo e il fervore dell'invenzione, si scontrano con una società
apatica e indifferente. Quello italiano è il popolo memridionale per
eccellenza. E' espansivo e colloquiale, ma non possiede una vera conversazione,
perché proprio qui la vita associata è priva di una "società
stretta" e intima. Questo causa l'indifferenza e l'apatia.

Leopardi vede una forza e una potenzialità represse, forse anche deviate.
Scrive infatti che qui è l'"indifferenza" a risultare "perfetta,
radicatissima, costantissima" (p. 158). […]