A causa di un uragano, la piccola Dorothy e il suo cane Toto vengono scaraventati in un Paese sconosciuto e popolato da strani personaggi, streghe e animali. Per poter tornare a casa, Dorothy dovrà attraversare questa regione per incontrare il più potente dei suoi abitanti, il Mago di Oz. Accompagnata da uno Spaventapasseri, un boscaiolo di Latta e un Leone codardo, incontrati lungo il tragitto, inizia il suo viaggio in un mondo a volte meraviglioso, a volte pericolosissimo.
Scritto da Frank Baum, giornalista e scrittore di racconti per bambini, nel 1900, "Il Mago di Oz" mantiene intatto il fascino che lo ha reso così popolare tra adulti e bambini. Quello che è meno noto è che "Il Mago di Oz" può essere letto come una intelligente allegoria del sistema politico ed economico degli Stati Uniti del tempo, di cui lo stesso Baum fu a suo modo protagonista, con precisi riferimenti a personaggi ed avvenimenti realmente esistiti.
Frank Baum, Il mago di Oz, Marsilio Editori, Venezia, 2004, Trad. di Sara M. Sollors
In consiglio con gli Gnammi
Dorothy si svegliò per un colpo così forte e improvviso che, se non fosse stata sdraiata sul lettino morbido, avrebbe potuto farsi male. Per fortuna, invece, non fece altro che trattenere il respiro per la paura e si chiese cosa mai fosse accaduto, mentre Toto, il suo cagnolino, le strofinava sul viso il suo musetto umido lamentandosi penosamente. Dorothy si alzò e si accorse che la casa non si muoveva più e non era neanche più buio, perché il sole brillava attraverso la finestra inondando la stanza di luce. Dorothy balzò dal letto e, con Toto alle calcagna, corse ad aprire la porta.
Allora la bambina diede un grido di stupore e si guardò attorno, con gli occhi spalancati alla vista di tante meraviglie.
L’uragano aveva deposto la casetta – che pensiero gentile per un uragano! – in mezzo a un paese di straordinaria bellezza. C’erano delle belle aiuole verdi con alberi giganteschi carichi di frutti deliziosamente profumati. Da ogni parte spiccavano macchie di fiori rigogliosi, e uccelli rari dalle penne variopinte cantavano e svolazzavano sugli alberi e sui cespugli. (...) Mentre fissava intenta queste cose strane e meravigliose, vide venire alla sua volta un gruppo delle più strambe persone che avesse mai immaginato. Quella gente non era come tutte le altre persone grandi, ma non era nemmeno molto piccola. Insomma, aveva press’a poco la statura di Dorothy, benché, a giudicare dall’aspetto, dimostrasse molti più anni di lei. Erano tre uomini e una donna, tutti bizzarramente vestiti. Portavano cappelli a pan di zucchero, alti due spanne più della testa, con tanti campanellini appesi tutt’attorno alla falda che tintinnavano dolcemente quando si muovevano. I cappelli degli uomini erano azzurri e quello della donnina era bianco; bianco era pure il manto che le ricadeva a piegoni giù dalle spalle, e tutto cosparso di stelle che rilucevano al sole come brillanti.
Gli ometti erano vestiti di azzurro, lo stesso colore dei cappelli, e portavano stivali lucidissimi con le punte rivolte all’insù. [...]
Avvicinandosi alla soglia della casa di Dorothy, si fermarono bisbigliando tra loro qualcosa, quasi avessero paura di farsi avanti. Soltanto la vecchietta si accostò alla bambina inchinandosi profondamente di fronte a lei.
"Sii benvenuta, fata nobilissima" disse con voce dolce, "nel paese degli Gnammi. Noi ti siamo infinitamente grati per aver ucciso la Perfida Strega dell’Est e per aver liberato il nostro popolo dalla schiavitù".
Dorothy ascoltava a bocca aperta questo discorso. Che diavolo voleva intendere la donnina chiamandola fata e dicendole che aveva ucciso la Perfida Strega dell’Est? Dorothy era una bambina ingenua e innocente che un ciclone aveva portato molte miglia lontano da casa, e che non aveva mai ucciso nessuno in vita sua.
Ma era evidente che la donnina aspettava da lei una risposta, e allora Dorothy disse esitando: "Tu sei molto gentile, ma temo che ci sia un errore. Io non ho ucciso nessuno".
"Ma la tua casa sì" ribatté la donnina ridendo, "che è poi lo stesso. Guarda!" continuò, indicando l’angolo della casa. "Non vedi che i piedi le spuntano ancora sotto quel pezzo di legno?".
Dorothy guardò e diede un piccolo grido di spavento. In realtà, sotto l’angolo del grosso trave su cui poggiava la casa, spuntavano due piedi calcati di scarpe d’argento appuntite.
"Oh, poveri noi!" esclamò Dorothy giungendo le mani con fare disperato. "Ma allora la casa le è caduta sopra! Cosa facciamo adesso?"
"Non c’è nulla da fare" rispose calma la donnina.
"Ma chi era?" tornò a chiedere Dorothy.
"Ti ho già detto che era la Perfida Strega dell’Est" rispose la donnina. "E’ lei che ha tenuto gli Gnammi sotto il suo potere per molti anni, obbligandoli a lavorare come schiavi per lei, notte e giorno. Ora il popolo è liberato, e ti è grato per la grazia che gli hai concesso".
"Ma chi sono gli Gnammi?" domandò Dorothy.
"La gente che vive in questo paese dell’Est, dove regnava la Perfida Strega."
"E voi, siete una Gnammi?" chiese la bimba.
"No, ma sono loro amica, benché io abiti nel paese del Nord. Quando videro che la Strega dell’Est era morta, gli Gnammi mi inviarono un messaggio volante, e io accorsi subito. Io sono la Strega del Nord."
"Oh!" esclamò Dorothy spaventata. "Sei una vera strega?"
"Ma certo" rispose la donnina. "Ma io sono una strega buona e tutti mi vogliono bene. Però non sono potente come la Perfida Strega che governava questo paese, altrimenti avrei liberato io questa gente".
"Ma io credevo che tutte le streghe fossero cattive" disse Dorothy un po’ atterrita all’idea di trovarsi faccia a faccia con una vera e propria strega.
"Ah no, questo è un grande errore. C’erano soltanto quattro streghe in tutto il regno di Oz e due di loro, quelle che vivono nel Nord e nel Sud, sono streghe buone, cioè fate. E questo è certamente vero, poiché io sono proprio una di loro e non posso sbagliarmi. Invece quelle che vivevano nell’Est e nell’Ovest erano, è vero, streghe cattive; ma adesso che tu ne hai uccisa una, in tutto il regno di Oz non resta più che un’unica strega malvagia, la Strega dell’Ovest".
"Ma" obiettò Dorothy dopo un momento di riflessione "la zia Emma mi ha detto che le streghe sono morte tutte, tanti e tanti anni fa".
"Chi è la zia Emma?" domandò la donnina.
"E’ la mia zia che vive nel Kansas, il mio paese".
La Strega del Nord sembrò riflettere un momento col capo chino e gli occhi fissi al suolo. Ma poi sollevò lo sguardo e disse:
"Io non so dove sia il Kansas, perché mai prima di adesso ne ho sentito parlare. Ma dimmi, è un paese civile?"
"Certo!", rispose Dorothy.
"Allora mi spiego. Credo infatti che nei paesi civili non ci siano più streghe, né stregoni, né maghi, né fate. Ma, vedi, il regno di Oz non ha mai potuto diventare civile, perché noi siamo tagliati fuori da tutto il resto del mondo. Per questo ci sono ancora streghe e maghi da noi".
"Quali sono i maghi?" chiese Dorothy.
"Oz in persona è il Grande Mago" rispose la strega, abbassando il tono della voce a un bisbiglio. "E’ più potente di tutte noi messe insieme. E abita nella Città degli Smeraldi".
Dorothy stava per fare un’altra domanda, quando gli Gnammi, rimasti zitti ad ascoltare fino a quel momento, emisero un altro grido indicando l’angolo della casa dove giaceva prima la strega.
"Che c’è?" domandò la vecchietta; poi, guardò anche lei e si mise a ridere. I piedi della strega morta erano scomparsi e non erano rimaste che le scarpette d’argento. "Era così vecchia" spiegò la Strega del Nord, "che il sole ha impiegato poco tempo a disseccarla completamente. Così è finita anche lei. Ma le scarpette d’argento sono tue, e tu dovrai portarle." Si chinò a raccattare le scarpe che porse a Dorothy, dopo averne scosso la polvere.
"La Strega dell’Est era orgogliosa di quelle pantofoline d’argento" disse uno degli Gnammi, "e si tratta certo di pantofoline incantate, ma quale sia il loro incantesimo non siamo mai riusciti a saperlo".
Dorothy portò le scarpette in casa e le mise sul tavolo. Poi tornò fuori dagli Gnammi e disse loro: "Io voglio tornare dai miei zii perché sono sicura che stanno in pena per me. Potete aiutarmi a trovare la strada?"
Gli Gnammi e la Strega si guardarono dapprima tra di loro, poi guardarono la bimba e infine scossero tutti il capo.[...] Dorothy si mise a singhiozzare, perché si sentiva sola in mezzo a tutte quelle strane persone. Forse le sue lacrime intenerirono i cuori dei bravi Gnammi, perché anche loro estrassero i loro fazzolettini e cominciarono a piangere. La donnina, invece, si tolse il cappello a cono e ne tenne in equilibrio la punta sul suo naso, mentre con voce solenne contava: "Uno, due, tre". D’un tratto il cappello si trasformò in un pezzo d’ardesia che portava scritto a grandi caratteri bianchi, tracciati col gesso:
"FA CHE DOROTHY VADA ALLA CITTA’ SMERALDA"
La vecchietta si tolse il cappello dal naso e, dopo averne lette le parole, chiese:
"Ti chiami Dorothy, cara?"
"Sì", rispose la bambina levando lo sguardo verso di lei e asciugandosi gli occhi.
"Allora devi andare nella Città Smeralda. Forse il Mago Oz ti aiuterà".
"Dove si trova questa città?" domandò la bimba.
"Esattamente nel centro del regno, ed è governata da Oz, il Grande Mago di cui ti ho parlato".
"E’ buono?" interrogò ansiosa Dorothy.
"Sì, è un buon mago; ma non posso dirti se sia un uomo o no perché non l’ho mai veduto".
"Come posso arrivare fin là?" chiese nuovamente la bambina.
"Devi andare a piedi. E’ un viaggio molto lungo, attraverso un paese a volte bellissimo, a volte oscuro e terribile. Ma io farò uso di tutte le magia che conosco per tenerti lontana dai pericoli".
"Non vuoi venire con me?" supplicò Dorothy, che cominciava a considerare la vecchietta la sua unica amica.
"No, non posso" rispose quella; "ma ti darò un bacio, e nessuno oserà far del male a chi è stato baciato dalla Strega del Nord".
Si avvicinò a Dorothy e la baciò delicatamente sulla fronte: nel punto in cui le sue labbra l’avevano sfiorata rimase un’impronta rotonda e splendente, e presto anche Dorothy se ne accorse.
"La strada per giungere alla Città Smeralda è pavimentata di mattoni gialli" disse la Strega, "così non puoi sbagliare. Quando arriverai dal Mago, non avere paura di lui, ma raccontagli la tua storia e chiedigli di aiutarti. Addio, cara".
[…]
Come Dorothy salvò lo Spaventapasseri
In men che non si dica, Dorothy s’incamminò spedita verso la Città Smeralda, con le sue scarpe d’argento che tintinnavano allegramente sui duri mattoni gialli. Il sole brillava, gli uccelli cinguettavano e Dorothy non si sentiva poi tanto male per essere una ragazzina portata via improvvisamente da casa e depositata in uno strano paese.
Più camminava, più era sorpresa dalla bellezza della campagna intorno a lei. C’erano steccati ai margini della strada, pitturati di un bel blu, e al di là di essi, in abbondanza, campi di grano e di ortaggi. Evidentemente gli Gnammi erano bravi contadini, capaci di fare grandi raccolti. [...]
Verso sera, quando Dorothy, stanca di camminare, stava pensando a dove passare la notte, giunse a una casa più grande delle altre. Davanti, sul prato, stavano ballando molte persone, uomini e donne. Cinque violinisti suonavano a tutto volume, e tutti ridevano e cantavano, e accanto a loro c’era una tavola imbandita con frutti e noci dall’aria invitante, torte e crostate, e molte altre cose buone.
Dorothy fu accolta con gentilezza, e invitata a mangiare e a dormire lì, perché questa era la casa di uno degli Gnammi più ricchi, e i suoi amici erano lì per festeggiare la liberazione dalla schiavitù della Strega Cattiva. Dorothy mangiò molto bene, e fu servita dallo Gnammi ricco in persona, il cui nome era Boq.
Quando Boq vide le sue scarpe d’argento, disse:
"Devi essere una grande maga".
"Perché?" chiese la ragazzina.
"Perché porti delle scarpe d’argento e hai ucciso la Perfida Strega. E poi, hai del bianco nell’abito, e solo le streghe e le maghe portano il bianco".
Dorothy non sapeva cosa rispondere, perché tutti sembravano credere che lei fosse una strega, e sapeva benissimo di essere solo una ragazzina normalissima arrivata per caso in uno strano paese, trasportata da un ciclone. Quando si fu stancata di vedere i balli, Boq l’accompagnò in casa, dove le diede una stanza con un letto davvero carino. Le lenzuola erano di tela blu, e Dorothy dormì profondamente fino al mattino, con Toto raggomitolato accanto a lei sul tappeto blu.
Mentre faceva una bella colazione si divertì molto a guardar giocare con Toto uno Gnammi piccolino, che gli tirava la coda, urlava e rideva.
"Quanto è lontana la Città Smeralda?" chiese la ragazzina.
"Non lo so" rispose tutto serio Boq, "perché non ci sono mai stato. E’ meglio stare lontano da Oz, a meno che non si abbia da combinare affari con lui. Ma la strada per la Città Smeralda è lunga, e ci vogliono parecchi giorni per percorrerla. Qui la campagna è ricca e piacevole, ma dovrai attraversare posti pericolosi e selvaggi prima della fine del tuo viaggio".
Dorothy era un po’ preoccupata, ma, siccome sapeva che solo il grande Oz poteva aiutarla a tornare in Kansas, decise coraggiosamente di non tornare indietro.
Salutò i suoi amici, e ritornò sulla strada di mattoni gialli. Dopo aver camminato un paio di miglia, pensò di fermarsi a riposare, e così si arrampicò sulla cima di uno steccato che affiancava la strada e si sedette. C’era un grande campo di mais oltre lo steccato, e poco più in là, in alto su un palo per allontanare gli uccelli dal mais maturo, uno spaventapasseri.
Dorothy, mento posato sulla mano, lo scrutò pensierosa. La sua testa era un sacchettino riempito di paglia, con disegnati sopra degli occhi, un naso e una bocca. In testa aveva un vecchio cappello blu appartenuto a qualche Gnammi, e come corpo dei vestiti blu, imbottiti di paglia anche quelli.
Ai piedi dei vecchi stivali con la cima blu, di quelli che portavano tutti nel paese, e il palo ficcato nella schiena elevava la sua figura al di sopra delle piante di granoturco.
Mentre Dorothy fissava la strana faccia dipinta dello spaventapasseri, vide, con somma sorpresa, che le faceva l’occhiolino. Pensò di sbagliarsi, all’inizio, perché in Kansas gli spaventapasseri non fanno l’occhiolino; poco dopo però lui le fece anche un amichevole cenno con la testa. Scese dallo steccato e gli si avvicinò, mentre Toto correndo attorno al palo abbaiava.
"Buon giorno" disse lo Spaventapasseri, con voce rauca.
"Hai parlato?" chiese la ragazzina, meravigliata.
"Certamente", rispose lo Spaventapasseri; "come va?"
"Abbastanza bene, grazie" replicò Dorothy educatamente; "e a te come va?"
"Non mi sento bene" disse lo Spaventapasseri, sorridendo, "perché è molto stancante stare appollaiato qui giorno e notte a spaventare i corvi".
"Non riesci a scendere?" chiese Dorothy.
"No, perché ho questo palo infilzato nella schiena. Se tu, gentilmente, togliessi il palo ti sarei molto riconoscente".
Allungando le braccia, Dorothy lo tolse dal palo; ci riuscì soltanto perché lui, essendo di paglia, era molto leggero.
"Molte grazie", disse lo Spaventapasseri, una volta a terra. "Mi sento rinato".
Dorothy era confusa, perché era strano sentir parlare un uomo impagliato, e fare inchini e camminare accanto a lei.
"Chi sei?" chiese lo Spaventapasseri dopo essersi stiracchiato e aver sbadigliato, "e dove stai andando?"
"Mi chiamo Dorothy", disse la ragazzina, "e sto andando alla città Smeralda, per chiedere al grande Oz di rimandarmi in Kansas".
"Dov’è la Città Smeralda?" domandò, "e chi è Oz?"
"Come, non lo sai?" ribatté lei sorpresa.
"In effetti no; non so nulla. Vedi, sono impagliato, quindi non ho cervello", rispose triste.
"Oh" disse Dorothy; "mi dispiace molto".
"Secondo te" chiese lui "se vengo con te alla Città Smeralda, quell’Oz mi darebbe un cervello?"
"Non saprei", ribatté lei, "ma se vuoi puoi venire con me. Anche se Oz non ti dà un cervello, non ti andrà mai peggio di come ti va adesso".
"Questo è vero", disse lo Spaventapasseri. "Vedi", continuò con aria di complicità, "non mi dispiace avere le gambe, le braccia e il corpo impagliato, perché non mi possono far del male. Anche se qualcuno mi pesta i piedi o mi infilza con un ago, non importa, perché non sento niente. Ma non voglio essere chiamato stupido, e se nella testa ho della paglia e non un cervello come il tuo, come farò mai a sapere qualcosa?"
"Ti capisco", rispose la ragazzina, sinceramente dispiaciuta. "Se vieni con me chiederò ad Oz di fare tutto quel che può per te".
"Grazie", rispose lui, grato.
Dorothy lo aiutò a scavalcare lo steccato, e si avviarono sulla strada di mattoni gialli verso la Città Smeralda. A Toto non piaceva questo nuovo membro della comitiva. Lo annusava come se sospettasse che ci fossero dei topi nella paglia, e ringhiava allo Spaventapasseri con ostilità.
"Lascia perdere Toto", disse Dorothy al suo nuovo amico; "non morde mai".
"Oh, non ho paura di lui", rispose lo Spaventapasseri, "non può fare del male alla paglia. Lascia che ti porti il cestino. Non mi peserà perché non mi posso stancare. Ti dirò un segreto", continuò mentre camminava; "ho paura di una sola cosa al mondo".
"Di cosa?" chiese Dorothy; "del contadino Gnammi che ti ha costruito?"
"No", rispose lo Spaventapasseri; "di un fiammifero acceso".
Il salvataggio dell’Uomo di Latta
Il sole filtrava attraverso gli alberi quando Dorothy si svegliò, e Toto, sveglio da molto, stava fuori a rincorrere gli uccelli lì attorno. Lo Spaventapasseri la aspettava, pazientemente, ritto in piedi nel suo angolo.
"Dobbiamo andare a cercare dell’acqua", gli disse.
"A cosa ti serve l’acqua?" domandò lui.
"Per lavarmi via dal viso la polvere della strada, per bere, e per evitare che il pane secco mi si attacchi alla gola".
"Dev’essere sconveniente essere di carne", disse lo Spaventapasseri, riflettendo: "devi dormire, mangiare e bere. Però, hai un cervello, e poter pensare val bene molti fastidi".
Si lasciarono la casetta alle spalle e camminarono sotto gli alberi finché non trovarono una piccola sorgente di acqua trasparente, dove Dorothy si lavò, bevve e fece colazione. Vide che non c’era più molto pane nel cestino, e la consolò pensare che allo Spaventapasseri non occorreva mangiare.
Quando ebbe finito il suo pasto, e stavano per ritornare sulla strada di mattoni gialli, si sentì un gemito.
"Cos’era quello?" chiese, impaurita.
"Non ne ho assolutamente idea", rispose lo Spaventapasseri, "ma possiamo andare a vedere".
Fu proprio allora che sentirono un altro gemito venire dal bosco dietro di loro. Si addentrarono nella foresta e, fatti pochi passi, Dorothy vide qualcosa luccicare tra gli alberi. Corse fino a lì e si arrestò stupita. Vicino ad un albero quasi tagliato a metà, c’era un uomo fatto interamente di latta con un’ascia alzata in mano. La testa, le braccia e le gambe erano attaccate al corpo, ma se ne stava lì perfettamente immobile, come se non potesse muoversi.
Dorothy lo guardò meravigliata, e così anche lo Spaventapasseri, mentre Toto abbaiava forte e tentava di mordergli le gambe di latta, facendosi solo male ai denti.
"Sei stato tu a gemere?" chiese Dorothy.
"Sì", rispose l’Uomo di Latta; "sono stato io. E’ da più di un anno che gemo, ma nessuno prima d’ora mi aveva mai sentito o si era avvicinato per aiutarmi".
"Cosa posso fare per te?" chiese lei con un sussurro, perché era commossa dal tono triste con cui parlava l’uomo.
"Prendi la bottiglietta d’olio e ungimi le giunture", rispose. "Sono tutte così arrugginite che non riesco più a muovermi; se mi ungi bene mi muoverò di nuovo in men che non si dica. Troverai la bottiglietta d’olio nella mia casetta, su uno scaffale".
Dorothy tornò immediatamente alla casetta e, trovato l’olio, ritornò e chiese premurosa: "Dove sono le giunture?"
"Mettimi prima dell’olio sul collo", rispose l’Uomo di Latta. Dorothy obbedì, ma tale era la ruggine che lo Spaventapasseri dovette prendere la testa tra le mani e girarla pian piano sino a sbloccarla, e solo allora l’uomo fu in grado di muoverla da solo.
"Adesso le braccia", disse. E Dorothy ci mise l’olio e lo Spaventapasseri le girò avanti e indietro, finché non furono libere dalla ruggine e come nuove.
L’Uomo di Latta sospirò soddisfatto e abbassò l’ascia, appoggiandola all’albero. "E’ stato un vero piacere", disse. "E’ da quando mi sono arrugginito che tengo in mano quest’ascia, e sono felice di poterla finalmente poggiare a terra. Se adesso mi mettete l’olio anche sulle giunture delle gambe, sarò a posto".
Così gli misero l’olio sulle gambe finché non riuscì a muoverle liberamente, e li ringraziò una, due, tre, quattro volte per averlo liberato, sembrava essere una creatura molto riconoscente.
"Se non foste arrivati voi avrei potuto rimanere lì per sempre", disse; "mi avete di sicuro salvato la vita. Come mai passavate di qua?"
"Stiamo andando alla Città Smeralda per vedere il Grande Oz", rispose Dorothy, "e abbiamo dormito nella tua casetta".
"Perché volete vedere Oz?" chiese lui.
"Vorrei essere rimandata in Kansas, e lo Spaventapasseri vuole che gli si metta un po’ di cervello in testa", rispose lei. L’Uomo di Latta si fermò a riflettere un secondo. Poi disse: "Secondo te Oz mi darebbe un cuore?"
"Beh, immagino di sì", rispose Dorothy, "se è capace di dare un cervello allo Spaventapasseri".
"Già", disse l’Uomo di Latta. "Quindi lasciate che mi unisca a voi, verrò anch’io alla Città Smeralda per chiedere a Oz di aiutarmi."
"Vieni pure" disse convinto lo Spaventapasseri; e Dorothy aggiunse che la sua compagnia le avrebbe fatto molto piacere. Quindi l’Uomo di Latta si issò l’ascia in spalla e attraversarono insieme la foresta finché giunsero alla strada lastricata di mattoni gialli.
L’Uomo di Latta chiese a Dorothy di conservare la bottiglietta d’olio nel suo cestino. "Perché", disse, "se dovesse piovere, e io dovessi arrugginirmi, non potrei farne a meno".
Fu un bene avere quel nuovo compagno, perché, fatta poca strada, arrivarono in un posto dove gli alberi si infittivano di nuovo, impedendo il passaggio. Ma l’Uomo di Latta si mise a lavorarci con l’ascia e lo fece con tale piglio che in breve aprì un varco abbastanza grande da far passare tutta la compagnia.
Dorothy era così immersa nei suoi pensieri da non accorgersi che, camminando, lo Spaventapasseri era caduto in una buca ed era rotolato sul ciglio della strada. Data la situazione le chiese aiuto per alzarsi.
"Perché non hai evitato la buca?" chiese l’Uomo di Latta.
"Io non so quasi nulla", rispose ridendo lo Spaventapasseri. "Ho la testa impagliata, sai, e per questo vado da Oz a chiedergli un cervello".
"Oh, capisco", disse l’Uomo di Latta. "Ma, dopotutto, un cervello non è poi la cosa più importante del mondo".
"Tu ne hai uno?" domandò lo Spaventapasseri.
"No, la mia testa è abbastanza vuota", rispose l’Uomo di Latta, "ma un tempo avevo un cervello, e anche un cuore; quindi, potendo scegliere, preferirei avere un cuore".
"E perché?" chiese lo Spaventapasseri.
"Se vuoi saperlo ti racconterò la mia storia".
Così, mentre camminavano nella foresta, l’Uomo di Latta raccontò la seguente storia:
"Sono nato figlio di un boscaiolo che tagliava gli alberi nella foresta e vendeva legna per guadagnarsi da vivere. Una volta cresciuto, anch’io diventai un taglialegna, e quando mio padre morì mi presi cura della mia vecchia madre finché rimase in vita. Poi decisi di sposarmi invece di vivere da solo, per non soffrire la solitudine. Una delle ragazze Gnammi era talmente bella che me ne innamorai perdutamente. Lei, da parte sua, promise di sposarmi non appena avessi avuto abbastanza soldi per costruirle una casa più grande. Così iniziai a lavorare come non mai. Ma la ragazza abitava con una vecchia, e lei non voleva che si sposasse, perché era pigra e desiderava che la ragazza rimanesse con lei per cucinare e pulire. Così andò dalla Perfida Strega dell’Est, e le promise due pecore e una mucca se fosse riuscita a impedire il matrimonio. La Perfida Strega incantò la mia ascia, e un giorno, mentre lavoravo di gran lena, l’ascia mi scivolò di colpo e mi tagliò via la gamba sinistra.
All’inizio mi sembrò una gran sfortuna, perché sapevo che uno zoppo non poteva essere un bravo taglialegna. Ma andai da un lattoniere e mi feci fare una gamba di latta nuova di zecca. La gamba, dopo che mi ci ero abituato, funzionava bene; la Perfida Strega dell’Est ne fu molto irritata, perché aveva promesso alla vecchia che non avrei sposato la ragazza Gnammi. Quando ricominciai a tagliare la legna, l’ascia scivolò via di nuovo e mi tagliò la gamba destra. Ritornai dal lattoniere, e mi feci fare un’altra gamba di latta. Poi l’ascia incantata mi tagliò via le braccia, una dopo l’altra; ma, per niente scoraggiato, le sostituii con due di latta. Quindi la Perfida Strega mi fece scivolare nuovamente l’ascia che mi tagliò via la testa, e pensai che oramai per me era finita. Ma il lattoniere passava di lì per caso, e mi fece una testa nuova, di latta anche lei.
Allora pensai di aver sconfitto la Perfida Strega, e lavorai più che mai; ma non immaginavo nemmeno a cosa potesse arrivare la sua crudeltà. Trovò un altro modo per uccidere il mio amore per la bella ragazza Gnammi, e fece scivolare di nuovo l’ascia in modo da tagliarmi il corpo a metà. Ancora una volta il lattoniere venne ad aiutarmi e mi fece un corpo di latta, attaccandoci le braccia e le gambe e la testa di latta con delle giunture, e così riuscii a muovermi come prima. Ma accidenti! Ero senza cuore ora, e così persi tutto il mio amore per la ragazza Gnammi, e non mi importava più di sposarla. Immagino che stia ancora vivendo con la vecchia, e sia ancora lì ad aspettarmi. [...]
Quand’ero innamorato ero l’uomo più felice della terra; ma senza cuore non si può amare, e quindi sono deciso a chiederne uno a Oz. Se me lo darà, tornerò dalla ragazza Gnammi e la sposerò".
Dorothy e lo Spaventapasseri furono molto colpiti dalla storia dell’Uomo di Latta, e capivano perché desiderasse un cuore nuovo.
"Comunque", disse lo Spaventapasseri, "io chiederò di avere un cervello, non un cuore; perché uno stupido non saprebbe cosa farsene di un cuore anche avendolo".
"Io prenderò il cuore", ribatté l’Uomo di Latta, "perché un cervello non rende felici, e la felicità è la cosa migliore che ci sia al mondo".
Dorothy non disse nulla, perché si chiedeva quale dei suoi amici avesse ragione, e decise che se avesse solo potuto tornare in Kansas da zia Emma non faceva una gran differenza che l’Uomo di Latta non avesse cervello e lo Spaventapasseri un cuore, oppure che entrambi ottenessero quel che volevano.
La preoccupava di più che il pane stesse per finire, e che nel cestino ne rimanesse solo per un altro pasto suo e di Toto. L’Uomo di Latta e lo Spaventapasseri non mangiavano, ma lei non era né di latta né di paglia, e non poteva vivere senza cibo.
Il Leone Fifone
Nel tempo sin qui trascorso Dorothy e i suoi compagni erano rimasti nel bosco fitto fitto. La strada era ancora lastricata di mattoni gialli, ma quasi completamente coperti da rami secchi e foglie morte cadute dagli alberi, e il cammino non era affatto agevole.
C’erano pochi uccelli in quella parte della foresta, perché gli uccelli amano la campagna aperta, dove c’è molto sole; ma ogni tanto si sentiva un grugnito provenire da qualche animale selvatico nascosto tra gli alberi. Il cuore della ragazzina batteva forte forte per quegli strani rumori di cui non conosceva l’origine; Toto, invece, pareva riconoscerli perché non vi rispondeva nemmeno abbaiando e camminava il più vicino possibile a lei.
"Quanto manca ancora", domandò la ragazzina all’Uomo di Latta, "prima della fine della foresta?"
"Non ne ho idea", fu la risposta, "perché non sono mai stato nella Città Smeralda. Ma mio padre ci è andato, una volta, quando ero piccolo, e mi disse che era un viaggio lungo attraverso un paese pericoloso, anche se nei dintorni della città abitata da Oz la campagna è bellissima. Ma io non ho paura, finché ho la mia bottiglietta d’olio, e nulla può ferire lo Spaventapasseri, mentre tu porti in fronte il segno del bacio della strega buona, e quello ti proteggerà".
"Ma Toto!" disse la ragazzina, ansiosa. "Cosa proteggerà Toto?".
"Lo proteggeremo noi, se sarà necessario", rispose l’Uomo di Latta.
Non appena ebbe finito di parlare, si sentì un ruggito terribile provenire dalla foresta, e subito dopo balzò sulla strada un leone enorme. Con un colpo di zampa fece girare lo Spaventapasseri su se stesso come una trottola, e lo spedì sul ciglio della strada, e poi tentò di affondare i suoi artigli nell’Uomo di Latta. Ma, sorpresa sorpresa, il Leone non riuscì nemmeno a graffiare la latta, anche se l’Uomo di Latta fu sbattuto a terra nel bel mezzo della strada.
Adesso che si era palesato un nemico da affrontare il piccolo Toto corse abbaiando verso il Leone, e il bestione aveva appena aperto la bocca per morderlo quando Dorothy, temendo per la vita di Toto, ignorando il pericolo si fece avanti e diede al Leone uno schiaffo sul naso, più forte possibile e gli gridò:
"Non osare mordere Toto! Dovresti vergognarti, un bestione come te che morde un povero cagnolino!"
"Non l’ho morso", disse il Leone, strofinandosi con la zampa il naso là dove era stato colpito da Dorothy.
"No, ma c’hai provato", ribatte lei. "Sei solo un gran vigliacco".
"Lo so", disse il Leone, abbassando la testa per la vergogna: "l’ho sempre saputo. Ma cosa ci posso fare?"
"Non lo so, davvero. Pensare che hai colpito un uomo impagliato, quel povero Spaventapasseri!".
"È impagliato?" chiese il leone sorpreso, guardandola mentre lo tirava su e lo rimetteva in piedi, riaggiustandogli la paglia.
"Certo che è impagliato", rispose Dorothy, ancora arrabbiata.
"Per questo è stato così facile farlo cadere", disse il Leone. "Mi sono meravigliato di vederlo girare in quel modo. Anche l’altro è impagliato?"
"No", disse Dorothy, "è fatto di latta". E aiutò anche l’Uomo di Latta a rialzarsi.
"Per questo mi ha quasi spuntato gli artigli", disse il Leone. "Quando hanno colpito la latta ho sentito un brivido nella spina dorsale. E quell’animale a cui tieni tanto cos’è?"
"È il mio cane, Toto", rispose Dorothy.
"È di latta o è impagliato?" chiese il Leone.
"Nessuno dei due. È un… un… un cane in carne e ossa", disse la ragazzina.
"Oh! È proprio un animale curioso, e adesso che mi ci fai pensare, sembra incredibilmente piccolino. A nessuno verrebbe in mente di morderlo, tranne a un fifone come me", continuò a dire, triste, il Leone.
"Perché sei fifone?" chiese Dorothy, guardando il bestione con aria perplessa, perché era grande quanto un puledro.
"È un mistero", rispose il Leone. "Immagino di essere nato così. Naturalmente tutti gli animali della foresta si aspettano che io sia coraggioso, in quanto il leone viene considerato dappertutto il Re delle Bestie. Ho imparato che se ruggivo molto forte ogni essere vivente si spaventava e correva via. Tutte le volte che incontravo un uomo mi prendeva una paura immensa; ma bastava ruggire per farlo scappare via a gambe levate. Se gli elefanti e le tigri e gli orsi avessero mai tentato di assalirmi io stesso sarei scappato a gambe elevate – sono un tale fifone; ma basta che mi sentano ruggire e cercano tutti di allontanarsi, e naturalmente io li lascio andare".
"Ma tutto questo non è giusto. Il Re delle Bestie non dovrebbe essere un fifone", disse lo Spaventapasseri.
"Lo so", replicò il Leone, asciugandosi una lacrima con la punta della coda; "per me è un grande dispiacere e mi rende la vita molto difficile. Ma nei momenti di pericolo il cuore inizia a battermi forte forte".
"Forse sei malato di cuore", disse l’Uomo di Latta.
"Potrebbe essere", disse il Leone.
"Se lo sei", andò avanti a dire l’Uomo di Latta, "dovresti esserne felice, perché dimostra che hai un cuore. Per quanto riguarda me, io non ho cuore; quindi non si può ammalare".
"Forse", disse il Leone, riflettendo, "se non avessi un cuore non sarei così fifone".
"Hai un cervello?" chiese lo Spaventapasseri.
"Immagino di sì. Non ho mai controllato", rispose il Leone.
"Io sto andando dal Grande Oz per chiedergliene uno", lo informò lo Spaventapasseri, "perché ho la testa piena di paglia".
"E io sto andando a chiedergli di darmi un cuore", disse l’Uomo di Latta.
"Ed io sto andando a chiedergli di rimandare me e Toto in Kansas", aggiunse Dorothy.
"Secondo voi Oz potrebbe darmi del coraggio?" chiese il Leone Fifone.
"Con la stessa facilità con cui potrebbe darmi un cervello", disse lo Spaventapasseri.
"O a me un cuore", disse l’Uomo di Latta.
"O rimandarmi in Kansas", disse Dorothy.
"Allora, se non vi dispiace, verrò con voi", disse il Leone, "perché non sopporto l’idea di vivere senza un briciolo di coraggio".
"Sei più che benvenuto", rispose Dorothy, "perché aiuterai a tenere lontane le altre bestie selvagge. Mi sembra che debbano essere più fifone di te se ti permettono di spaventarli così facilmente".
"In effetti lo sono", disse il Leone; "ma questo non mi rende più coraggioso, e finché saprò di essere un fifone sarò infelice".
E così, ancora una volta, la piccola compagnia si mise in viaggio, con il Leone che camminava a passi fieri accanto a Dorothy. In un primo momento Toto non approvò la presenza di questo compagno, in quanto non riusciva a dimenticarsi di essere stato quasi stritolato nelle sue grossi fauci; ma più passava il tempo più si sentiva a suo agio, e Toto e il Leone Fifone, divennero presto grandi amici.
Quel giorno nulla interruppe più la tranquillità del loro viaggio. Una volta però, l’Uomo di Latta calpestò un insetto che stava camminando sul ciglio della strada e uccise il povero animaletto. L’Uomo di Latta se ne rattristò molto perché stava sempre assai attento a non far del male ad alcun essere vivente; e, strada facendo, pianse per la pena e per il rimorso. Le lacrime gli scorrevano giù per le guance e sui cardini della bocca, e lì si arrugginirono. E così, quando Dorothy gli fece una domanda, l’Uomo di Latta non riuscì ad aprire bocca, perché la ruggine gliela aveva sigillata. Per ciò si spaventò moltissimo e gesticolò freneticamente per cercare di far capire a Dorothy che doveva aiutarlo, ma lei non capiva. Nemmeno il Leone non capiva cosa c’era che non andasse. Lo Spaventapasseri, invece, prese la boccetta d’olio dal cestino di Dorothy e ne mise un po’ sulla mandibola dell’Uomo di Latta, così fu presto in grado di parlare bene come prima.
"Questo mi servirà di lezione", disse "d’ora in poi guarderò sempre dove metto i piedi. Perché se dovessi uccidere un altro insetto sicuramente piangerei di nuovo, e piangendo mi arrugginirei di nuovo la mandibola e non riuscirei a parlare".
Da allora camminò con molta attenzione, fissando la strada e, quando vedeva una formichina avanzare affaticata, la scavalcava per evitare di farle del male. L’Uomo di Latta sapeva benissimo di non avere un cuore e quindi stava molto attento a non essere mai crudele o villano.
"Voi persone con un cuore", disse "avete qualcosa che vi guida; ma io non ho cuore, e quindi devo essere molto cauto. Ovviamente quando Oz mi darà un cuore non dovrò più stare così attento".
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