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L’altra Euridice di Italo Calvino e Il ritorno di Euridice di Gesualdo Bufalino


lunedì 09 febbraio 2009 legge Giovanni Chessa

Questa coppia di letture è stata parte integrante di un gruppo di testi (scritti, pittorici, musicali, filmici) - sia antichi che moderni, sia poetici e narrativi che filosofici - componenti un "progetto Orfeo" a sua volta inserito in un corso di lettura sul mito. La scelta qui proposta vuole testimoniare la sempre viva attualità di un mito immortale, ravvivato di tutte le nuove ipotesi e fantasie di cui la odierna sensibilità può oggi rivestirlo, dalla metafisica visione dello "spazio al contrario" di Calvino alla delicata femminilità della donna innamorata e disillusa di Bufalino. Una lettura che dà ad Euridice il ruolo di protagonista, all’interno della celebre coppia, come a voler affermare che, se Orfeo è il cantore per eccellenza, la sua musa ispiratrice non è solo strumento e oggetto del canto, ma personalità autonoma e distinta: l’eroina incolpevole che ha "subìto" l’eroe, non per pochezza, ma per originaria superiorità.

ITALO CALVINO: TUTTE LE COSMICOMICHE  Ed. Mondadori 1997

L’altra Euridice
Voi avete vinto, uomini del fuori, e avete rifatto le storie come piace a voi, per condannare noi del dentro al ruolo che vi piace attribuirci, di potenze delle tenebre e della morte, e il nome che ci avete dato, gli Inferi, lo caricate di accenti funesti. Certo, se tutti dimenticheranno cosa veramente accadde tra noi, tra Euridice e Orfeo e me Plutone, quella storia tutta all'incontrario da come la raccontate voi, se veramente nessuno più ricorderà che Euridice era una di noi e che mai aveva abitato la superficie della Terra prima che Orfeo me la rapisse con le sue musiche menzognere, allora il nostro antico sogno di fare della Terra una sfera vivente sarà definitivamente perduto. Già quasi nessuno ormai ricorda cosa voleva dire far vivere la Terra: non quello che credete voi, paghi dello spolverio di vita che s'è posato sul confine tra la terra l'acqua l'aria. Io volevo che la vita si espandesse dal centro della terra, si propagasse alle sfere concentriche che la compongono, circolasse tra i metalli fluidi e compatti. Questo era il sogno di Plutone. Solo così sarebbe diventata un enorme organismo vivente, la Terra, solo così si sarebbe evitata quella condizione di precario esilio cui la vita ha dovuto ridursi, con il peso opaco di una palla di pietra inanimata sotto di sé, e sopra il vuoto. […]
La Terra, dentro, non è compatta: è discontinua, fatta di bucce sovrapposte di densità diverse, fin giù al nucleo di ferro e nichel, che è pur esso un sistema di nuclei uno dentro l'altro e ognuno ruota separato dall' altro a seconda della maggiore o minore fluidità dell' elemento.
Vi fate chiamare terrestri, non si sa con che diritto: perché il vero nome vostro sarebbe extraterrestri, gente che sta fuori: terrestre è chi vive dentro, come me e come Euridice, fino al giorno in cui me l'avete portata via, ingannandola, in quel vostro fuori desolato.
Il regno di Plutone è questo, perché io è qua dentro che ho sempre vissuto, insieme ad Euridice prima, e poi da solo, in una di queste terre interne. Un cielo di pietra ruotava sopra le nostre teste, più limpido del vostro, e attraversato, come il vostro, da nuvole, là dove s'addensano sospensioni di cromo o di magnesio. […]
A tratti il buio è solcato da un zig zag infuocato: non è un fulmine, è metallo incandescente che serpeggia giù per una vena. Consideravamo terra la sfera interna sulla quale accadeva di posarci, e cielo la sfera che circonda quella sfera: tal quale a come fate voi, insomma, ma da noi queste distinzioni erano sempre provvisorie, arbitrarie, dato che la consistenza degli elementi cambiava di continuo, e a un certo momento ci accorgevamo che il nostro cielo era duro e compatto, una macina che ci schiacciava, mentre la terra era una colla vischiosa, agitata da gorghi, pullulante di bolle gassose. Io cercavo d'approfittare delle colate d'elementi più pesanti per avvicinarmi al vero centro della Terra, al nucleo che fa da nucleo di ogni nucleo, e tenevo per mano Euridice, guidandola nella discesa. Ma ogni infiltrazione che apriva la sua via verso l'interno, scalzava dell'altro materiale e l'obbligava a risalire verso la superficie: alle volte nel nostro sprofondare venivamo avvolti dall' ondata che zampillava verso gli strati superiori e che ci arrotolava nel suo ricciolo. […]
Finché non ci ritrovavamo sostenuti da un altro suolo e sovrastati da un altro cielo di pietra, senza sapere se eravamo più in alto o più in basso del punto donde eravamo partiti.
Euridice appena vedeva sopra di noi il metallo di un nuovo cielo farsi fluido, era presa dall'estro di volare. Si tuffava verso l'alto, attraversava a nuoto la cupola di un primo cielo, d'un altro, di un terzo, s'aggrappava alle stalattiti che pendevano dalle volte più alte. Io le tenevo dietro, un po' per secondare il suo gioco, un po' per ricordarle di riprendere il nostro cammino in senso opposto. Certo, anche Euridice era convinta come me che il punto cui dovevamo tendere era il centro della Terra. Solo raggiunto il centro potevamo dire nostro tutto il pianeta. Eravamo i capostipiti della vita terrestre e per questo dovevamo incominciare a render la Terra vivente dal suo nucleo, irradiando via via la nostra condizione a tutto il globo. Alla vita terrestre, tendevamo, cioè della Terra e nella Terra; non a ciò che spunta dalla superficie e voi credete di poter chiamare vita terrestre mentre è solo una muffa che dilata le sue macchie sulla scorza rugosa della mela.
Sotto i cieli di basalto già vedevamo sorgere le città plutoniche che avremmo fondato, circondate da mura di diaspro, città sferiche e concentriche, naviganti, su oceani di mercurio, attraversate da fiumi di lava incandescente. Era un corpo vivente-città-macchina che volevamo crescesse e occupasse tutto il globo. […]
Era il regno della diversità e della totalità che doveva prendere origine da quelle mescolanze e vibrazioni: era il regno del silenzio e della musica. Vibrazioni continue, propagantesi con diversa lentezza, a seconda delle profondità e della discontinuità dei materiali, avrebbero increspato il nostro grande silenzio, l'avrebbero trasformato nella musica incessante del mondo, nella quale si sarebbero armonizzate le voci profonde degli elementi.
Questo per dirvi com'è sbagliata la vostra via, la vostra vita, dove lavoro e godimento sono in contrasto, dove la musica e il rumore sono divisi; questo per dirvi come fin da allora le cose fossero chiare, e il canto di Orfeo non fosse altro che un segno di questo vostro mondo parziale e diviso. Perché Euridice cadde nella trappola? Apparteneva interamente al nostro mondo, Euridice, ma la sua indole incantata la portava a prediligere ogni stato di sospensione, e appena le era dato di librarsi in volo, in balzi, in scalate dei camini vulcanici, la si vedeva atteggiare la sua persona in torsioni e falcate e cabrate e contorsioni.
I luoghi di confine, i passaggi da uno strato terrestre all' altro, le davano una sottile vertigine. Ho detto che la Terra è fatta di tetti sovrapposti, come involucri di un cipollone immenso, e che ogni tetto rimanda a un tetto superiore, e tutti insieme preannunciano il tetto estremo, là dove la Terra finisce d'esser Terra, dove tutto il dentro resta al di qua, e al di là c'è solo il fuori. […]
Per noi allora questo confine era qualcosa che si sapeva che c'era ma non immaginavamo di poter vedere, a meno d'uscire dalla Terra, prospettiva che ci pareva, ancor più che paurosa, assurda. Era là che veniva proiettato in eruzioni e zampilli bituminosi e soffioni tutto ciò che la Terra espelleva dalle sue viscere: gas, miscele liquide, elementi volatili, materiali di poco conto, rifiuti d'ogni genere. Era il negativo del mondo, qualcosa che non potevamo raffIgurare nemmeno col pensiero, e la cui astratta idea bastava a provocare un brivido di disgusto, no: d'angoscia, o meglio, uno stordimento, una - appunto - vertigine (ecco, le nostre reazioni erano più complicate di quello che si può credere, specialmente quelle di Euridice), e vi s’insinuava una parte di fascinazione, come un'attrazione del vuoto, del bi-fronte, dell'ultimo.
Seguendo Euridice in questi suoi estri vaganti, infilammo la gola di un vulcano spento. Sopra di noi, attraversando come una strozzatura di clessidra, s'aperse la cavità del cratere, grumosa e grigia, un paesaggio non molto diverso, per forma e sostanza, dai soliti delle nostre profondità; ma ciò che ci fece restare attoniti era il fatto che la Terra lì si fermava, non ricominciava a gravare su se stessa sotto altro aspetto, e di lì in poi cominciava il vuoto: o comunque una sostanza incomparabilmente più tenue di quelle che avevamo fino allora attraversato, una sostanza trasparente e vibrante, l'aria azzurra.
Furono queste vibrazioni a perdere Euridice, così diverse da quelle che si propagano lente attraverso il granito e il basalto, diverse da tutti gli schiocchi, i clangori, i cupi rimbombi che percorrono torpidamente le masse dei metalli fusi o le muraglie cristalline. Qui le venivano incontro come uno scoccare di scintille sonore minute e puntiformi che si succedevano a una velocità per noi insostenibile da ogni punto dello spazio: era una specie di solletico che metteva addosso una smania incomposta. Ci prese - o, almeno, mi prese: da qui in poi sono costretto a distinguere gli stati d'animo miei da quelli di Euridice - il desiderio di ritrarci nel nero fondo di silenzio su cui l’eco dei terremoti passa soffice e si perde in lontananza. Ma per Euridice, attratta come sempre dal raro e dall'inconsulto, c'era l'impazienza d'appropriarsi di qualcosa d'unico, buono o cattivo che fosse.
Fu in quel momento che scattò l'insidia: oltre l'orlo del cratere l'aria vibrò in modo continuo, anzi in un modo continuo che conteneva più modi discontinui di vibrare. Era un suono che si alzava pieno, si smorzava, riprendeva volume, e in questo modularsi seguiva un disegno invisibile disteso nel tempo come una successione di pieni e vuoti. […]
Subito il mio impulso fu di sottrarmi a quel cerchio, di ritornare nella densità ovattata: e scivolai dentro il cratere. Ma Euridice nello stesso istante, aveva preso la corsa su per i dirupi nella direzione da cui proveniva il suono, e prima che io potessi trattenerla aveva superato l'orlo del cratere. O fu un braccio, qualcosa che io potei pensare fosse un braccio, che la ghermì, serpentino, e la trascinò fuori; riuscii a udire un grido, il grido di lei, che si univa al suono di prima, in armonia con esso, in un unico canto che lei e lo sconosciuto cantore intonavano, scandito sulle corde d’uno strumento, scendendo le pendici esterne del vulcano.
Non so se quest'immagine corrisponde a ciò che vidi o a ciò che immaginai: stavo già sprofondando nel mio buio, i cieli interni si chiudevano a uno a uno sopra di me: volte silicee, tetti di alluminio, atmosfere di zolfo vischioso; e il variegato silenzio sotterraneo mi echeggiava intorno.
Il sollievo a ritrovarmi lontano dal nauseante margine dell'aria e dal supplizio delle onde sonore mi prese insieme alla disperazione d'aver persa Euridice. Ecco, ero solo: non avevo saputo salvarla dallo strazio di esser strappata alla Terra, esposta alla continua percussione di corde tese nell' aria con cui il mondo del vuoto si difende dal vuoto. Il mio sogno di rendere vivente la Terra raggiungendone con Euridice l'ultimo centro era fallito. Euridice era prigioniera, esiliata nelle lande scoperchiate del fuori.
[…]
Liberarla diventò il mio solo pensiero: forzare le porte del fuori, invadere coll'interno l'esterno, riannettere Euridice alla materia terrestre, costruire sopra di lei una nuova volta, un nuovo cielo minerale, salvarla dall'inferno di quell' aria vibrante, di quel suono, di quel canto. Spiavo il raccogliersi della lava nella caverne vulcaniche, il premere su per i condotti verticali della crosta terrestre: questa era la via.
Venne il giorno dell'eruzione, una torre di lapilli s'innalzò nera nell' aria sopra il Vesuvio decapitato, la lava galoppava sulle vigne del golfo, forzava le porte d'Ercolano, schiacciava il mulattiere e la bestia contro la muraglia, strappava l'avaro alle monete, lo schiavo ai ceppi, il cane stretto dal collare sradicava la catena e cercava scampo nel granaio. Io ero là in mezzo: avanzavo con la lava, la valanga infuocata si frastagliava in lingue, in rivoli, in serpenti, e nella punta che si infiltrava più avanti ero io che correvo alla ricerca di Euridice. Sapevo - qualcosa m'avvertiva - che era ancora prigioniera dello sconosciuto cantore: dove avrei riudito la musica di quello strumento e il timbro di quella voce, là sarebbe stata lei.
Correvo trasportato dalla colata di lava tra orti appartati e templi di marmo. Udii il canto e un arpeggio; due voci s'alternavano; riconobbi quella d'Euridice - ma quanto cambiata! - che teneva dietro la voce ignota. Una scritta sull'archivolto in caratteri greci: Orpheos. Sfondai l'uscio, dilagai oltre la soglia. La vidi solo un istante, accanto all'arpa. Il luogo era chiuso e cavo, fatto apposta - si sarebbe detto - perché la musica vi si raccogliesse, come in una conchiglia. Una tenda pesante - di cuoio mi sembrò, anzi imbottita come una trapunta -, chiudeva una finestra in modo da isolare la loro musica dal mondo circostante. Appena entrai, Euridice tirò la tenda di strappo, spalancando la finestra; fuori s'apriva il golfo abbagliante di riflessi e la città e le vie. La luce del mezzogiorno invase la stanza, la luce e i suoni: uno strimpellio di chitarre si levava da ogni parte e l'ondeggiante mugghio di cento altoparlanti, e si mischiavano a un frastagliato scoppiettio di motori. La corazza del rumore s'estendeva di là in poi sulla crosta del globo: la fascia che delimita la vostra vita di superficie, con le antenne inalberate sui tetti a trasformare in suono le onde che percorrono invisibili e inudibili lo spazio, coi transistor appiccicati agli orecchi per riempirli in ogni istante della colla acustica senza la quale non sapete se siete vivi o morti, coi jukebox che immagazzinano e rovesciano suoni, e l'ininterrotta sirena dell'ambulanza che raccoglie ora per ora i feriti della vostra carneficina ininterrotta.
Contro questo muro sonoro la lava si fermò. Trafitto dalle spine del reticolato di vibrazioni strepitanti, io feci ancora un movimento avanti verso il punto dove per un
istante avevo visto Euridice, ma lei era sparita, sparito il suo rapitore: il canto da cui e di cui vivevano era sommerso dall'irruzione della valanga del rumore, non riuscivo più a distinguere lei né il suo canto.
Mi ritirai, muovendomi a ritroso nella colata di lava, risalii le pendici del vulcano, tornai ad abitare il silenzio, a seppellirmi.
Ora, voi che vivete fuori, ditemi, se per caso vi accada di cogliere nella fitta pasta di suoni che vi circonda il canto di Euridice, il canto che la tiene prigioniera ed è a sua volta prigioniero del non-canto che massacra tutti i canti, se riuscite a riconoscere la voce di Euridice in cui risuona ancora l'eco lontana della musica silenziosa degli elementi, ditemelo, datemi notizie di lei, voi extraterrestri, voi provvisoriamente vincitori, perché io possa riprendere i miei piani per riportare Euridice al centro della vita terrestre, per ristabilire il regno degli dei del dentro, degli dei che abitano lo spessore denso delle cose, ora che gli dei del fuori e dell' aria rarefatta vi hanno dato tutto quello che potevano dare, ed è chiaro che non basta.



GESUALDO BUFALINO: L' UOMO INVASO Ed. Bompiani, 2007

IL RITORNO DI EURIDICE
Era stanca. Poiché c'era da aspettare, sedette su una gobba dell' argine, in vista del palo dove il barcaiolo avrebbe legato l'alzaia. L'aria era del solito colore sulfureo, come d'un vapore di marna o di pozzolana, ma sulle sponde s'incanutiva in fiocchi laschi e sudici di bambagia. Si vedeva poco, faceva freddo, lo stesso fiume non pareva scorrere ma arrotolarsi su se stesso, nella sua pece pastosa, con una pigrizia di serpe. Un guizzo d'ali inatteso, un lampo nero, sorse sul pelo dell' acqua e scomparve. L'acqua gli si richiuse sopra all'istante, lo inghiottì come una gola. Chissà, il volatile, com' era finito quaggiù, doveva essersi imbucato sottoterra dietro i passi e la musica del poeta.
"Il poeta" ... Era così che chiamava il marito nell'intimità, quando voleva farlo arrabbiare, ovvero per carezza, svegliandosi al suo fianco e vedendolo intento a solfeggiare con grandi manate nel vuoto una nuova melodia. "Che fai, componi?" Lui non si sognava di rispondere, quante arie si dava. Ma com' era rassicurante e cara cosa che si desse tante arie, che si lasciasse crescere tanti capelli sul collo e li ravviasse continuamente col calamo di giunco che gli serviva per scrivere; e che non sapesse cuocere un uovo ... Quando poi gli bastava pizzicare due corde e modulare a mezza voce l'ultimo dei suoi successi per rendere tutti così pacificamente, irremissibilmente felici...
"Poeta" ... A maggior ragione, stavolta. Stavolta lei sillabò fra le labbra la parola con una goccia di risentimento. Sventato d'un poeta, adorabile buonannulla ... Voltarsi a quel modo, dopo tante raccomandazioni, a cinquanta metri dalla luce ... Si guardò i piedi, le facevano male. Se mai possa far male quel poco d'aria di cui sono fatte le ombre.
Non era delusione, la sua, bensì solo un quieto, rassegnato rammarico. In fondo non aveva mai creduto sul serio di poterne venire fuori. Già l'ingresso - un cul di sacco a senso unico, un pozzo dalle pareti di ferro le era parso decisivo. La morte era questo, né più né meno, e, precipitandovi dentro, nell' attimo stesso che s'era aggricciata d'orrore sotto il dente dello scorpione, aveva saputo ch' era per sempre, e che stava nascendo di nuovo, ma alla tenebra e per sempre. Allora s'era avvinta agli uncini malfermi della memoria, s'era aggrappata al proprio nome, pendulo per un filo all' estremità della mente, e se lo ripeteva, Euridice, Euridice, nel mulinello vorticoso, mentre cascava sempre più giù, Euridice, Euridice, come un ulteriore obolo di soccorso, in aggiunta alla moneta piccina che la mano di lui le aveva nascosto in bocca all' atto della sepoltura.

Tu se’ morta, mia vita, ed io respiro?
Tu se’ da me partita
per mai più non tornare ed io rimango?

Così aveva gorgheggiato lui con la cetra in mano e lei da quella monodia s'era sentita rimescolare. Avrebbe voluto gridargli grazie, riguardarselo ancora amorosamente, ma era ormai solo una statuina di marmo freddo, con un agnello sgozzato ai piedi, coricata su una pira di fascine insolenti. E nessun comando che si sforzasse di spedire alle palpebre, alle livide labbra, riusciva a fargliele dissuggellare un momento.
Della nuova vita, che dire? E delle nuove membra che le avevano fatto indossare? Tenui, ondose, evasive come veli ...
Poteva andar meglio, poteva andar peggio. I giochi con gli aliossi, le partite di carte a due, le ciarle donnesche con Persefone al telaio; le reciproche confidenze a braccetto per i viali del regno, mentre Ade dormiva col capo bendato da un casco di pelle di capro ... Tutto era servito, per metà dell' anno almeno, a lenire l'uggia della vita di guarnigione. Ma domani, ma dopo?
Guardò l'acqua. Veniva, onda su onda (e sembravano squame, scaglie di pesce), a rompersi contro la proda. Scura, fradicia acqua, vecchissima acqua di stagno, battuta da remi remoti. Tese l'orecchio: il tonfo delle pale s'udiva in lontananza battere l'acqua a lenti intervalli, doveva essere stufo, il marinaio, di tanti su e giù ...
Mille e mille anime s'erano raccolte, frattanto, e aspettavano. Anche a mettersi in fila, sarebbero passate ore prima che giungesse il suo turno. "Non ci sono precedenze per chi ritorna?" si chiese con un sorriso, benché non avesse fretta, ormai che c'era, di rincasare. […]
Sorrise ancora, benché a lei sarebbe piaciuto lo stesso mescere la sua voce - un pigolio - al pigolare degli altri. Non lo fece, non s'avvicinò al bivacco, preferiva restare sola a pensare. Poiché un disagio, lo stesso che lascia un cibo sbagliato, le faceva male sotto una costola, e lei sapeva che non era il cruccio della vita ripersa, della resurrezione andata a male, era un altro e curioso agrume, un rincrescimento, incapace per ora di farsi pensiero, ma ostinato a premere dentro in confuso, come preme un bambino non nato, putrefatto nelle viscere, senza nome né sorte. E lei non sapeva come chiamarlo, se presagio, sospetto, vergogna ...
Ricapitolò la sua storia, voleva capire.
A ripensarci, s'era innamorata di lui tardi e di controvoglia. Non le garbava, all'inizio, che le altre donne gli corressero dietro a quel modo, insieme alle bestie, alle belve. Doveva essere un mago, quell'uomo, un seduttore d'orecchi, un accalappiatopi da non fidarsene. Con l'eterno strumento a tracolla, la guardata indiscreta, la parola ciarlatana. Poi, una sera di molta luna, trovandosi in un boschetto ad andare, trasognata secondo il suo costume, […] a un certo punto, dentro il fitto d' alberi un filo di musica s’era infilato, via via sempre più teso e robusto, fino a diventare uno spago invisibile che la tirava, le circondava le membra, gliele liquefaceva in un miele umido e tiepido, in un rapimento e mancamento assai simile al morire. Né s'era svegliata prima che le grosse labbra di lui, la potenza di lui le si fossero ritirate lentamente di dosso.
Lo amò, dunque. E le nozze furono di gala, con portate a non finire e crateri di vino nero. Turbate da un solo allarme irrisorio: quella torcia che, sebbene Imene l'agitasse con entrambe le mani, non s'avvivava ma continuava a eruttare tutt'intorno pennacchi di brutto fumo.
Dopo di che c'erano stati giorni e notti celesti. Lui sapeva parole che nessun altro sapeva e gliele soffiava fra i capelli, nei due padiglioni di carne rosea, come un respiro recondito, quasi inudibile, che però dentro di lei cresceva subito in tuono e rombo d'amore. Era un paese di nuvole e fiori, la Tracia dove abitavano, e lei non ne ricordava nient'altro, solo nuvole in corsa sulla sua fronte e manciate di petali, quando li strappava dal terreno coi pugni, nel momento del piacere. Giaceva con lui sotto un'ampia coppa di cielo, su un letto di foglie e di vento, mirando fra le ciglia in lacrime profili d'alberi vacillare, udendo un frangente lontano battere la scogliera, una cerva bramire nel sottobosco. Si asciugava gli occhi col dorso della mano, li riapriva. Lui glieli chiudeva con un dito e cantava. Ecco già si fa sera, ora negli orti l'oro dei vespri s'imbruna, la luna s'elargisce dai monti ... Euridice, Euridice! E lei gli posava la guancia sul petto, vi origliava uno stormire di radici, e battiti, anche, battiti lunghi d'un cuore d’animale o di dio.
Lo aveva amato. Anche se presto aveva dubitato d'esserne amata altrettanto. Troppe volte lui s'eclissava su per i gioghi del Ròdope in compagnia d'un popolo di fanciulli; o scendeva giù a valle, verso la marina, pavoneggiandosi del suo corteo d'usignoli stregati, stregato lui stesso dalle cantilene che gli nascevano. Senza dire mai dove andava, senza preoccuparsi di lasciarla a corto di provviste, deserta d'affetto, esposta ai salaci approcci di un mandriano del vicinato. Si fosse degnato di adontarsene, almeno, di fare una scenata. Macché. Si limitava, tanto per la forma, a intonare un lamento dell' amor geloso, di cui, dopo un minuto, s'era già scordato. Quand'è così, una si disamora, si lascia andare, sicché, negli ultimi tempi, lei s'era trascurata, si faceva vedere in giro con le chiome secche, male truccata, con la pelle indurita dai rovi, dalle tramontane. E sebbene ad Aristeo rispondesse sempre no e poi no, non lo diceva con la protervia di prima, ma blandamente, accettandone, addirittura, ora una focaccia di farro, ora un rustico mazzolino. Salvo a scappare, appena quello dimostrasse cupamente nei pomelli qualche porpora di vino o di desiderio. Finché era morta così, mentre gli scappava davanti, pestando con piante veloci la mala striscia nell' erba.
Maledetta erba ... Il pensiero le si volse di nuovo a Persefone. Un fiore di ragazza, ma sfortunata. Che anche lei s'era messa nei guai per volere andare a spasso nei prati. Un'amica a mezzo servizio, purtroppo, ma così bella quando tornava dalle ferie, abbronzata, con le braccia colme di primavera, di ligustri a fasci, di giacinti, amaranti, garofani... E se li metteva fra i capelli, quell' ora o due che duravano; indi nei portafiori, dove s'ostinava a innaffiarli con acqua di Stige, figurarsi; decidendosi a buttarli nell'immondizia solo quando decisamente puzzavano ...
Sfortunata ragazza. Cara, tuttavia, a uno sposo, a una madre. E che poteva permettersi di viaggiare, di alternare gli asfodeli con i narcisi, i coniugali granelli di melagrana con le focose arance terrene, di essere a un tempo gelo e vampa, orbita cieca e raggiante pupilla, femmina una e dea trina!...
Un clamore la riscosse. La barca era apparsa di colpo, correva sulla cima dei flutti come per il repentino puntiglio di un conducente in ritardo. E dalla riva le anime applaudivano, squittivano, tendevano le mani, qualcuno lanciava segnali impugnando un tizzone acceso. Euridice si levò in piedi a guardare. La scena era, come dire, infernale. Con quella prora in arrivo sulle onde bigie, e questi riverberi di fuoco nebbioso, sotto cui la folla sembrava torcersi, moltiplicarsi. E si protendevano tutti, pronti a balzare. La chiatta fu subito piena, straripava di passeggeri, stretti stretti, con le braccia in alto per fare più spazio. Un grappolo di esclusi tentò ancora un assalto, afferrandosi a una gomena. Ricaddero in acqua, riemersero a fatica, fangosamente. Un posto solo era rimasto vuoto, proibito, uno stallo di legno accanto al vecchio nocchiero. "Euridice, Euridice!" chiamò il vecchio nocchiero.
Riaprì gli occhi. Una lingua d'acqua fredda le lambiva le caviglie. La barca era immobile, ora, beccheggiava a metà della corrente. Vide davanti a sé la schiena nuda e curva del vecchio, ispida di peli bianchi. […]
Che barca vecchia. Quante cicatrici, sulla vela, e rammendi d'ago maldestro. "Ero più brava io a cucire" pensò.
"Sono stata una buona moglie. Lo amavo, il poeta. E lui, dopotutto, mi amava. Non avrebbe, se no, pianto tanto, rischiato tanto per voragini e dirupi, fra Mani tenebrosi e turbe di sogni dalle unghie nere. Non avrebbe guadato acque, scalato erte, ammansito mostri e Moire, avendo per sola armatura una clamide di lino e una semplice fettuccia rossa legata al polso. Né avrebbe saputo spremere tanta dolcezza di suoni davanti al trono dell'invisibile Ade ... "
Il peso contro il costato doleva, ora, ma lei non ne aveva più paura, sapeva
cos' era. Era una smemoratezza che le doleva, di un particolare dell' avventura recente una minuzia che aveva o visto o intuito o capito in un baleno e che il Lete s'era provvisoriamente portato via. Come una rivelazione da mettere in serbo per ricordarsene dopo. Se ne sarebbe ricordata a momenti certo appena la sorsata di Lete avesse finito di sciogliersi innocua ormai, nel dedalo delle sue vene. Era questa la legge, anche se lei avrebbe preferito un oblio di tutto e per sempre, al posto di questa vicenda di veglie e stupori, di queste temporanee vacanze della coscienza: come chi, sonnambulo, lascia il suo capezzale e si ritrova sull'orlo d'un cornicione ...
Ripensò al suo uomo, alloro ultimo incontro. Ci ripensò con fierezza. Poiché il poeta, era venuto qui per lei, e aveva sforzato le porte con passo conquistatore, e aveva piegato tutti alla fatalità del suo canto. Perfino Menippo, quel buffone, quel fool, aveva smesso di sogghignare, s'era preso il calvo capo fra le mani e piangeva.
E Tantalo aveva cessato di cercare con la bocca le linfe fuggiasche, Sisifo di spingere il macigno per forza di poppa ... E la ventosa ruota d'Issione, eccola inerte in aria, come un cerchio d'inutile piombo. Un eroe, un eroe padrone era parso. E Cerbero gli s'era accucciato ai piedi, a leccargli con tre lingue i sandali stanchi ... Ade dalla sua nube aveva detto di sì.
Rivide il sèguito: la corsa in salita dietro di lui, per un tragitto di sassi e spine, arrancando col piede ancora zoppo del veleno viperino. Felice di poterlo vedere solo di spalle, felice del divieto che avrebbe fatto più grande la gioia di riabbracciarlo fra poco ...
Quale Erinni, quale ape funesta gli aveva punto la mente, perché, perché s'era irriflessivamente voltato?
"Addio!" aveva dovuto gridargli dietro, "Addio!", sentendosi la verga d'oro di Ermete picchiare piano sopra la spalla. E così, risucchiata dal buio, lo aveva visto allontanarsi verso la fessura del giorno, svanire in un pulviscolo biondo ... Ma non sì da non sorprenderlo, in quell'istante di strazio, nel gesto di correre con dita urgenti alla cetra e di tentarne le corde con entusiasmo professionale ... L'aria non li aveva ancora divisi che già la sua voce baldamente intonava "Che farò senza Euridice?",
e non sembrava che improvvisasse, ma che a lungo avesse studiato davanti a uno specchio quei vocalizzi e filature, tutto già bell'e pronto, da esibire al pubblico, ai battimani, ai riflettori della ribalta ... La barca era tornata ad andare, già l'attracco s'intravedeva fra fiocchi laschi e sporchi di brina. Le anime stavano zitte, appiccicate fra loro come nottole di caverna. Non s'udiva altro rumore che il colpo uguale e solenne dei remi nell' acqua. Allora Euridice si sentì d'un tratto sciogliere quell'ingorgo nel petto, e trionfalmente, dolorosamente capì: Orfeo s'era voltato apposta.