L’Italia fu l’unico tra i paesi sconfitti della Seconda Guerra Mondiale ad avere una Costituzione scritta da un’Assemblea liberamente eletta: gli Alleati riconobbero infatti il grande contributo dato dalle forze della Resistenza italiana alla guerra di liberazione dal Nazi-fascismo.
Del partigiano Aroldo Tolomelli, classe 1921, nome di battaglia "Fangén", vice-comandante delle SAP della pianura bolognese, fu scritto: «I suoi pensieri rimanevano sempre là, sulle strade battute dai tedeschi, a studiare come meglio sorprenderli ed ucciderli. Aveva la guerriglia nel sangue, la sua strategia era arte. […] Avrei giurato che al posto del cuore aveva una pistola» (Gina Negrini, Il sole nero, Cappelli, 1969).
Nei brani proposti per la lettura e la discussione, tratti dal libro-intervista curato da Ludovico Testa, Aroldo ripercorre la faticosa maturazione della propria formazione politica comunista iniziata sotto il regime fascista, la lotta partigiana, il dopoguerra segnato dalla rottura tra i partiti che avevano guidato unitariamente la Resistenza e riflette con onestà sulla feroce violenza di cui quegli anni furono intrisi. Il lavoro di costruzione del vasto appoggio popolare alla lotta armata dei partigiani nella "bassa" bolognese e, a liberazione avvenuta, la sua difficile opera di persuasione affinché tanti giovani abbandonassero le armi e accettassero la dialettica pluripartitica, fanno di Aroldo – per il quale la politica non fu una chance professionale, ma pura passione, crescita civile e culturale – uno dei tanti costruttori della democrazia italiana.
Saranno presenti Ludovico Testa e Aroldo Tolomelli
LUDOVICO TESTA, «La vita è lotta». Storia di un comunista emiliano, Ed. Diabasis, 2007
La formazione politica
Fu in una di quelle occasioni che venni a sapere della morte del capolega Lipparini durante l’incursione fascista a Santa Maria di Duno nel 1921. Quella volta mio padre aveva permesso che io rimanessi con lui mentre un conoscente, venuto a consegnare un orologio da riparare, con gli occhi umidi dalle lacrime rievocava quei lontani eventi. […] l’uomo raccontava di come, ormai morente, Lipparini fosse stato raggiunto dalle camicie nere ai bordi di un campo di grano e ucciso tra le braccia della madre con un colpo di pistola sparato in bocca. Quell’immagine non mi abbandonò mai più, assurgendo a insopportabile emblema dell’ingiustizia e della sopraffazione. Nel corso dell’adolescenza alimentò a fuoco lento il mio odio contro i fascisti, per poi ripresentarsi ai miei occhi in tutta la sua crudezza ogni volta che diventato partigiano, dovevo trovare in me la determinazione e il coraggio per compiere azioni rischiose o prendere decisioni importanti.
Cesare Masina era un meccanico di biciclette dall’aspetto robusto e dai lineamenti del volto duri, quasi fossero stati sagomati a colpi di roncola. Nei primi anni Trenta la sua officina a Funo di Argelato divenne punto d’incontro di una cellula comunista composta da una dozzina di militanti […] Tra le gomme e i telai delle biciclette, dietro l’apparente cortina fatta di chiacchiere e pettegolezzi sulle vicende di paese, venivano commentate le iniziative del regime e le rare notizie raccolte sugli eventi in corso nella lontana Russia.
Gli adulti commentavano con emozione e meraviglia le scarne informazioni sull’Unione Sovietica ricavate dai giornali di regime oppure captate da Radio Mosca, l’emittente sovietica che dal 1936 trasmetteva anche in lingua italiana e raccontava di nuove città industriali costruite con stupefacente rapidità, di intere montagne sventrate o tagliate a fette per fare spazio a opere pubbliche dalle dimensioni ciclopiche, di grandi collettivi agricoli dove il comunismo era diventato realtà, di un’industria bellica in continua espansione, di un paese felice, governato con mano esperta e sicura dal compagno Stalin. La Russia vista da Funo di Argelato assumeva allora l’aspetto di un enorme contenitore dove ciascuno riversava desideri, sogni e fantasie; una sorta di meravigliosa finestra interiore aperta sul domani, capace di far dimenticare per qualche ora le asprezze della realtà quotidiana. Assai restia nel fornire informazioni sui progressi in corso in Unione Sovietica, la stampa fascista era invece assai prodiga nel riportare le notizie relative alla repressione staliniana, ai processi farsa […]. «Tutte balle, tutta propaganda» era l’inevitabile commento dei comunisti di Funo, ben più interessati ai racconti fantastici di Masina […]
Masina insisteva, in particolare, sull’aspetto ideologico del comunismo, senza però avventurarsi nella spiegazione dei fenomeni sociali. Per lui il comunismo era la Russia, punto e basta. Era in Russia, diceva, che tutti gli ideali del comunismo avevano trovato la loro realizzazione e sulla Russia si perdeva nei consueti racconti meravigliosi, impastati di eroismo e sofferenze, con una commozione e una partecipazione affettiva tali da rafforzare in me, giorno dopo giorno, un amore e un attaccamento viscerali verso quel paese. […] In quell’officina piena di ruote e telai di biciclette imparai a fidarmi ciecamente delle scelte politiche decise dall’alto, senza rendermi conto di quanto, ogni volta che tornavo a casa, lasciassi dietro di me un pezzo del mio spirito critico. Le occasioni – piuttosto rare a dire il vero – in cui Masina mi comunicava con tono grave qualche direttiva diffusa dal partito erano accompagnate da commenti del tipo: «Oh, tieni conto che questa viene dal centro»[…] In quei momenti era come se il partito si materializzasse di colpo nella stanza […] non ti sentivi più isolato, perché avvertivi che da qualche parte, in Italia, a Parigi, a Mosca o chissà dove c’era un’organizzazione, fatta di gente che parlava la tua stessa lingua e che lottava per le tue stesse idee. «Possono arrestarne quanti ne vogliono – mi assicurava Masina – ma non ci prenderanno mai tutti e finché ci sarà un compagno libero il partito non sarà mai morto». «E anche se ci arrestassero tutti dovranno ucciderci per farci tacere. Anche allora, comunque, l’idea continuerà a vivere, perché le idee non muoiono mai». Erano parole che mi commuovevano e nello stesso tempo rafforzavano in me la determinazione a iscrivermi al Pci, cosa che avvenne nella primavera del 1940. Pochi mesi dopo l’Italia entrava in guerra a fianco della Germania e io venni chiamato alle armi. Prima di partire ebbi un ultimo incontro con Masina. «Ora che vai nell’esercito – mi disse – vedrai che incontrerai giovani che la pensano come te. Prova un po’ a entrare in contatto con loro, vedi di mettere su un minimo di organizzazione». Ideali e organizzazione, poca politica, questa fu l’essenza dell’insegnamento che ricevetti da Masina. Nell’estate del ’40 avevo diciannove anni e per me era più che sufficiente.
Ricordo bene il primo confronto di opinioni che ebbi durante il corso di addestramento. Lui era un sottufficiale di tendenze socialiste-liberali, prototipo di quegli intellettuali riformisti che, nel ’43, daranno vita al Partito d’Azione. «Mussolini – diceva – pensa di avere già la vittoria in tasca, ma le democrazie occidentali…». E io mi domandavo: «Le democrazie occidentali? Ma chi sono?». Per me allora esisteva solo la lotta di classe, i nemici e gli amici, "noi" e "loro", il rosso e il nero. Non esistevano figure intermedie. «L’unica vera democrazia – gli ribattevo attingendo dai discorsi di Masina – è quella sovietica. Lì non ci sono più padroni, non c’è più la proprietà privata, lì sono tutti uguali. Quelle che tu chiami democrazie occidentali sono i paesi che hanno sempre cercato di ostacolare il cammino della rivoluzione e di soffocare il nuovo Stato, creato con il sudore e con il sangue di milioni di uomini sotto la guida di Lenin e poi di Stalin». Con pazienza accondiscendente lui tentava di spiegarmi il significato del concetto di democrazia, l’irrinunciabile valore della libertà individuale ed il prezioso apporto offerto alla crescita politica di un paese dalla dialettica tra maggioranza e opposizione. Nell’ascoltarlo sentivo dentro di me un senso di disagio […]
Me ne andai da Torino [essendo stato trasferito a Palermo] con una gran voglia di sapere e approfondire, di ricercare nei libri la conferma ai principi e agli ideali con i quali ero cresciuto, per sbatterla in faccia con tranquilla disinvoltura al prossimo contraddittore. Masina non mi bastava più. […]
Fu a Palermo che scoprii di non essere solo […] c’era un richiamato di Ravenna, con il quale condividevo anche le ore di libera uscita. Una sera ricordo che iniziò a parlare con curiosità dei collettivi agricoli in Russia, di come fosse possibile condividere la terra e gli attrezzi da lavoro con altri, di come doveva essere la vita laggiù. […] A un certo punto mi feci avanti e gli chiesi: «Ma anche tu sei comunista?» «Sì – rispose spazientito dalla mia prudenza – ma guarda che non siamo mica soli» e mi fece l’esempio di un toscano che lavorava nella nostra squadra, e di un tecnico di Torino, anche lui antifascista. […] Il tecnico di Torino era il più istruito. Frequentava l’università e, se da un lato condivideva i miei richiami ai principi e agli ideali comunisti, dall’altro si faceva beffe dei racconti sulla Russia che narravo con enfasi mutuandoli da Masina.
[Il sottotenente] mi stimolava a parlare, tanto che sulle prime pensai che fosse un provocatore. Con il passare del tempo, invece, la sua opposizione al regime si palesò ai miei occhi, contribuendo ad arricchire di ulteriori sfumature quel fronte antifascista, che prima di entrare nell’esercito identificavo quasi esclusivamente con il Partito comunista. Il suo punto di riferimento era Benedetto Croce, il famoso filosofo napoletano del quale io non conoscevo neppure l’esistenza. Nelle nostre discussioni facevo molta fatica a conciliare l’anticomunismo sul quale impostava i suoi discorsi con l’antifascismo delle conclusioni. Di fronte alle dure critiche che muoveva contro la filosofia marxista non avevo nulla da opporre e, a dire il vero, stentavo a seguirlo. Quando lo sentii citare a più riprese il nome di Engels, con grande imbarazzo dovetti chiedergli chi fosse. Lui mi guardò sorpreso e quasi intenerito, si assentò qualche minuto e tornò con un libro in mano. Sulla copertina di cartone morbido c’era scritto: Antonio Labriola Saggi sulla concezione materialistica della storia. «Prova a leggere questo – mi disse – che poi ne riparliamo». All’inizio devo dire che mi risultò molto difficile comprendere il significato dei concetti e perfino delle frasi che animavano le pagine di quel libro. Poi, con il passare dei giorni e, soprattutto, delle notti (spesso mi offrivo per fare il doppio turno di guardia e leggere in santa pace) iniziai ad acquisire sempre più dimestichezza con il testo e con i fondamenti della filosofia marxista. Attraverso la lettura, da un lato intuivo quanto fosse enormemente più complesso il concetto di lotta di classe, al quale ero stato iniziato prima da mio padre e poi da Masina; dall’altro lato rimanevo sorpreso nel ritrovare in lunghe pagine riccamente argomentate le stesse nozioni basilari, che a casa venivano spiegate con poche frasi o un semplice esempio tratto dalla vita di tutti i giorni.
Partigiano
La prima cosa che feci appena tornato a casa fu andare a trovare Masina nella sua officina e immediatamente venni coinvolto nella rete organizzativa che si andava consolidando. […] Masina mi informò che assieme a lui ora lavorava anche un mio coetaneo, Dino Cipollani, proveniente da una famiglia socialista molto nota a Funo. […] Per allargare il giro dei simpatizzanti trovammo un modo piuttosto divertente. Organizzavamo feste da ballo in casa di una famiglia e lì cercavamo di instaurare nuovi contatti tra gli invitati. […] La famiglia era quella dell’Irma Bandiera. Irma era un’amica di Dino e […] veniva da una famiglia agiata. I nonni egli zii possedevano una drogheria ed erano padroni di metà della borgata di S. Giobbe. Il padre era un piccolo imprenditore edile. Insomma, i mezzi non le mancavano. Di sei anni più grande di me, era una donna bella ed elegante, che non aveva mai mostrato interesse per la politica. Dopo l’8 settembre il suo fidanzato era stato dato per disperso a Creta. Si sarebbero dovuti sposare da lì a poco e la tragica notizia le avrebbe cambiato la vita. Con grande passione e un po’ di ingenuità iniziò a interessarsi sempre più ai temi della politica e la sua partecipazione alla nostra causa giunse al punto da spingerla, alcuni mesi dopo, a chiedere a Dino Cipollani l’iscrizione al Pci e a offrire la propria disponibilità per un ruolo attivo nella nascente organizzazione partigiana. […] La militanza di Irma Bandiera nella VII GAP durò fino ai primi di agosto [1944], dopodichè, arrestata nella sua abitazione di S. Giobbe, fu inghiottita dalle carceri fasciste. Una settimana dopo venne ritrovata nei pressi del Meloncello, priva di vita, seminuda, con il corpo straziato dai segni della tortura e, dietro l’orecchio destro, il foro di un proiettile sparato a bruciapelo.
Determinante fu il ruolo svolto dalle donne durante il biennio ’43-’45. Fu grazie alla loro iniziativa che il movimento di resistenza nelle campagne bolognesi iniziò ad assumere dimensioni di massa. Ricordo il loro corteo, il 10 gennaio 1944, una delle prime manifestazioni di protesta verificatesi nell’Italia occupata. Esasperate dalla penuria di generi alimentari di prima necessità come sale, zucchero, farina e grassi, le donne di Funo avevano deciso di recarsi in massa davanti al comune di Argelato per esporre lamentele e richieste al commissario prefettizio Ariatti. L’iniziativa raccolse subito il nostro sostegno e, oltre a concorrere all’organizzazione del corteo, ci offrimmo anche di mettere a disposizione una scorta armata […] Pur accettando una scorta, benché limitata, vollero avere in consegna le armi, assicurando che le avrebbero restituite agli uomini solo in caso di effettiva necessità. […] Man mano che attraversava le borgate e le frazioni affacciate sulla strada provinciale che conduce ad Argelato, il gruppo si infoltiva e alla fine, davanti al Municipio, ci saranno state almeno trecento donne. Dopo aver inutilmente intimato alle manifestanti di disperdersi e tornare a casa, il commissario prefettizio accettò di ricevere una piccola delegazione. Messo alle strette dalla determinazione delle dimostranti, si vide costretto ad assicurare l’immediata distribuzione di alcuni generi alimentari e anche di merci di prima necessità, come i copertoni di bicicletta.
Colpendo al cuore le madri in ciò che avevano di più caro, la notizia del secondo bando di arruolamento emanato dalla Repubblica di Salò ebbe l’effetto di incattivire i toni della protesta ed esasperare le rimostranze per la perdurante penuria di generi di prima necessità. Ricordo in particolare i due ceffoni che Clara Tugnoli, un donnone alto e robusto, stampò sulla faccia di un giovane della GNR, che la aveva apostrofata con sprezzante ironia. Ricordo i graffi, le urla, la rabbia e ricordo soprattutto mia madre – un metro e quaranta d’altezza e pesante neppure cinquanta chili – afferrare con entrambe le mani il moschetto di una delle guardie e rimanervi aggrappata anche quando questo aveva iniziato a farla girare in tondo alzandola da terra. Avvertivo il rancore e l’odio montare da entrambe le parti, riducendo ogni possibilità di compromesso e scavando un fossato sempre più profondo tra "noi" e "loro". […]
Con la terza manifestazione, svoltasi il 23 aprile [1944], dagli schiaffi si passò ai proiettili che, a dire il vero, uscirono solo dalle loro canne visto che noi, non potendo andare in giro con armi lunghe senza passare inosservati, avevamo solo pistole e bombe a mano che, nell’eventualità di uno scontro a distanza, poco potevano fare contro i fucili. […] Sparando da lontano, ad altezza d’uomo, per disperdere l’assembramento, i militi ferirono tre donne e due giovani della scorta. La manifestazione di primavera segnò una svolta anche nella mia storia personale. Fu in quell’occasione, infatti, che venni identificato dalle autorità di polizia come uno degli organizzatori del corteo, cosa che mi costrinse a entrare nella clandestinità. […]
Fu riflettendo sulla combinazione tra la protesta maschile e quella femminile che iniziai a pensare come sfruttare quella che avvertivo essere una grande potenzialità inespressa. Intendo dire che mi resi conto che la famiglia contadina era arrivata a un bivio. Da un lato i tedeschi le portavano via animali e frumento; dall’altro, oltre ad avere subito la sottrazione dei figli maggiori a causa della guerra, adesso vedevano minacciati i figli minori dai bandi di arruolamento e dai rastrellamenti tedeschi. Rispetto ai mesi passati, nella primavera del ’44 il fenomeno stava assumendo proporzioni ben più vaste, coinvolgendo tutta la campagna bolognese. […] Pensai allora che fosse venuto il momento di organizzare tra le famiglie contadine una vasta rete di solidarietà e collaborazione sul luogo, al fine di garantire la possibilità di nascondere tutti i giovani che non era possibile inviare in montagna. Parlando con i capifamiglia arrivammo ad individuare il metodo, incentrato su un’articolata "suddivisione del lavoro" tra i nuclei familiari per ospitare i fuggiaschi (che pensammo di nascondere in appositi spazi ricavati nei fienili dietro ai muri di balle di fieno), nutrirli, riparare e lavare i loro indumenti ecc. Grazie al vasto coinvolgimento delle masse contadine, si poteva garantire protezione e sostentamento a centinaia di uomini. […]
L’altra componente, assai più numerosa, erano i sappisti "legali", quelli che di giorno svolgevano il loro lavoro in fabbrica, in bottega, nei campi o, addirittura, all’organizzazione Todt e la sera si univano agli "illegali" per compiere azioni di sabotaggio o attacchi contro il nemico. […] Senza il sostegno delle masse rurali l’intera organizzazione sappista non sarebbe stata neppure pensabile. Il modo per ovviare alle difficoltà ambientali della guerriglia in pianura era infatti lo stretto e fidato rapporto tra il partigiano e le famiglie contadine, il cui appoggio e solidarietà costituirono l’elemento indispensabile, la terra dalla quale nacque e si sviluppò il movimento sappista. Molti e mai abbastanza ricordati furono i contadini che pagarono il loro appoggio e il loro silenzio con la vita, la tortura, la distruzione della casa o la perdita dei famigliari. […]
Ha[i] bisogno della guerra e di un regime che distrugge i valori in cui credi e ti impone di piegare la schiena senza darti alternative. Se vuoi mantenerti in posizione eretta, devi allora operare una netta separazione tra te e il nemico che hai di fronte. Lo devi spersonalizzare. In quei momenti il nemico non lo immagini uguale a te. Non ha genitori, né moglie, né figli, non ha casa, non ha amici. Non ha sentimenti. […] Più di una volta ho visto uomini o ragazzi tornare da azioni del genere in preda allo choc, stravolti al solo pensiero di avere ucciso qualcuno. Erano gente di campagna, che non avevano mai torto un capello a nessuno e ora non si davano pace, sentendosi improvvisamente degli assassini. La rabbia e l’odio si sarebbero accesi in loro solo alla vista di amici, fratelli, sorelle o parenti torturati, seviziati, trascinati fuori dalle abitazioni e fucilati per rappresaglia, oppure appesi ai rami degli alberi con una corda al collo ed un cartello con la scritta "bandito" sul petto. Solo allora vidi scattare nei loro occhi quella molla che in me era già scattata da tempo. […]
Quando, dopo aver eseguito un’operazione di disarmo – le cui regole prevedevano l’eliminazione del nemico solo in caso di pericolo – le nostre squadre ci inviavano rapporti che ogni volta si concludevano con queste parole: "abbiamo dovuto fare fuoco perché il nemico opponeva resistenza", io sapevo che non era vero e che avevano invece sparato preventivamente. In più di un’occasione era capitato che, una volta disarmati, i soldati tedeschi tirassero fuori una qualche arma nascosta – per esempio negli stivali – e colpissero i nostri alla schiena mentre se ne stavano andando. Quello di uccidere per via preventiva era quindi un modo di risolvere il problema alla radice, che rischiava però di generare una pericolosa deriva morale, riducendo ulteriormente la consapevolezza stessa del valore della vita umana. Ciò che giocò in nostro favore fu, penso, oltre all’opera di sorveglianza e correzione instancabilmente condotta dai responsabili politici e militari, soprattutto il fatto che i nostri uomini – e soprattutto i sappisti "legali" – continuassero a vivere in stretto contatto con la popolazione, con le famiglie, con la realtà sociale circostante, insomma con un contesto generale in cui, nonostante le asprezze della situazione, restava ancora forte il richiamo a quei principi che stanno a fondamento del vivere collettivo. […]
Ricordo mia madre, nel novembre del ’44, dopo che uno dei suoi fratelli era stato fucilato dai fascisti per la sua attività sindacale tra i contadini. La ricordo parlarmi con il cuore in mano: «Aroldo, io è dal ’21 che sono in ballo. Ma non pensi che sia giunto il momento di avere un po’ di tregua? Io non ce la faccio più, scoppio: tuo padre è clandestino e tu sei clandestino. Siete i due uomini di casa. Ma fermatevi un attimo!» Al suo fianco c’era mia zia, ancora stravolta per la morte del marito, che aggiunse: «Devi pensare anche a me, Aroldo, ora che sono rimasta sola e con tre figli da tirare su».
Furono parole che mi toccarono molto, così come le lacrime di quelle famiglie che tra le fiamme delle case e dei fienili vedevano bruciare le fatiche di una vita o le scene strazianti delle donne, che correvano disperate sul luogo dove giacevano i corpi dei mariti o dei figli uccisi. Mai però arrivammo al punto di dire «beh, adesso basta, interrompiamo tutto» […]
Quello che bisogna capire, e lo ripeto, fu che le SAP non erano come le brigate di montagna o i GAP, ossia formazioni che, in entrambi i casi, conducevano una vita sostanzialmente appartata dal contesto sociale circostante, anche se, naturalmente, specie in montagna, potevano fare affidamento su una rete di appoggi e solidarietà. Le SAP erano parte stessa della popolazione. Spesso le famiglie colpite dalle rappresaglie nazifasciste non solo avevano aiutato i partigiani, ma avevano al loro interno uno o più sappisti. […] Quello che voglio dire è che il movimento sappista non costituì l’espressione di un’organizzazione venuta da fuori per mobilitare le campagne. In esso si sviluppò e prese forma la risposta del mondo rurale all’occupazione tedesca.
Nella notte [tra il 19 e il 20 aprile 1945] mi venne comunicato che il posto [per riunire i comandanti partigiani] era stato trovato, si trattava della casa colonica della famiglia Biagiolari nei pressi di Altedo. Inforcai la bicicletta e mi diressi verso la campagna ma nei pressi di Bentivoglio fui fermato da una pattuglia tedesca. I due soldati vollero vedere i documenti (fortunatamente non si accorsero che erano falsi), mi sequestrarono la bicicletta e mi ordinarono di seguirli. Avevano però dimenticato di perquisirmi e non si erano accorti della pistola che tenevo sotto la camicia. Camminavamo in silenzio, io davanti e loro dietro. A un certo punto mi voltai di scatto e premetti il grilletto. Il primo soldato, quello che reggeva la bicicletta, lo centrai allo stomaco e il secondo al petto, mentre aveva già imbracciato il mitra per rispondere al fuoco. Non mi sincerai di controllare se erano ancora vivi, recuperai la bici e mi diressi pedalando come un forsennato verso il luogo dell’appuntamento. Arrivato nei pressi del podere Biagiolari, nascosi la pistola vicino a un fosso e iniziai ad avvicinarmi con cautela verso l’abitazione. Appena entrato nel cortile, mi trovai di fronte a tre paracadutisti tedeschi, intenti a spennare delle galline. Non feci in tempo ad allontanarmi che li sentii gridare «Halt!», mi girai e vidi che avevano le armi puntate. Tentai di spiegare loro che ero uno sfollato, venuto in cerca di uova per mia madre malata. Non credettero ad una parola e mi ordinarono di seguirli dentro casa.
Venni spinto bruscamente su per le scale e fatto entrare in una stanza dove erano già state rinchiuse diverse altre persone, tra le quali riconobbi la staffetta Lulù e alcuni comandanti partigiani. […] Passarono le ore e, dal pavimento della stanza, sentimmo salire delle urla. Alceste Biagiolari era stato legato sul tavolo della cucina e i tedeschi avevano iniziato a torturarlo. Nel tardo pomeriggio, dalla finestra della stanza potemmo vedere i soldati che caricavano su un camion Alceste, trasportato da due tedeschi e ridotto in fin di vita, Lulù, e il nipote di Biagiolari. Ancora oggi mi vengono i brividi nel ricordare quel ragazzo che, guardando nella nostra direzione, urlò in dialetto: «Fangén, io so chi sei! Non abbiamo parlato, vendicateci per quello che ci hanno fatto questi delinquenti!» Fino all’ultimo, la famiglia contadina offriva il suo tributo di sangue a sostegno della Resistenza.
Verso sera il comandante della batteria entrò nella stanza e in buon italiano ci disse che Hitler aveva perso la guerra e che lui non voleva essere accusato di crimini di guerra da un Tribunale alleato. Per tale motivo si sarebbe adoperato perché non ci venisse fatto del male. La mattina del 21 aprile i tedeschi abbandonarono la casa e noi fummo liberi. Appena fuori, ognuno prese la sua strada e io mi diressi verso una base che avevamo tra Castel Maggiore e Bentivoglio. Durante il tragitto intravidi da lontano venire verso di me un gruppo di soldati. Subito mi accorsi che avevano una divisa diversa da quella tedesca. Si trattava di soldati britannici di nazionalità indiana. Finalmente erano arrivati.
Tra le braccia del PCI
A quel tempo [dopo la Liberazione] pensavo che, esaurita l’esperienza partigiana, avrei ripreso il mio lavoro di operaio elettricista. Mi piaceva l’idea di lavorare in proprio, senza i condizionamenti imposti dalla fabbrica, e intendevo portare a termine gli studi da elettromeccanico, per affinare le mie conoscenze sotto il profilo tecnico. Sognavo di mettere in piedi un’azienda altamente qualificata, capace di inserirsi con successo in un mercato del lavoro che la ricostruzione avrebbe fatto necessariamente decollare. […]
Parlando ai partigiani in locali fumosi e affollati, l’invito a raccogliere l’appello del partito veniva rivolto al pubblico facendo nello stesso tempo attenzione a non frustrare le speranze e le aspettative maturate nel periodo resistenziale. I risultati degli sforzi compiuti rimanevano, anche per questo, incerti. Non era infatti infrequente che, al termine di una di quelle serate, i più giovani gli si stringessero intorno e, ammiccando con fare complice, sussurrassero «Oh, guarda bene che abbiamo capito…». In quei casi Aroldo si rendeva conto che era tutto da rifare […]. Dietro ogni sua affermazione, il pubblico era infatti convinto di scorgerne un’altra, implicita, celata dalla retorica ufficiale e volta a smentire l’essenza del discorso appena pronunciato. Respingere senza mezzi termini quell’interpretazione avrebbe, del resto, rischiato di generare nell’uditorio un clima di generale e pericolosa delusione, con il rischio di compromettere il carisma e l’autorità dell’oratore. Erano, questi, microepisodi di quella "doppiezza" della quale, su un piano ben più vasto e articolato, verrà per un lungo periodo di tempo accusata la linea politica del Pci a partire dalla "Svolta di Salerno". Parlare alle masse di democrazia e assicurare sincera fedeltà alle istituzioni, senza contemporaneamente sconfessare in modo inequivocabile le diffuse aspirazioni a una svolta radicale, caratterizzarono infatti per molti anni a venire la complessa strategia di un partito profondamente legato per storia, ideali e obiettivi all’Unione Sovietica e, tuttavia, destinato a svolgere la propria azione in quella parte d’Europa entrata al termine del conflitto nella sfera di influenza statunitense.
Le armi vennero in parte consegnate e in parte furono invece nascoste. Nella riluttanza manifestata da molti partigiani – in buona parte giovani – di fronte alla prospettiva del disarmo, trovava indirettamente conferma all’interno della direzione del Pci la necessità di accelerare quel processo di educazione alla democrazia. Molti partigiani usciti dalla Resistenza stentavano infatti a riconoscersi nel sistema parlamentare pluripartitico che si andava delineando nell’Italia del dopoguerra. […]
Quello che posso affermare è che dalle nostre parti rabbia e odio si sprecavano. Non era facile considerare i fascisti solo come gente che aveva sbagliato ideale. Ora è semplice e, soprattutto, giusto condannare moralmente, oltre che penalmente, chi compie un omicidio, ma allora era diverso. Quella era gente che fino a poco prima aveva ucciso, torturato, violentato i tuoi compagni e le tue compagne; li avevi magari visti prendere a ceffoni il vecchietto perché non aveva fatto il saluto fascista o sbattere in galera l’adolescente per un minimo sospetto. Lo so, furono uccise anche persone che non c’entravano o persone che non avevano responsabilità dirette; ammazzati per errore o per vendette personali e questo è senza dubbio l’aspetto più drammatico e meschino di quel tragico e lungo epilogo. Quello che bisogna tenere presente però è anche il clima di violenza diffusa, abituale, direi quasi fisiologica, nel quale eravamo nati e cresciuti. È difficile farlo comprendere a quelli che sono venuti dopo. Allora era diverso, era troppa la rabbia accumulata, troppo il sangue versato perché si potesse con facilità riuscire a perdonare, riprendere la vita di tutti i giorni e magari finire per abituarsi a incrociare quotidianamente per strada l’uomo che pochi mesi prima aveva ucciso tuo padre o violentato tua sorella. Allora era diverso. Non sempre i pezzi di carta sui quali i generali firmano i trattati di pace sono capaci di porre immediatamente fine alla violenza. In molte zone d’Italia, nel vuoto creatosi tra la fine della guerra e il graduale ripristino della legalità democratica ci fu spazio per una resa dei conti, regolata dalla feroce e grossolana legge del taglione. Una resa dei conti che in alcuni casi si consumò nel corso di anni, ma che in molti altri casi si esaurì nello spazio di pochi terribili mesi. Le cose andarono così; quelli della vostra generazione non possono capirlo. Anche in questo siete più fortunati.
In un primo tempo mi sembrò inconcepibile che potessero essere risparmiati dalla giusta punizione e rimessi in circolazione tanti i fascisti, tra i quali non pochi si erano macchiati di efferate azioni criminose. Questo non mi spingeva a giustificare gli omicidi che la "Volante rossa" stava compiendo a Milano o i rapimenti e le uccisioni organizzate in Emilia da compagni ed ex partigiani, alcuni dei quali avevo avuto modo di conoscere personalmente durante la Resistenza. Al V congresso [del Pci] Togliatti si era espresso in modo netto contro tali estremismi, con parole nelle quali mi ero riconosciuto. Ciò non toglie, però, che la prospettiva di un’amnistia mi inquietava. Fui fortunato ad avere la possibilità di confrontarmi fin da subito con gente come Colombi, grazie al quale iniziai a capire quanto fosse inutile far volare gli stracci, infierire sui vinti invece di recuperarli e attrarli al partito. Naturalmente, mi diceva Colombi, per i criminali non ci deve essere pietà, ma per gli altri l’amnistia deve essere vista come un atto di forza, capace di affermare la superiorità del perdono rispetto alla miseria umana. Avevo accolto quelle parole come una sorte di liberazione, perché andavano a ripescare i fondamenti rudimentali dell’educazione cattolica che avevo ricevuto in famiglia – specie da parte dei miei nonni paterni – e in un certo senso chiudevano il cerchio, riconciliando dentro di me valori religiosi e ideali politici.
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