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La morale dell'uomo planetario - Ernesto Balducci





lunedì 21 ottobre 2002 legge Giovanni Catti
"A mio giudizio, la norma etica non è un imperativo astratto che discenda dall'olimpo dello spirito – è il modo concreto con cui l'uomo organizza la sua vita, i suoi comportamenti contro le minacce di morte. L'etica è una risposta di vita da parte del gruppo sociale e, in universale, della specie umana, di fronte alle minacce di morte e di disgregazione che l'assediano. Questa risposta è commisurata alla forma specifica di queste minacce: quindi, dato un ambiente vitale, si dà un insieme di imperativi morali. Ebbene, l'insieme degli imperativi morali che noi abbiamo ereditato è diventato sproporzionato all'entità della circostanza storica" – così scriveva Ernesto Balducci nel 1985.
La figura di magistrale di Balducci (morto dieci anni fa) continua a parlare anche oggi con decisione e incanto. I suoi allievi "rimangono critici, fedeli al sentimento e al senso dell'onesta ricerca, pur nel vagare nei cieli oltre la modernità". Così monsignor Giovanni Catti, che oggi è rettore dell'Università della Pace "Ernesto Balducci", ne riprende le parole, le prolunga fino agli amici della Bottega dell'Elefante, per verificarne assieme l'attualità. Queste pagine sono una grande e tenera provocazione, perché invitano a inventarsi un nuovo tipo di uomo, "laico, e, perché no?, cristiano" (come diceva Balducci), con un nuovo tipo di tradizione e un nuovo tipo di orizzonte vitale.



Testi:

Ernesto Balducci La morale dell'uomo planetario

"La città" mondiale
[…] Nell'800 gli scienziati parlavano il linguaggio della speranza, della liberazione dall'oscurantismo, dalle superstizioni; oggi gli scienziati ci danno annunci di morte. Essi ci avvertono che il meccanismo messo in moto è un meccanismo che tende, di per sé, con causalità oggettiva, alla catastrofe. Questo dato di fatto non è presente nella coscienza dei più, però, come ci ammonisce la psicologia critica, certi processi oggettivi lavorano nel subconscio in maniera inarrestabile. A mio giudizio, nel subconscio della specie umana sta sollevandosi quella che gli psichiatri chiamano "la sindrome della fine". Quella della sindrome della fine – che è una categoria, mi pare, messa in circolazione da Karl Jaspers nel secondo decennio del secolo – oggi sembra quanto mai pertinente per definire questa percezione confusa, censurata dalla coscienza pubblica, dalla cultura dominante – che non può certo preservare la propria egemonia se lascia libero spazio alla sindrome della morte. La retorica della cultura dominante è sempre vitalistica, sempre legata alla speranza. Però questa sindrome di morte agisce con l'imperiosità dei processi inconsci. d è qui, appunto, che io trovo il luogo di suppurazione – la chiamerò così – della tristezza collettiva, della difficoltà a sperare – che è caratteristica oggi, a tutti i livelli della società, ma specie dei giovani. La caratteristica specifica dell'ultima generazione – chiamiamola, come fanno i giornalisti, dei giovani dell'85 – è proprio l'assenza di speranza. Questa assenza di speranza, nel sottosuolo, investe l'umanità nel suo insieme.

I nuovi imperativi morali
Ora, in questa condizione viene chiamata in causa indirettamente la coscienza morale. Gli imperativi morali che noi abbiamo ereditato sono l'espressione molteplice di una norma etica di fondo, quella che guida la nostra esperienza umana. A mio giudizio, la norma etica non è un imperativo astratto che discenda dall'olimpo dello spirito – è il modo concreto con cui l'uomo organizza la sua vita, i suoi comportamenti contro le minacce di morte. L'etica è una risposta di vita da parte del gruppo sociale e, in universale, della specie umana, di fronte alle minacce di morte e di disgregazione che l'assediano. Questa risposta è commisurata alla forma specifica di queste minacce: quindi, dato un ambiente vitale, si dà un insieme di imperativi morali. Ebbene, l'insieme degli imperativi morali che noi abbiamo ereditato è diventato sproporzionato all'entità della circostanza storica che vi ho descritto.
Ne prendo due, a mo' di esempio. Pensate agli imperativi morali circa la guerra giusta. Erano cosa seria. Certo, alla coscienza che ripudia la violenza, anche l'idea di guerra giusta sembra un'abnormità. Ma se noi ci caliamo nel concreto storico non possiamo non riconoscere il quoziente di eticità che vi era contenuto. Ma nella nuova congiuntura quegli imperativi sono privi di senso. A me è capitato, anche per circostanze autobiografiche, di consultare, un tempo, l'Enciclopedia Cattolica alla voce "obiezione di coscienza". Essa viene condannata in assoluto perché il dovere di ogni cittadino è di obbedire alle autorità legittime. Che – se esse dichiarano una guerra ingiusta, la responsabilità è loro, non del suddito. Affermazione assurda, oggi, e che però aveva un suo senso in un dato momento storico. Gli imperativi morali vanno mantenuti, come i pesci, nella loro acqua. Oggi è evidente che la responsabilità del futuro del mondo è di ogni coscienza. L'uomo viene chiamato in causa in quanto membro della specie – per usare il linguaggio einsteiniano – e non in quanto italiano o cattolico.
Un altro imperativo che mi viene in mente è quello del rapporto uomo-natura. In nessun manuale ho mai trovato un capitolo che riguardi i doveri dell'uomo nei confronti della natura. Era considerata peccato la bugia, ma non: sporcare un fiume, distruggere i fiori, sprecare energia. L'uomo veniva concepito come dominatore della natura nel senso romano: con lo ius utendi atque abutendi. Oggi noi sentiamo invece che il rapporto uomo-natura è investito di un'alta qualità morale.
La norma etica costitutiva dell'uomo rimane quella: la conservazione della vita in tutte le sue dimensioni, ma essa si esplicita in imperativi morali nuovi, che in parte sono ancora da inventare. Ci troviamo, dunque, in una specie di terra di nessuno della morale. […]

Un nuovo Umanesimo

E, dentro questa necessità, un compito fondamentale, a mio giudizio, è quello di creare una nuova memoria dell'uomo. In questo vuoto, in questa assenza di centralità coscienziale, prosperano e si diffondono processi di disgregazione, che sono quelli che colpiscono il nostro sguardo appena osserviamo, sia pure panoramicamente, la condizione morale del mondo d'oggi. Avevamo tante speranze! E non c'è capitolo infame della storia del passato che non si riproduca, oggi, in forma dilatata: la tortura, lo sterminio, il genocidio. Tutte queste cose infami, che dopo Auschwitz noi abbiamo creduto che non si sarebbero più ripetute, si ripetono invece in modo dilatato e con tale frequenza che non fanno più nemmeno cronaca. La barbarie dilaga. Non è affatto vero che allo sviluppo di struttura è corrisposto un progresso di coscienza. La coscienza è rimasta ancorata ai suoi modi di rappresentarsi il mondo anteriore a questa unificazione strutturale. Per questo ci occorre una unificazione della memoria. La coscienza che l'uomo ha di sé trova, come suo punto d'appoggio oggettivo, la memoria del passato, ritrovando nel passato dell'umanità le dimensioni corrispondenti a questa possibilità di futuro. […] Mi viene in mente, visto che siamo a Firenze, quanto qui capitò agli inizi del '400, ai tempi di Coluccio Salutati. Quello che chiamiamo umanesimo, di cui siamo un po' figli tutti, che cos'era in realtà? Era l'esigenza di una memoria del passato corrispondente alle nuove responsabilità dell'uomo, deciso ad abitare non più nei monasteri, ma nella città. La città era il nuovo spazio della perfezione umana, mentre il Medioevo aveva posto il monastero come spazio della perfezione. Per fare questo bisognava che l'uomo ritrovasse nella sua memoria i momenti in cui l'esistenza civica non era dominata dalla verticale religiosa, ma vincolata dalle dinamiche creative della vita associata. Quindi si tornò alla classicità. […]
Nella città planetaria noi dobbiamo liberarci dell'umanesimo della classicità in quanto non più corrispondente alle nuove dimensioni del futuro. Io considero un sintomo di grande valore morale – omogeneo al futuro che cerco di tratteggiare – il fatto che la memoria dell'uomo si estende fino ad abbracciare la Preistoria. La ricerca dei fossili in cui è scritta la grande epopea che la specie ha vissuto per milioni di anni, ha qualcosa di alto, di molto più alto che non la ricerca dei codici dei classici antichi. I relitti della Storia dell'umanità ci riconducono ad un ceppo originario della nostra specie, segnato da straordinarie lotte per la sopravvivenza. Le grandi mutazioni che hanno condotto all'homo sapiens sono avvenute nel discrimine fra vita e morte. In questa memoria del passato, non più legata ai monumenti, ai libri, ma a questo sacro afflato di vita che ha sospinto il Primate fino a diventare coscienza, noi leggiamo la contingenza dell'Umanità nello spazio, la precarietà dell'esistere. E rompiamo in noi un dogma terribile, che ha giocato funestamente: la specie c'è, la Storia è sicura come le stelle del cielo. La Storia, cioè la vita della specie, era fino ad oggi solo un presupposto da cui partire, non era un oggetto di scelta. Era un dato, e quindi non rientrava negli spazi della libertà dell'uomo. Noi oggi abbiamo questo di nuovo: la specie umana è un oggetto di scelta. Possiamo decidere di annientarlo. Questa improvvisa pubertà della libertà, che investe, con le sue alternative di essere e non essere, lo stesso ceppo biologico da cui proveniamo, è un'esperienza che genera angoscia, secondo il principio kierkegaardiano che l'angoscia ha le misure della percezione delle possibilità. Noi oggi abbiamo misure di possibilità che i nostri padri non avevano. Di qui l'angoscia che passa nei sotterranei della coscienza collettiva. In questo riandare alla storia della specie io trovo non semplicemente un arricchimento di erudizione, ma una perlustrazione della qualità specifica della nostra specie, che è la ricerca della vita, è una risposta vitale alle minacce di morte. […] Insomma, la mia umanità non è solo quella di Roma, Atene e via via, secondo la retorica scolastica in cui sono cresciuto e che anche ho contribuito a diffondere; è la specie umana nella sua vastità nel tempo e nello spazio. Di qui nasce in me il sentimento della precarietà e del dovere morale di preservare la fiaccola della vita, nasce un'umiltà creaturale, se posso usare questa parola, che mi fa camminare con intelligenza nella terra madre, che nello sposalizio con il Sole ha partorito questa creazione straordinaria. Questo modo laico, ma, perché no?, anche profondamente cristiano di guardare il mondo, è una dimensione necessaria per questa nuova eticità.


La crisi delle ideologie e delle religioni
Pensiamo alle due grandi ideologie che hanno caratterizzato la storia dell'Occidente durante la sua grande avventura industriale [quella liberale e quella marxista]. Hanno avuto, tutte e due, caratteri universalistici, che le hanno rese così affascinanti per la coscienza e, ancora, rappresentano un'eredità che solo criticamente va superata, ma che non può essere rigettata. Pensiamo alla grande ideologia liberale. La convinzione che la visione del mondo, basata sui principi del liberalismo, era una visione adatta a tutti gli uomini, capace di eliminare dall'Umanità la minaccia della guerra e tutte le forme di oppressione dell'uomo, ha nutrito generazioni. Essa ha deposto in noi principi irrinunciabili, che sono scritti, fra l'altro, nella Carta delle Nazioni Unite. I principi di libertà, così definiti, basati sulle istituzioni formalmente democratiche che trasmettono e garantiscono la libertà, la sovranità popolare, sono allo sbaraglio e diremo subito perché.
E così l'ideologia proletaria, marxista, nata dalle contraddizioni della prima organizzazione della società industriale, ha però ereditato l'esigenza di universalità, per cui, come diceva Marx, la cultura, la filosofia proletaria è erede della cultura borghese, ne assume il nocciolo universale, inquadrandolo e sviluppandolo dialetticamente. Anche questa ideologia non ha la misura della nuova condizione. Perché? Perché alla base di ambedue c'è un principio costitutivo delle prospettive sul futuro: il primato dell'homo oeconomicus, dell'economicità come principio determinante dell'esistenza storica. Affermazione che nel marxismo è scoperta, nel liberalismo-capitalismo è coperta, ma c'è. La civiltà industriale ha costruito una cultura e un'organizzazione del mondo basato sul primato dell'economico. Evidentemente la Storia non è una deduzione geometrica: nonostante l'errore di partenza, nel corso di queste ideologie sono venuti alla luce valori straordinari, irrinunciabili. Però noi sentiamo che queste due ideologie non sono in grado di costruire una comunità mondiale, perché esse sono interne a una visione particolaristica dell'uomo, ispirate allo sfruttamento illimitato della natura e del dominio dell'uomo sull'uomo. Queste ideologie non sono in grado di accogliere le molteplici eredità spirituali e culturali che vengono da ogni parte del pianeta. Difatti noi vediamo che esse non riescono ad allignare in altre regioni fuori dell'Occidente. Questo noi lo imputiamo al livello di barbarie degli altri popoli, ma in realtà la colpa è del particolarismo della nostra produzione culturale che presume di essere universale, mentre non lo è. […]
Le religioni sono segnate da un irrimediabile particolarismo, compreso il Cristianesimo. Il Cristianesimo può essere considerato o come una religione, cioè come un insieme di riti, di concetti, di simboli, di pratiche, e allora esso è un prodotto culturale le cui radici sono ben facilmente riconoscibili. Ma esso ha come suo afflato interno una fede messianica, quella che ha preso volto e parole nel Figlio dell'uomo, in Colui che io considero l'Uomo Planetario. Nell'Uomo Gesù noi troviamo l'universalità. Ma le forme storiche del cristianesimo sono profondamente in crisi, perché, checché ne pensiamo noi della tribù cristiana, esse portano il segno del particolarismo e quindi possono generare sopraffazione spirituale, menomazione della dignità umana, ma possono, per quell'ambivalenza che ho detto, suscitare anche le più grandi spinte della speranza emancipatrice. In certe zone della Cristianità oggi il messaggio evangelico è diventato addirittura ispirazione rivoluzionaria.

Oltre il "panottico"
Finora nel mio discorso c'è stata una predominanza di accenti catastrofici e una sottolineatura delle ragioni oggettive dell'angoscia piuttosto che ragioni di speranza. Mi ricordo che una volta, in un dibattito, Basaglia mi freddò con questa parole, che non ho più dimenticato: "caro Balducci, anche la speranza può essere un falso Messia". Non è che la speranza la dobbiamo dare a tutti i costi. La "speranza a tutti i costi" può essere una dose oppiacea molto utile per sopportare condizioni insopportabili, però alla fine è distruttiva. Anche in questo dobbiamo stare attenti.
Nel nuovo tempo in cui siamo occorre un grande rispetto per la verità delle cose. Io credo che il punto critico di questo cambiamento è nella constatazione che, allo stato delle cose, non esiste un punto di vista per osservare il mondo capace di unificare in sé tutti gli altri punti di vista. Non ci è più lecito, se mai lo è stato, guardare alle altre culture con la speranza che un giorno esse accettino il nostro punto di vista. Io amo tradurre questo "punto di vista" usando l'immagine benthamiana del "panottico". Il "panottico" è la costruzione che Bentham immaginò per le carceri, ma che a suo giudizio era trasferibile alle caserme o alle scuole: i carcerati – ma potete dire i soldati o gli alunni – si trovano distribuiti in modo che ci sia un centro dove sta il direttore, da cui si guarda ognuno. Ognuno è visibile, sottoposto all'occhio centrale. Ebbene, la nostra civiltà si è costituita secondo il principio del panottico. Noi abbiamo pensato che, con il progresso, finalmente anche gli africani avrebbero accettato il nostro punto di vista. La nostra cultura si è costruita così. […] Abbiamo insegnato ai negri a guardarci con il nostro occhio. Abbiamo compiuto l'estirpazione più grave, lo sguardo. Ma ormai noi stessi siamo nella pluralità dei punti di vista: questo è il dramma! Dobbiamo mirare ad un punto di vista potenziale, cioè a costruirci una nuova identità, che sia planetaria, capace di comprendere la pluralità dei punti di vista. Dobbiamo provocare la frantumazione del panottico e la riabilitazione di tutti i punti di vista. Questo avviene quando io mi sforzo di guardarmi con l'occhio dell'altro. Guardarci con gli occhi degli altri è un grande principio, anche di vita privata. Il sistema informativo che noi abbiamo è tale che i negri dello Zaire hanno dello Zaire le notizie che sono preparate a Washington e in Francia. Noi diamo al Terzo mondo un'immagine del Terzo mondo fabbricata nel Primo mondo: questo è il progresso! Ma quando, per caso, quelli del Terzo mondo rompono il panottico, allora la rabbia li spinge al rigetto totale. Noi dobbiamo entrare in un tempo nuovo in cui ogni punto di vista sia abilitato a confrontarsi con l'altro e con le cose. E' un tempo nuovo, un tempo arduo.

Superare la dicotomia amico-nemico
[…] Noi dobbiamo convertirci al futuro, alla nuova identità. Io rispetto l'identità musulmana, perché ha una ricchezza che nel nostro panottico non era conosciuta. Il panottico è stato costruito dai Crociati, e ci siamo ancora dentro. Io resto fedele alla mia storia, ma protesa verso un'unificazione. Per fare questo devo distruggere in me una struttura che è stata il principio di fondo della nostra educazione: la struttura amico-nemico. Una struttura di fondo più di quanto non sembri, perché l'identità particolaristica è sempre stata legata all'identificazione del nemico. Che differenza c'è fra Gesù Cristo e i Cristiani? Gesù non aveva nemici – o meglio ne aveva, ma non era nemico di nessuno – i Cristiani si sono sempre identificati in rapporto a dei nemici – i Pagani, e poi i Musulmani e poi i Protestanti, i Massoni e poi i Comunisti. Se a certi cattolici togliete il nemico, si sentono in crisi, si dissolvono! Il principio dell'identità del nemico è la mediazione della propria identità. Ho parlato di Cristiani perché è sempre onesto essere severi in casa propria, però nessuno può scagliare la prima pietra! Superare la struttura antropologica amico-nemico significa uscire fuori dalla tribù; e questo è il difficile. In questa creazione dell'uomo planetario sono più ricchi gli altri di noi. I negri del Sud Africa ci danno straordinarie lezioni. Non ci sono più lezioni in casa nostra. In casa europea non mi trovate più grandi esempi morali. Presso a poco ci rassomigliamo tutti, un po' schifosi, un po' ammirevoli. La diversità esemplare ci viene da coloro che erano fuori del panottico. Questo è significativo, da almeno vent'anni.
Nel liberarci da questa prigionia strutturale che è la dicotomia amico-nemico, dobbiamo tuttavia accettare il principio critico diffuso dalla scienza come principio costitutivo della nuova razionalità umana. Non si può entrare nella città planetaria senza l'uso del principio critico che la scienza ha costruito e generalizzato. Ad esempio, chi vive dentro la sua cultura, la sua religione, non può fare a meno del principio critico della scienza. Il nostro rapporto anche con le credenze del passato non deve avvenire in modo immediato, ma sempre in modo mediato, cioè in modo critico. Questo è un elemento che io considero un prodotto universalizzabile della nostra cultura occidentale.
Così ormai va accettato il principio dell'interdipendenza fra tutte le porzioni del Pianeta: assumere la contraddizione Nord-Sud del Pianeta, come punto di riferimento per la comprensione e la soluzione di tutti i problemi. I problemi politici vanno collocati in un quadro di riferimento in cui trovano la loro dialettica costitutiva: la frattura drammatica fra Nord e Sud, in cui, appunto, il particolarismo della civiltà occidentale è stato scoperto, a volte, con dramma. Abbiamo celebrato un altro anniversario: quello della conferenza di Bandung del 1955, in cui i paesi Afro-asiatici si riunirono e dichiararono di voler salvare la propria identità dall'Occidente. I giornali nostri – strumenti del panottico – appena se ne accorsero. Però la storia ha camminato in quel senso. E siamo appena agli inizi. Ma l'elemento antropologico costitutivo dell'uomo e della città planetaria è il rigetto della fiducia – tipica della tribù – che l'uso della forza sia idoneo a risolvere i conflitti tra i popoli. Se c'è un elemento tribale chiaro è l'arma: dalla clava alla bomba atomica, ecco i segni della tribù. Anche la bomba atomica è tribale, fino al feticismo. I luoghi in cui ci sono gli arsenali atomici li chiamano i "santuari". La bomba atomica ha creato un suo feticismo, i suoi segreti, i suoi sacerdoti, i suoi culti druidici, i suoi simboli fallici, la sua oscura razionalità. Noi ci siamo dentro. Questa è la storia della violenza. Come diceva Marx. noi siamo nella preistoria dell'uomo, non nella storia. E Teilhard de Chardin (un uomo di profonda ispirazione cristiana) diceva che noi siamo ancora nel Neolitico. Finché non avremo rinunciato, non solo alle opzioni astratte, ma alle scelte concrete, all'uso dell'arma, noi siamo al di qua della soglia della città mondiale, della città planetaria.

Cittadini del nuovo tempo
Queste sono indicazioni prospettiche che, come costume, come movimento, come progetto concreto operativo, hanno un riscontro nel panorama del mondo di oggi. Il quale, dunque, per un verso è dominato dai processi della disgregazione, ma per l'altro è attraversato come da un afflato creativo. Siamo, appunto, nel cuore della mutazione in corso.
E' in questa situazione che noi dobbiamo vivere secondo il principio della duplice appartenenza interiore. Io che vi parlo, per riassumere tutto con la testimonianza personale, mi considero, per un verso, figlio della tribù e obbligato a rispettare alcune regole della mia tribù. Non posso farne a meno. Mi lega a questa osservanza la solidarietà con tutti gli altri: devo vivere con gli altri, accettare certe regole. Solo che quelle regole non sono più assolute.
Secondo un famoso apologo zen, il discepolo quando è appena agli inizi, guarda gli alberi e le montagne e crede che siano alberi e montagne. Quando comincia a crescere si accorge che le montagne non sono montagne, che gli alberi non sono alberi, le acque non lo sono. Quando è perfetto le acque tornano ad essere acque, e gli alberi alberi ecc. Così io dico: quando ero figlio della tribù credevo che la mia verità fosse la verità, che la mia religione fosse universale (la religione, torno a dire, non la mia fede cristiana), che i miei modelli di cultura e di bellezza fossero universali. poi sono passato, forse, attraverso una tentazione distruttiva di tutto questo. Ora mi accorgo che invece no, le cose belle sono cose belle, la cultura che io ho ereditato è veramente cultura. Solo che non è la Cultura. Io appartengo già alla città planetaria di cui conosco lo stile, le esigenze: le imparo. Devo superare, ad esempio, il mio rapporto con il nemico; se uno mi è nemico io non gli sono nemico. Se seguissi meglio la tribù dovrei esserlo – ed a volte vi assicuro che seguo le leggi della tribù – ma per essere cittadino della mia città non devo rispondere all'aggressione del nemico con l'aggressione. In questo non faccio niente di eccezionale, non presumo di essere un santo: sono un cittadino del tempo nuovo. Se io detesto i missili non è perché sono catturato da un'ideologia, ma perché sento che essi appartengono alla nostra preistoria e ci uccideranno! Allora io vivo con due appartenenze, con due cittadinanze, ma le vivo nell'unità della mia esistenza indivisibile: ecco la contraddizione. Il problema morale è non di fare l'equilibrismo, ma di vivere in una tensione permanente. Da una parte rispettare le regole: io sento che sono relative, le accetto, ma sono relative, non sono più assolute. E per l'altro devo anticipare, per quanto possibile (con un discernimento, nel foro della coscienza interiore) i modi di essere nella città planetaria. E' questo il dramma che distingue la nostra generazione. Dobbiamo saperlo vivere con serietà profonda, accettando la contraddizione come nostro modo di vivere, non per esserne dominati, ma per gestirla e dominarla.

(Dalla conferenza tenuta al Centro Studi "Martini", Firenze, Palazzo dei Congressi 29 ottobre 1985, pubblicato su "Testimonianze" 281, 1986)

Ernesto Balducci
Da Santa Fiora sul monte Amiata a Firenze, a Roma e di nuovo a Firenze, e finalmente a Cesena: sono i luoghi di sosta di Ernesto Balducci, fra il 1922 e il 1992.
Un architetto statunitense o un filosofo francese direbbero forse che si tratta di un lungo viaggio dal pre-moderno al moderno, fin sulla soglia del post-moderno.
Veniva da un incantamento, del monte e del bosco, della miniera e dell'osteria.
Fu immerso in ambienti, fiorentini o romani, di disincantamento.
Ernesto Balducci. La Chiesa e la modernità è il titolo del volume di Bruna Bocchini Camaiani, Laterza 2002, dove si ripercorrono gli anni della formazione nello Studentato romano agli anni mitici dell'esperienza fiorentina, fino all'impegno per la pace e per il Concilio.
Vengono i giorni delle tensioni, del post-Concilio: delusioni e riflessioni, la crisi del prete, le difficoltà all'interno dell'Ordine degli Scolopi e la protezione di Paolo VI. Sono giorni di fedeltà critica.
A Badia Fiesolana è preso "come per incantamento" da chi si stringe intorno a lui, alla mensa della Parola e dell'Eucarestia: parrocchiani allontanatisi o allontanati da loro aggruppamenti.
Allo stesso modo è incantato da chi lo richiama a Cesena. Sono esploratori cattolici, lettori della rivista "Testimonianze", scolari e studenti, scolare e studentesse, militanti in azione cattolica, anarchici non violenti, e sono immersi nel fiume delle sue parole. Lo ascoltano e quindi rimangono critici, fedeli al sentimento e al senso dell'onesta ricerca, pur nel vagare nei cieli oltre la modernità.
Era fedele al sua carattere sacerdotale e alla sua appartenenza alla Congregazione degli Scolopi, nel suo morire nell'Ospedale M. Bufalini in Cesena, dopo un incidente stradale, alle 12.05 del 25 aprile 1992. (Giovanni Catti)

Sull’educazione alla pace
Alcuni strumenti di approfondimento
- Ernesto Balducci, L'uomo planetario, Camunia 1985
- Ernesto Balducci, Lodovico Grassi, La pace, realismo di un’utopia, Principato 1985;
- Il messaggio di Aldo Capitini, Lacaita 1977;
- Giovanni Catti (a cura di), Don Milani e la pace, EGA, Torino 1988;
- Alberto L’Abate (a cura di), Addestramento alla nonviolenza, Satyagraha, Torino 1985;
- Giuliana Martirani, La geografia come educazione allo sviluppo e alla pace, Ed. Dehoniane, 1985;
- Gene Sharp, Politica dell’azione nonviolenta, EGA, Torino 1985-1997.
Alcuni indirizzi utili
centri di ricerca
- Amnesty International, viale Mazzini 146, 00195 Roma;
- Archivio Disarmo, piazza Cavour 17, 00193 Roma;
- Centro nuovo modello di sviluppo, via della barra 32, 56019 Vecchiano (PI);
- Lega per il diritto e la liberazione dei popoli, via dogana vecchia 5, 00186 Roma.
riviste
- "Amanecer", c/o Centro comunitario, via Roma, 01020 Celleno (VT);
- "Aspe", via Giolitti 21, 10123 Torino;
- "Azione nonviolenta", via Spagna 8, 37123 Verona;
- "Cem-mondialità", via S. Martino 8, 43100 Parma;
- "I care" [dal prossimo numero si chiamerà "Equonomia"], via della barra 32, 56019 Vecchiano (PI);
- "Nigrizia", vicolo Pozzo 1, 37129 Verona;
- "Testimonianze", via Badia dei Roccettini 11, 50016 S. Domenico di Fiesole (FI).
editori
- Edizioni Cultura della Pace [in sigla: ECP], via Badia dei Roccettini 11, 50016 S. Domenico di Fiesole (FI);
- Edizioni Gruppo Abele [in sigla: EGA], via Carlo Alberto 18, 10123 Torino;
- Edizioni La Meridiana, via D’Azeglio 46, 70056 Molfetta (BA);
- La Piccola Editrice, c/o Centro comunitario, via Roma, 01020 Celleno (VT);
- Libreria Editrice Fiorentina [in sigla: LEF], via Giambologna 5, 50132 Firenze;
- Roberto Massari Editore [già Erre Emme Edizioni], c. p. 144, 01023 Bolsena (VT);
- Edizioni Sonda, corso Mediterraneo 68, 10129 Torino.


Dibattito:

Al termine delle letture, un silenzio carico di riflessioni ha sostato nella sala. Prende la parola, conscio del suo ruolo di apripista, Renzo Tosi, che tra i grandi interrogativi suscitati dai densissimi testi segnala l’attenzione nuova ai classici, da Plutarco in poi visti come modello immutabile, sempre uguale a se stesso, portatore di una morale assoluta, mentre Balducci parla di una morale relativa. Catti subito ribadisce che Balducci è uomo di frontiera, sicuramente contrario alle codificazioni da “vetero-liceo classico”di una eredità esclusivamente umanistica degli antichi.
Filloni nota quanto siano pregnanti le parole appena ascoltate nel contemporaneo deserto culturale, non più uso a dibattere certe tematiche.Si parla oggi di democrazia in forma astratta, guscio vuoto,mentre bisognerebbe creare a tutti i livelli la coscienza della complessità dell’uomo e delle problematiche che ciò comporta per la convivenza.
Degli Esposti appunta l’attenzione sulla questione della non aggressione come discriminante forte, anche nell’ambito del dibattito sugli “extracomunitari”: Catti ricorda quanto sia importante, per questo, rigettare quel silenzio che porta alla “normalità”, quella “banalità” del male, quell’inerzia che tanto male ha prodotto, per opporvi la “banalità” del bene intesa come resistenza alla base, come forma di pregio del pensiero. Ricorda poi come nel pensiero di Balducci fosse importante non staccare la comunicazione con chi dissente da noi, sostituendo all’idea di nemico quella di avversario dialettico-.
Il “modesto marxista” Bollini, interessato alla meditazione sulla morale, vuole sottolineare un passo sugli imperativi morali imprescindibili e cita Simone Weil che, tra i principi irrinunciabili, pone il mangiare, il bere, il riscaldarsi e il riposare: elementi basilari perché esista un uomo.
Palmieri cita, dal filosofo Jonàs, il principio di responsabilità dell’individuo di fronte alla specie, la cui conservazione diventa fonte di morale. Vorrebbe però capire meglio perché Balducci dichiari Gesù Cristo uomo planetario.
Del Piano ricorda come Balducci sia un pensatore sempre attento al concreto (intervenne anche al dibattito interno del PCI e alla riflessione sulla guerra del 1991) e si chiede come avrebbe giudicato, se non fosse morto, gli eventi successivi.
Catti chiede una conclusione aperta: auspica un tempo in cui ognuno faccia una sua confessione di fede, nella quale i propri principi vengano “masticati”, cioè sentiti in tutta la loro forza, ma al tempo stesso sa che vale il principio rosminiano della “gradualità”.