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Il lavoro culturale, La vita agra - Luciano Bianciardi





lunedì 14 ottobre 2002 legge Ettore Bianciardi
Luciano Bianciardi (1922 – 1971) è un giovane intellettuale toscano quando in provincia tenta di compiere la “ rivoluzione culturale”: portare la cultura alle masse, farle evolvere, capire, discutere, prendere coscienza. Tenta di rivoluzionare l’intera industria culturale là dove sta nascendo, a Milano. Dopo poco, rifiutato da quella industria e costretto a viverne ai margini, si isola nel lavoro di traduzione che costituisce la sua fonte di reddito e quasi a tempo perso scrive libri. Uno di essi,”La vita agra”, ha finalmente successo, ma non del tipo voluto dall’autore , il quale si isola ancora di più: rifiuta collaborazioni importanti, scrive su giornali definiti minori e consuma il dramma della sua insoddisfazione, fino alla sua prematura morte .
Bianciardi è impegnato in tematiche politiche, sociali, letterarie e di costume: è anarchico, almeno nel temperamento, e sempre polemico, irride i miti della società del suo tempo: i circoli culturali, la cultura di facciata, il boom economico, la fede nel consumismo, le aspettative per la sinistra al governo, il potere della televisione, la vita in azienda e nella grande città.
A trent’anni dalla morte di Bianciardi, questi temi non sembrano affatto consumati dal tempo. Così la rilettura di Bianciardi potrà stimolare la ripresa di una discussione utile e necessaria alla costruzione del nostro futuro.

Il figlio Ettore, legge alcuni brani selezionati dai romanzi “Il lavoro culturale“(1957), “L’integrazione” (1960), “La vita agra” (1962), “Aprire il fuoco” (1969).



Scheda:

LUCIANO BIANCIARDI: un rivoluzionario triste

Bianciardi è un giovane intellettuale di ottima cultura e di grande spirito rivoluzionario nel dopoguerra, a Grosseto, dove era nato nel 1922: laureato alla Scuola Normale di Pisa in Filosofia, subito insegnante di lettere, addirittura Direttore della Biblioteca cittadina, già collaboratore di alcuni giornali. Lì, in provincia si impegna subito nell’attività culturale, vuole che alla svolta politica e sociale della caduta del fascismo e della nascita della Repubblica, faccia seguito una rivoluzione culturale che cambi dall’interno questa nazione e questo popolo, che gli dia una vera identità, che lo aiuti e lo guidi a comprendere i propri problemi e a tentarne una soluzione.
Si rende presto conto che non è facile, inoltre probabilmente quella provincia non è lo scenario ideale per i suoi intenti cosicché nel 1954 decide di trasferirsi a Milano, la grande città, in piena esplosione demografica, economica e culturale, dove il suo lavoro sarebbe stato sicuramente più efficace. Di lì a poco, nel 1957, scrive Il Lavoro Culturale, dove racconta il fallimento della sua rivoluzione culturale in provincia.
A Milano Bianciardi viene assunto dalla nascente casa editrice Feltrinelli, come redattore, per partecipare alla “grossa iniziativa” che lì si andava formando, alla diffusione della cultura tra le masse. Inizia a lavorare con grande entusiasmo, cerca di proporre idee, filoni di ricerca, vuole che la grossa iniziativa serva soprattutto a scavare pezzo per pezzo tutto il paese. Ma non é facile, ben presto si rende conto che quell’industria culturale è ben altra cosa da quanto si era immaginato in provincia: la casa editrice è dominata da rapporti di potere, da simpatie personali del capo, da burocrazie assurde. D’altronde egli non riesce a lavorare accettando il ben che minimo compromesso, vorrebbe avere una autonomia totale e dei mezzi economici sufficienti; di più quando si scontra con gli altri, non ne tace difetti e assurdità, anzi li deride, li estremizza, ne sottolinea il ridicolo che c’è dentro e se ne estranea. Nel 1960 viene pubblicato, L’Integrazione: è il diario di quei giorni.
Ben presto questa industria culturale lo mette alla porta, pur cercando di non fargli troppo male, forse rammaricandosi di non poter sfruttare un così bell’ingegno: la Feltrinelli lo licenzia per scarso rendimento, ma lo avvia ad un lavoro di traduzione dalla lingua inglese, assicurandogli un lavoro che lo accompagnerà per il resto della sua vita. Sono bastati pochi mesi ed il giovane intellettuale di provincia, salito a Milano per fare la rivoluzione, che non riusciva a fare in provincia, si trova emarginato da quella società, da quella città in cui però deve continuare a vivere e lavorare per mangiare.
In quegli anni affiorano la disperazione, il rammarico di vedere la sua vita risultare inutile, la vergogna di sopravvivere solo ai margini di una società di cui avrebbe voluto essere un protagonista. Nasce allora, siamo nel 1962, La Vita Agra, Il romanzo è il memoriale fedele dei suoi anni a Milano dopo il licenziamento dalla Feltrinelli, il diario minuto delle sue difficoltà a sopravvivere, delle sue giornate tra alcool, sigarette, cartelle di traduzione e pensieri tristi, sempre con l’affanno di non riuscire a farcela. E’ l’ammissione tragica della sua sconfitta, di non essere riuscito nell’impresa per la quale era venuto a Milano. Già perché era venuto a Milano? Non già tanto per cambiare l’industria culturale, ma – ed ecco la prima molecola di fiction in Bianciardi – per compiere un vero e proprio atto di terrorismo: far saltare in aria il palazzo della Montecatini, per vendicare quei minatori morti che lui vide estrarre dalla miniera di Ribolla, vicino casa sua, dopo una tremenda esplosione di grisou.
Bianciardi non era riuscito a fare la rivoluzione coi fatti, adesso cerca di farne una ideale con un messaggio, estremamente violento, che lancia a quella società che lo aveva rigettato, costretto a vivere ai suoi margini. Si aspetta il botto. Chissà come avrebbe reagito la società del tempo, siamo solo nel 1962, non dimentichiamolo, chi aveva il coraggio allora di ammettere, anche per finta, di aver avuto l’intenzione di tirare una bomba, di dichiararsi anarchico? C’era da finire in galera per molto meno!
Incredibilmente non succede niente di tutto questo, anzi, succede il contrario, la società italiana che sta “aprendo a sinistra”, guarda con divertita e interessata curiosità a questo romanzo e a quest’uomo, vuol saperne di più, lo adotta e lo invita in molti salotti e ritrovi culturali, la parola anarchico non suscita più terrore, indignazione e rifiuto, ma simpatia e interesse. Il libro ha un successo immediato e grandissimo, le varie edizioni si succedono in fretta, ne viene fatto un film; Bianciardi diventa famoso e abbastanza ricco, almeno non ha più i problemi economici degli anni passati. E’ richiesto in tutta Italia, tutti lo coccolano un po’, aspettano di sentirsi dire cose strane, grottesche, rivoluzionarie, anarchiche, “di sinistra” insomma.
Ma l’uomo, il rivoluzionario, non è soddisfatto, anzi. Si vergogna ancor più di se stesso e del suo successo, che per lui è invece un tremendo e vergognoso nuovo fallimento. Si chiude sempre più in se stesso, si butta a capofitto nel lavoro di traduttore che lo fa sentire più puro e meno contaminato, rifiuta collaborazioni prestigiose, preferisce scrivere in giornali minori, su argomenti “meno seri”; al Corriere della Sera preferisce Le Ore, ABC e il Guerin Sportivo
Ma c’è un altro aspetto nella vita e nella formazione culturale di Luciano Bianciardi, di cui tenere conto: Il Risorgimento Italiano. Bianciardi ama il Risorgimento, lo ama fin dall’infanzia; negli anni ne rimuove la patina celebrativa e apprezza quelle manifestazioni del Risorgimento che hanno origine popolare: la spedizione dei Mille, l’impresa di Pisacane, le Cinque Giornate di Milano. Diventa un vero esperto di Risorgimento, con idee e opinioni assolutamente contro corrente per i suoi tempi e di Risorgimento scrive. Un suo primo libro Da Quarto a Torino esce nel 1960, proprio nell’anno del centenario della spedizione dei Mille. Sarebbe stato bello per Bianciardi vivere in mezzo ai mille uomini molto diversi tra di loro che seguirono Garibaldi nella sua avventura, oppure partecipare a quella comune democratica di intellettuali, popolani e aristocratici che furono le giornate rivoluzionarie di Milano del 1848 e sarebbe stato bello soprattutto parteciparvi da intellettuale quale lui era, sperando forse di compiere allora, in quel contesto storico, quella rivoluzione fortemente desiderata, ma mai compiuta. Nasce allora (1964) La Battaglia Soda, romanzo storico perfetto di Bianciardi, perfetto come linguaggio, come ritmo narrativo, come minuziosa e fedele ricostruzione storica.
Frattanto si è fatto convincere a lasciare Milano e trasferirsi a Rapallo. Si compie così l’ultimo atto: dopo l’abbandono della provincia e l’arrivo a Milano, dopo il fallimento della rivoluzione culturale, la non esplosione della bomba, pure solo letteraria, si sente costretto a lasciare quella città, che è un po’ il campo delle sue battaglie perse, perciò comincia anche a sentirsi esiliato.
Tutti questi motivi si fondono in una sintesi mirabile e complessa in Aprire il fuoco: l’ultimo libro di Bianciardi, il suo ultimo memoriale di sconfitte, il suo testamento spirituale prima della morte, il suo ultimo tragico e disperato grido al mondo prima di uscirne.
Allontanatosi dalla provincia in cui non era riuscito a combinare niente di buono, espulso dalla industria culturale di Milano che sognava di dirigere, costretto a vivere ai margini di una società e di una città vivendo di lavori minori, del “battonaggio del traduttore” per sopravvivere, trasformato da questa società da anarchico in giullare, è costretto suo malgrado a lasciare questa città, che aveva considerato il teatro della sua rivoluzione e vivere a Rapallo, in esilio.
Ma quali furono le ragioni vere del suo esilio? Ecco che scatta l’altra molecola di fiction di Bianciardi, dopo la bomba della Vita Agra: fu perché a Milano Bianciardi partecipò ai fatti rivoluzionari che accaddero in quella città nel marzo del 1959 e portarono alla momentanea cacciata del governo austriaco dalla città. Chiaramente queste giornate milanesi di rivolta del 1959 assomigliano moltissimo alle cinque giornate di Milano di centoundici anni prima: i due avvenimenti si confondono tra di loro, l’autore forza su questa ambiguità, lasciando spesso il lettore con qualche dubbio. In tal modo però Bianciardi riesce a fondere tra loro i due temi del suo sentire: il racconto doloroso, ma terapeutico delle sue sconfitte e della sua vita infelice e l’immaginarsi felice protagonista dentro al suo periodo storico preferito, quello risorgimentale.
La morte lo coglie nel 1971, prima che compia il quarantanovesimo anno di età.

La definizione di se stesso che Bianciardi avrebbe sicuramente gradito è quella di rivoluzionario, rivoluzionario triste, perché sempre sconfitto. Questa almeno era sicuramente la sua convinzione negli anni maturi e da tale consapevolezza nascono tutte le tematiche bianciardiane, prima fra tutte l’insoddisfazione di chi si è posto obiettivi forse troppo alti, forse irraggiungibili, ma che tali obiettivi non ha mai rinnegato o abbassato, un’insoddisfazione che comunque lascia lucida e raziocinante la sua mente che si sforza di raccogliere, sintetizzare, estremizzare quello che ha prodotto e vuole consegnarlo alle nuove generazioni, perché da lì partano per far di più e meglio.
(a cura di Ettore Bianciardi)



Testi:


da Bianciardi L., Il lavoro culturale (1957)

Grosseto, 1953: si mette su un cineclub

Le proiezioni erano la domenica mattina, alle dieci, in un cinemetto di periferia, ed operatore era proprio quel Rosini elettricista tanto amico di Marcello, da Marcello convertito al culto del cinema. Prima della proiezione Marcello faceva un breve discorso, inquadrando il film nella sua epoca e nella corrente artistica a cui apparteneva. Dopo, era aperta la discussione. La sera prima si faceva stampare una scheda con tutte le indicazioni occorrenti, cioè il nome del regista, dello sceneggiatore, l'anno di produzione, il paese di origine, a volte anche gli interpreti; in più, un breve giudizio critico. Non di rado erano film muti, o parlati in una lingua straniera poco accessibile, lo svedese, per esempio, o il russo, ed in questo caso Marcello preparava un riassunto scritto della vicenda, in modo che lo spettatore potesse seguire a suo agio.
Tutto questo materiale scritto lo tiravamo a ciclostile. Non era facile tenere in piedi quella baracca; non è uno scherzo, mettere su e far funzionare un circolo del cinema. Il ciclostile, per esempio, dove si trova? Marcello in questo caso si giovò dell'aiuto di Bonora, il responsabile del lavoro culturale; Bonora lo mandò da Menghetti, il presidente della cooperativa. La cooperativa aveva un ciclostile e furono ben contenti di metterlo a nostra disposizione. Anche il carretto per ritirare la pellicola alla stazione ce lo dava la cooperativa. La camera del lavoro, dal canto suo, ci promise di far iscrivere duecento soci, fra i propri organizzati.
Altri duecento vennero incuriositi dall'idea del cinema al mattino e dal suono esotico della parola “cineclub”. Erano colleghi e alunni di Marcello, impiegati, signore, professionisti. Per tre settimane il cinema fu affollatissimo. Poi Bonora osservò che il circolo doveva darsi una struttura organica, tenere un'assemblea, nominare il consiglio direttivo ed il presidente, che sarebbe stato Marcello. Bisognava prepararla, questa assemblea, fare una riunione per concordare gli interventi, stendere la mozione conclusiva. Bisognava fare un programma dell'attività futura, e lanciare tutta una serie di iniziative, per popolarizzare al massimo il nostro cineclub.
Bonora andò a Roma, a prendere certi contatti, disse, e tornò con alcune proposte concrete. Ci mettemmo tutti a sedere intorno a un tavolo, Bonora tirò fuori dalla borsa un foglio di carta e disse che il nostro programma di massima doveva comprendere film sovietici, film di paesi a nuova democrazia, film americani democratici e film italiani neorealisti.
“Un circolo del cinema,” aggiunse un critico venuto apposta da Roma, “ha come scopo fondamentale la difesa del cinema italiano neorealista, ed in generale del cinema di denuncia. Nell'Unione Sovietica...” C'era stata grande attesa, in città, per la conferenza del noto critico cinematografico, annunziata persino con i manifesti. La sala era piena; il noto critico era un uomo alto e robusto, con i capelli cortissimi e gli occhiali montati in nero. Parlava a voce bassa, in tono dolce e suadente, ma Marcello rimase un po' male, perché non disse nulla del montaggio, dei carrelli e della sintesi audiovisiva. Poi gliene chiese, timidamente.
Gli chiese se a suo avviso c'era un possibile rapporto fra la teoria del cine?occhio di Dziga?Vertov e la poetica di Ladri di biciclette. Per esempio, la sequenza del furto, con quel procedere a succhiello, bicicletta – bambino – bicicletta – padre – stadio – bicicletta – padre – bambino ? bicicletta, non era, a suo avviso, già anticipata ?... Ma il noto critico lo interruppe, e gli disse che quella sua era una posizione ancora precritica, filologica se vogliamo, non ancora storicistica.
“A noi Ladri di biciclette interessa solo nella misura in cui riesce a porre in forma popolare un problema d'importanza nazionale. Nel caso specifico, il problema della disoccupazione.” Marcello lo stava a sentire.
“Caso mai,” continuò il noto critico, “possiamo cogliere i limiti, assai notevoli, di questo film. Per esempio: l'operaio disoccupato non è un lavoratore tipico nell'attuale società italiana. L’operaio Ricci attacca i manifesti, no? Quanti sono, in Italia, gli attacchini? E quanti i braccianti? Quanti i siderurgici? Non ho con me i dati esatti, ma la non tipicità dell'uomo di De Sica mi pare di per sé evidente, no?” Guardava in viso Marcello, duramente, come se la colpa fosse sua, anziché di De Sica.
“E’ poi non è inserito, non è inserito nelle lotte del lavoro dei nostri giorni. Compaiono forse nel film le grandi organizzazioni politiche e sindacali? Non solo, ma la soluzione dei suoi problemi è vista da De Sica in senso individualistico. L'operaio di De Sica è un uomo solo...”
“Ma io”, intervenne Marcello, pensavo appunto che questo fosse il nocciolo drammatico dell'opera del De Sica: la solitudine dell'uomo. Non siamo forse noi tutti degli uomini soli?...”
“Uomini soli?” lo interruppe il noto critico. “Guardi, vorrei citarle i versi di un giovane poeta romano, che lei, e tutti, dovrebbero leggere. Quando in te pare che il mondo si perda nel pianto delle cose e dici 'io soffro,' 'io sono solo col mio caso particolare,' allora sii gli altri, compagno. Oggi bisogna correre a Melissa e in Sicilia, dove a cavallo si muovono in colonne paesi. Ha inteso la lezione di questi versi?”
Ci fu una pausa di silenzio, poi il critico, all'improvviso, ricominciò: “Lei ricorda la breve scena in cui il disoccupato Ricci va a cercare un amico alla sezione, ed il segretario, che sta parlando del problema della piena occupazione, li zittisce, perché danno fastidio? Ebbene, in quella battuta che pretende all'ironia, io trovo palesemente tutta l'arretratezza della posizione ideologica di un De Sica. Non le pare? Comunque,” concluse con un sorriso che voleva essere conciliante. “un fatto positivo c'è. Nel nostro cinema è entrato un operaio, ed il problema della disoccupazione è stato posto. E’ un primo passo, no?”
Parlammo fino alle due di notte, ed il noto critico ci illustrò i film sovietici ed i film di paesi a nuova democrazia che aveva visto a Karlovy Vary, tutta roba che in Italia non sarebbe mai venuta, per via della censura. Bonora intervenne a dire che anche la lotta contro la censura, e contro il maccarthismo, doveva essere uno degli scopi dell'attività del nostro circolo. Prese nota dei titoli dei film sovietici premiati a Karlovy Vary, e dei film dei paesi a nuova democrazia, segnò anche nome e indirizzo della casa di distribuzione. Poi quando il critico ci strinse la mano sulla porta del suo albergo Bonora gli disse:
“A proposito, qual è il nome del poeta siciliano?”
“ Quale poeta siciliano?”
“ Quello che tu hai citato”
“ Ma non è siciliano”
“Ah no ?”
“E’ un giovane molto bravo. Ma non è siciliano. E’ nato in provincia, credo, ma vive a Roma. Ci si è trasferito dopo che lo segnalarono al festival di Chianciano. Ha un incarico alla commissione culturale”
(Bianciardi L., Il lavoro culturale, Milano, Feltrinelli 1997, pp. 52 – 57, I ed. 1957)


da Bianciardi L., L'integrazione (1960)

Milano, 1956, si lavora per una Casa Editrice popolare

Ora, se non ricordo male, fu proprio dopo la seconda visita al casino che io dissi a Marcello che era meglio prendere il treno e tornarcene a casa nostra. Lui che mi conosce capì a volo cosa avevo in mente e attaccò una delle sue solite prediche. Prima di tutto mi disse che ero un provinciale. Cosa mi credevo? Che la grande città fosse quel luogo di meraviglie e di godurie che credono certi, quelli che amano viaggiare? No, la grande città era proprio così, invece: un posto duro, cattivo, teso, assillato: tanta gente che corre, che si dibatte, che ti ignora, che deve arrivare.
“Arrivare dove?” chiesi.
“Chi lo sa? A pagare la tratta che scade, forse, a trovare i soldi per concedersi questo dubitabile vantaggio, provinciale anch'esso, di vivere nella grande città. Guardali in faccia: stirati, con gli occhi della febbre, dimentichi di tutto tranne che dei soldi che ci vogliono ogni giorno, e che servono soltanto quanto basta per stare in piedi, per lavorare, trottare ancora, e fare altri soldi. Un giro vizioso. E la tragedia sta proprio nel fatto che di questo loro non si avvedono, che si ritengono privilegiati. Ascoltali, provocali, e sentirai la sicumera di questa gente, solo perché abita nella grande città. Questi sono i ceti medi italiani, avviliti dal padrone, e insieme sollecitati a muoversi nella direzione che più fa comodo al padrone. Neanche i loro bisogni son genuini: pensa la pubblicità a fabbricarglieli, giorno per giorno. Tu vorrai il frigorifero, dice la pubblicità, tu la macchina nuova, tu addirittura una faccia nuova. E loro vogliono quel che il padrone impone, e credono che sia questa la vita moderna, la felicità. Sgobbano, corrono come allucinati dalla mattina alla sera, per comprarsi quello che credono di desiderare; in realtà quel che al padrone piace che si desideri.”
“Come in America,” feci io tanto per non starmene zitto, e non far la figura dei provinciale.
“Sì, ma un'America soltanto negativa, rovesciata nel cannocchiale. In America il fenomeno lo ritrovi eccome, moltiplicato per mille, ma lì almeno alla tensione, alla fatica, corrispondono certi vantaggi veri, se non altro quello di sentirsi parte di una enorme potenza. La civiltà americana moderna è come una grande macchina a gettone, tragica, che ti inghiotte, ma almeno qualcosa ne esce fuori. Qui invece tu non hai l'America, ma l'americanismo semmai, una copia cioè che riprende del modello solo gli aspetti negativi, senza darti nulla in cambio. Qui non c'è nemmeno tragedia, mi capisci?”
Io capivo benissimo e gli ripetei che la cosa migliore era tornarsene a casa nostra, dove non ci sono gettoni, né tragedie, e neppure bisogni inventati dagli altri. Ripensavo alle vacanze a Prata, con la merenda di prosciutto e cipollini tenuti al fresco nell'acqua della Fonte Vecchia, più fresca di qualsiasi frigorifero. Ripensavo alle passeggiate col Betti, con il Rosini elettricista, col sindaco, con Aldo, con Carlo. E Marcello mi ribatté che il mio era un atteggiamento da provinciale, poi accortosi che mi stavo arrabbiando sul serio, mi fece:
“Vedi, da noi è fin troppo facile, fin troppo comodo. Il Betti, il Rosini, Aldo, Carlo, il sindaco rappresentano, per te e per me, una fetta d'Italia che sta scomparendo. E sai perché sta scomparendo? Perché è troppo soddisfatta della sua composta perfezione, e non riesce a trovare alcun aggancio con quest'altra Italia, balorda quanto vuoi, ma reale e crescente. Non trova un aggancio con questa, e non lo trova nemmeno con l'altra Italia, quella di sotto, quella che fa la fame, che campa con centomila lire annue per famiglia, che non sa né leggere né scrivere. Fra queste due Italie per diverso motivo depresse, come suol dirsi oggi, la nostra Italia di mezzo non riesce a trovare la mediazione. Star lì è comodo quanto vuoi, ma non serve a nulla. Io credo che noi due siamo venuti quassù proprio per questo, per tentare la mediazione. Se tu ci sei venuto con l'idea di sistemarti nel ventre di vacca della cosiddetta grande città, ti sbagli di grosso e ti ripeto che sei un provinciale. Quassù noi siamo venuti allo stesso modo che se si fosse preso il treno per Matera. In una zona depressa siamo venuti, credilo pure, e ben più difficile che la Lucania: perché là la depressione salta subito agli occhi, mentre qui si maschera da progresso, da modernità. Invece è depressione: guardali in faccia e te ne accorgi. Sta a noi batterci per il sollevamento, per il risorgimento, diciamolo pure, di questa Italia, anche di questa Italia.”
“E in che modo?” gli chiesi.
“Dalle nostre parti avevamo cominciato una battaglia, te lo ricordi? Ci eravamo messi a fianco di gente come il Betti e il Rosini, proprio per lottare meglio, e qualcosa abbiamo fatto, riconosciamolo pure. Ora l'impresa è cento volte più difficile, ma gli uomini ci sono.”
“Come fai a dire che ci sono? Qui gli uomini trottano, corrono a pagare le cambiali, a cercare soldi. Lo hai detto tu.”
“Questi sì. Ma ci saranno pure altri uomini, come il Betti e come il Rosini. Bisogna cercarli, mettersi in contatto con loro. Diciamo pure, con la classe operaia. Poi ci sono i giovani come Pozzi, come Ardizzone, come Altoviti. E i mezzi, lo sai, non mancano.”
“Vuoi dire della grossa iniziativa?”
“Precisamente.

E le stesse cose, ma dette meglio, Marcello le esponeva durante le riunioni che ci portavano via diverse ore del mattino, pressappoco dalle dieci e mezzo fin dopo l'una. Faceva un gran caldo, quel mese di luglio, con l'afa industriale, puzzolente di nafta, gomma e catrame caldo che gravava sulla città. Ci riunivamo in una stanza attuffata, con certi tendoni di tela verde che prendevano il sole e ce lo risputavano addosso fino a sera, quando un po' di fresco fuori cominciava a farsi sentire. A capo della tavola sedeva Altoviti, dalle parti noi due, Pozzi e Ardizzone e in più una delle ragazze, quasi sempre la Marisa, che prendeva appunti per il verbale.
Diceva Marcello che una vera storia d'Italia bisognava ancora scriverla. Avremmo dovuto, nel quadro della grande iniziativa, provocare una vastissima serie di inchieste approfondite, ciascuna su di un aspetto della realtà italiana. “Cosa ne sappiamo noi della Fiat, per esempio? Cosa ne sappiamo di quel che succede nella campagna dell'Appennino? Dicono che si va spopolando, che i contadini l'abbandonano. Perché? E ancora: quanti sono i preti in Italia, oggi? Quanto comandano? C'è differenza fra un prete e un vescovo, e poi tra un vescovo e un cardinale? Quale differenza? E le donne? Cosa pensano le donne? In che misura e in che modo son cambiate, negli ultimi cento anni, negli ultimi cinquant'anni, quello che volete? In che misura sono le donne ad assorbire l'ideologia che fa comodo al padrone? Quella spicciola, voglio dire, la tematica del paio di calze, della permanente, del rossetto, del profumo, tutto ciò che si acquista per piacere a lui. Perché dietro a queste che paiono cianfrusaglie esteriori c'è un'ideologia, e voi sapete quale. Un'ideologia diventa operante proprio così; serve a poco finché rimane libro, articolo, parola scritta.”
Insomma Marcello avrebbe voluto che la grossa iniziativa servisse in primo luogo a scavare pezzo per pezzo il territorio dei paese: una specie di moderna campagna archeologica, vastissima. Ed a questo lavoro chiamare gente giovane, moderna, sveglia e appassionata, magari sconosciuta e ingenua: guidarla, consigliarla, correggerla, sollecitarla, seguirla passo per passo.
Edit by Giorgio Tsiotas “Gli eruditi locali, gli storici del proprio municipio, gli entusiasti delle antichità del loro paesello non sono mai mancati, vero? Tanti innocui animaletti, certo, perché agivano su di un filo di pensiero sbagliato, o quanto meno arretrato. Ma non mancavano certo entusiasmo, modestia, in parecchi casi autentico valore. Ebbene, scoviamo ? e non sarà difficile ? gli innocui animaletti della nuova generazione, diamo loro l'idea di un lavoro moderno, scientifico, impegnato, e vedrete quanto saranno utili alla nostra causa, e dannosi a chi sappiamo noi, questi animaletti, tutt'altro che innocui.
“In tal modo noi avremo ottenuto due cose, due cose grosse: da un lato l'aratura ? se mi permettete di dir così ? della realtà italiana, dall'altro la scoperta di energie nuove, fresche, innumerevoli e distribuite nella vasta provincia nostrana. Una ricchezza insomma, che un giorno o l'altro non mancherà di dare i suoi frutti abbondanti.»
“Se ho ben capito,” concluse Altoviti, “tu proponi una serie di studi, come dire? sociologici no? sull'Italia contemporanea. Possiamo dire così?”
“Diciamolo pure,” rispose Marcello, e Altoviti prese un appunto e domandò il parere degli altri.
“Molto interessante,” fece Pozzi, “merita attenzione e serio ripensamento.”
Concludemmo che su quella proposta bisognava riflettere, ci saremmo tornati sopra più tardi, con maggiore ponderazione. Poi prese la parola Ardizzone e cominciò a parlarci di Saltikov?Scedrin, degli ibero?americani, dei cinesi e di tante altre cose che ora neppure mi ricordo.

(Bianciardi L., L’integrazione, Milano, Bompiani, 1993, pp. 28-35, I ed. 1960)


da Bianciardi L., La vita agra (1962)

Milano 1962, la città vive il boom economico

Ogni giorno io trascorrevo in tram almeno un'ora e mezzo. Bene, chi non sa può forse credere che, viaggiando su quel mezzo pubblico quarantacinque ore ogni mese, in capo all'anno uno debba avere fatto centinaia di conoscenze, decine di amicizie.
Per esempio, quelli che per ragioni di lavoro prendono ogni giorno l'accelerato fra Follonica e il paese mio, li vedrete salutare dal finestrino casellanti e capistazione, preoccuparsi se a Giuncarico non sale, come ogni mattina, il Marraccini, e poi domandare perché e come sta, ai conoscenti. Il conduttore nemmeno chiede più il biglietto, caso mai si ferma un momento, ti si siede accanto, accetta una sigaretta, s'informa se andrai anche tu a ballare a Braccagni, il sabato. Molti si sono sistemati così, incontrando sull'accelerato la futura sposa, per esempio mio zio Walter, che lavora nelle ferrovie, e che potendo si risposerebbe anche, perché di belle ragazze in treno se ne incontrano parecchie, e non è difficile attaccare.
Qui no. Ogni mattina la gita in tram è un viaggio in compagnia di estranei che non si parlano, anzi di nemici che si odiano. C'è anche un cartello che vieta le discussioni col personale, e minaccia l'articolo 344 del codice, contro l'ingiuria nei suoi confronti. Così la gente subisce spaurita e silenziosa i rabbuffi gutturali del bigliettaio, che sollecita continuo e insistente di andare avanti, come facevano un tempo le zie dei casini, e dosa parsimoniosamente l'apertura delle porte automatiche, e ci richiama quando necessario al regolamento. “Siamo passibili di sanzioni disciplinari” precisa.
Il conducente siede cupo e serio, pronto col piede sul campanello, quando sulla strada si pari un veicolo o un pedone. Il bigliettaio sta dietro, sollecito ai rabbuffi dei viaggiatori e al dosaggio della porta automatica. La gente li rispetta e li teme e li odia, e dei resto odia tutto il suo prossimo.
E’ difficile riconoscere una faccia, anche se fai tutti i giorni, per anni, la solita linea. Questo anche perché si somigliano tutti, i passeggeri del tram. Ci sono tre tipi fondamentali di faccia: la faccia del ragioniere in camicia bianca, con gli occhi stanchi di sonno già alle otto del mattino, talvolta i baffetti, sempre due solchi profondi che partono da sotto le occhiaie bluastre e arrivano agli angoli della bocca; poi c'è la faccia disfatta della casalinga, che va al mercato lontano perché si risparmia un po' di dané, e nonostante l'ingombro della sporta piena è sempre la prima a salire; infine c'è la dattilografetta con le gambette secche, che ha una faccia smunta, stirata, alacre, color della terra, color del verme peloso che striscia sulle foglie dei platani.
Non si vede altro. Certe magnifiche ragazze le incontri soltanto dopo le cinque del pomeriggio, a piedi nelle vie del centro: hanno le gambe lunghe e tornite, un incarnato di porcellana, il sedere alto e tondo, superbo. Ti chiedi come facciano a ritornare a casa, perché sul tram non le incontri mai. Ma forse hanno qualcuno che le riaccompagna in macchina, e così fanno una vita sempre divergente dalla tua.
Incontrerai queste dattilografette, invece, che sono la vera spina dorsale dell'import?export, del commercio, delle attività terziarie e quartarie. Secche di gambe, piatte di sedere, sfornite di petto, picchiettano dalla mattina alla sera, coi tacchi a spillo, sugli impiantiti lucidati a cera, e poi su un pezzetto di marciapiede, fino alla fermata del tram.
Ora, i tacchi a spillo sono stati inventati per spostare il baricentro della figura femminile dandole così un portamento sessuato e cattivante. Allo stesso scopo in Cina scorciavano un tempo i piedi alle bambine; così da grandi avrebbero avuto il baricentro spostato, e l'andatura di cui si diceva sopra. Tutto questo vale purché l'incesso della donna sia lento e armonico. Se invece la donna vuole essere, oltre che sessuata, efficiente, e sui tacchi a spillo ci va di premura, di prescia, di fretta insomma, allora lo spostamento del baricentro provoca una scossa sgraziata che si scarica sulle gote e le fa sconciamente vibrare.
Le vedevo ogni mattina, queste vibratrici di gote, immobili alla fermata del tram, terree tra la folla dei ragionieri in camicia bianca e delle massaie con la sporta. Scattavano tutte insieme all'arrivo della vettura, e mai una volta mi è riuscito di non salire per ultimo.