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La masseria delle allodole - Antonia Arslan



lunedì 19 febbraio 2007 leggono Roberta Graziani e Cesare Bassoli
Il primo genocidio del ventesimo secolo fu quello degli armeni, nel maggio 1915: i maschi - uomini e bambini- furono trucidati dai Turchi, le donne violentate e deportate. Eppure queste donne coraggiosissime sopravvissero. Antonia Arslan è vissuta in Italia perché il nonno riuscì ad emigrare: il contatto con le sue radici lo ritrova proprio scrivendo questo romanzo.
L’Armenia è un paese antichissimo, isolato, eppure crocevia tra Occidente ed Oriente, un territorio aspro, con confini sempre ritagliati, modificati a tavolino dalle alterne “forze al potere” nello scenario caucasico. Il suo popolo è perennemente in cammino. Attraverso la storia di una famiglia armena, due viaggiatori ci leggono (e ci mostrano) questa terra e questo popolo. 


Da: Antonia Arslan, La masseria Delle Allodole, B.u.r. 2004

Dal Prologo
Prendemmo la strada sotto i portici per andare al Santo…(Antonio il portoghese, detto Antonio di Padova, il santo col fiore di giglio in mano) Il nonno Yerwant, il patriarca a cui nessuno disobbediva, aveva detto: “ E’ ora che la bambina conosca il suo santo. E’ già quasi troppo tardi, ha cinque anni…(…) Non sta bene far aspettare i santi. E dovete portarcela a piedi”. Lui ci avrebbe raggiunto con la sua automobile Lancia, e con Antonio, l’autista…

(…) Così, percorsi con la zia le due lunghe strade porticate che conducono alla basilica, con la zia Henriette, piccola, piccola, dal gran naso armeno e dai lucidi capelli neri a caschetto, che aveva molti segreti e se li teneva stretti, non portava mai tacchi bassi e non permetteva che aprissi la sua borsetta…

(…) Zia Henriette era una sopravvissuta al genocidio del 1915. Creatura della diaspora, non aveva più una lingua madre. Parlava molte lingue, compresa la sua, l’armeno, in modo legnoso, innaturale: come una straniera. In tutte faceva patetici sbagli, e non volle mai raccontare la storia della sua sopravvivenza…

(…) Allora il nonno mi prese una mano fra le sue e disse: “Questa chiesa è come una nave, ed è il tuo Santo che la guida. Questa chiesa è un porto, ed è il tuo Santo che ci accoglie qui dentro…
…Il nonno morì alcuni mesi dopo.

Dalla PARTE PRIMA
Lo zio Sempad

Zio Sempad è solo una leggenda, per noi: ma una leggenda su cui abbiamo tutti pianto. Era l’unico fratello uterino del nonno, il minore; la loro madre, Iskuhi la principessina, morì diciannovenne dandolo alla luce.
Il bisnonno poi si risposò con una “matrigna cattiva”, che gli diede molti altri figli; nonno Yerwant non la sopportava, così a tredici anni chiese ed ottenne di andarsene dalla piccola città a Venezia, a studiare al Moorat-Raphael, il collegio per ragazzi armeni.
Ma zio Sempad era molto più dolce, accomodante e tranquillo del fratello, e amava la sua tranquilla città, la sua provincia neghittosa e sonnolenta, le chiacchiere al caffé con gli amici, la partita accanita al tric-trac, la caccia. Studiò da farmacista a Costantinopoli, ma pensando di ritornare a casa. All’università lesse i giornali, si iscrisse ad un partito, sognò anche lui la rinascita dell’antica patria armena, si sfogò un poco, si illuse. Trovò un compromesso con la matrigna, si divertiva a coccolare i fratellini, a tirare le trecce alle sorelle, pensava a sposarsi.
Ogni tanto partiva a cavallo, con un amico del paese dei Lazi. Insieme si sentivano crociati e cavalieri, pensavano di guerreggiare incontro al sole, come Alessandro, liberi uomini con la spada al fianco.
Niente più le estenuanti trattative per ogni permesso, la burocrazia imperiale, l’ossequio necessariamente servile dell’armeno, del mercante, che chiede a chi può negare, e non ha armi che non siano le astuzie del suddito. E però: cavalcare verso Oriente, la conquista; ma essere uomini dell’Occidente, il dominio. Parlare francese, abbonarsi alla “Revue de deux mondes”, visitare Parigi…
Spesso parlavano di Parigi, o dell’Italia, paese amico, dove il fratello Yerwant stava facendo fortuna. Ma Sempad non aveva voglia, nonostante le promesse, di andarlo a trovare: era timido ed orientale. Tornasse il fratello, portasse la moglie franca* con sé ed i figli Yetwart e Khayël, a farsi riconoscere dalla grande famiglia. Con onore se n’era andato, con onore sarebbe stato accolto. Ma Sempad nel fondo del suo semplice cuore temeva che questo non sarebbe mai avvenuto: Yerwant era andato via per sempre, ed i suoi figli – nonostante i loro nomi – non conoscevano la lingua dei padri e venivano educati in collegi tedeschi o italiani. L’Anatolia era per loro una favola lontana.
Forse – pensava Sempad – un mio figliolo potrà recarsi da lui, e forse un po’ alla volta potremo andar via tutti, e non avremo più paura. Ma non lo voleva veramente. Molti partivano, è vero. Dalle zone più a rischio, i giovani più audaci, gli intelligenti, gli avventurosi, quelli che esplodevano negli stretti confini permessi alla ermenì millet all’interno dell’Impero, come un rivolo continuo, incessantemente partivano.
Verso l’Europa, verso la cultura sognata: a fare i medici, i dentisti, gli architetti, i poeti – o verso l’America, per essere del tutto nuovi, per dimenticare. A Boston viveva un fratellastro, Rupen, ed era abbastanza contento. Ma Sempad, nel suo semplice cuore, conosceva la sua solitudine, e gli mandò una scatola di tric-trac molto bella, di legno inciso, con tutto intorno un’iscrizione di caratteri armeni solidamente affettuosa, uguale a quella che aveva in casa. Mai avrebbe immaginato che quella scatola – relitto o icona di un atroce naufragio – sarebbe stata per due dei suoi figli l’unico segno della viva esistenza del padre, insieme ad una solenne fotografia cerimoniale.
Sempad amava la sua farmacia. Era un uomo un po’ lento, poco spiritoso, buonissimo. Da ragazzo proteggeva le sorelle minori, Veron e Azniv, dai dispetti dei tumultuosi fratelli, Rupen e Zareh; amava anche moltissimo mandare telegrammi.
“Il farmacista” usava dire “dovrebbe essere attrezzato per inviare e ricevere telegrammi. Potrebbe esserci un’urgenza”.
Tutti ridevano di Sempad, in famiglia ed alla farmacia per il voluttuoso rotolio che riceveva nella sua bocca la parola “urgenza”. Come tintinnava nella sua bocca questo occidentalissimo sintomo di progresso, simbolo del fare in fretta, dello scuotersi di dosso l’indolenza occidentale.
“La gente” usava dire “non aspetta mica che finiamo la partita per morire. Noi intellettuali armeni dobbiamo dare l’esempio di precisione, aggiornamento, puntualità: agli armeni semplici, e ai turchi semplici. Se no, perché abbiamo studiato?”
Ma lui stesso non studiava più niente; rispettava le feste e si lisciava i baffi – contando i suoi sette figli. Sfogliava appena il giornale con le notizie di Costantinopoli, fiero però che lassù gli armeni cominciassero a essere rispettati, perfino deputati erano, e Krikor Zohrab, poeta e deputato, giocava ogni settimana a tavlì con il potentissimo Ministro degli Interni, Talaat Pascià.
Il tavlì di Zohrab! La sua familiarità con Talaar era divenuta, per il mite e fantasticante popolo armeno, arra di buona fortuna e simbolo della nuova era di prosperità e di progresso che stava per aprirsi con la collaborazione politica fra Giovani Turchi e millet armena.
Simbolo potente, che disarmava: “Va in casa sua, è ricevuto come uno di famiglia, bevono il tè insieme”:
Sempad, e tutti gli altri come lui, non potevano letteralmente concepire che si potesse ingannare – e uccidere poi – uno con cui prendi il tè in casa tua: un ospite!
L’uso del mondo di Sempad – e degli altri come lui – non si estendeva alla doppiezza, né all’inganno; si basava piuttosto sull’applicazione di un accurato cerimoniale mercantile di guadagni, profitti e perdite, calcolati con larghezza e con il rispetto dovuto ai poveri della comunità. E in più il farmacista aveva un codice morale da rispettare. Era quasi un medico, quasi un letterato; il custode della salute, il custode dei veleni, il recapito dei giornali, l’uomo dei telegrammi: una colonna della comunità.
Tutti sapevano che Shushanig, la moglie feconda e chiassosa, che proclamava di non occuparsi delle faccende del marito, dominava lietamente Sempad fino all’ultimo pelo della sua barba, come dice il proverbio…
(…)Il maggiore (dei figli,) il taciturno Suren, sognava l’Europa, e stava per partire, ma adorava il suo semplice padre, e non avrebbe voluto lasciarlo. Questo desiderio sarà perversamente rispettato dal suo destino.
Suren leggeva molto, e molto rifletteva; sentiva odore di sangue nell’aria, fiutava il male nell’aria: ma chi crede ad un ragazzo di quattordici anni, che parla poco e malvolentieri, e di notte piange solo, sognando un grembo di donna, un materno rifugio dove scomparire e ritirarsi?
(…) Poi gli altri figli : Arussiag, Henriette, Nubar, due femmine ed un maschietto-vestito-da-donna, i torpidi sopravvissuti, coloro che verranno ad occidente, gli scampati di Aleppo… Questi bambini che mi guardano da una fotografia scattata ad Aleppo un anno dopo, nel 1916, subito prima di imbarcarsi per l’Italia: e sono gravi occhi infantili misteriosamente ravvolti in sé stessi, opachi e glaciali, che hanno accettato, dopo troppi perché senza risposta – la cieca selezione che li ha lasciati sopravvivere. Portano decorosi abitini da orfani, ma sembrano vestiti di stracci regolamentari di uniforme, e l’occhio ci vede le righe dei forzati. Gli scuri occhi orientali, con le sopracciglia foltissime che disegnano un tratto unico sulla fronte, ripetono per quattro volte, inesprimibilmente la paura di un futuro che sarà inesorabile, ed il nucleo nascosto di una colpa segreta.

(…) E’ scoppiata la guerra in Europa. L’angoscia balcanica colpisce di nuovo. L’Impero si allinea con le Potenze centrali, Germania e Austria-Ungheria. Si spera questa volta di aver indovinato: ma non è mai un bene agire sulla scia di vecchi rancori, di un sentimento di umiliazione nazionale così forte da diventare una bandiera. Molti vanno a consultarsi dal missionario americano, quello che ha aperto il collegio protestante con molto successo. Piace questo modo nuovo di interpretare l’antica fede, senza l’eccesso di sentimento e di emotività delle lunghe funzioni tradizionali, consolanti, ma dove non cambia mai niente….
(…) E’ scoppiata dunque la guerra in Europa. Agosto 1914. Il vecchio Hamparzum sta per morire. Ha visto tutto, ha amato tutto, ha lavorato tanto ed ha pensato con larghezza alla sua famiglia ed alla Chiesa

(…) Nel suo semplice cuore Sempad, ora capo della famiglia, pensa con gioia che finalmente Yerwant non potrà più rifiutarsi di tornare. Per una visita, s’intende, la prossima estate: e la Masseria delle Allodole sarà pronta a riceverlo.
(…) Yerwant, che dialoga solo con sé stesso, e di se stesso soltanto si fida, riflette da parte sua su questo viaggio. Prova un nuovo piacere a pensarci. (…) Alla metà di ottobre, Yerwant finalmente decide. Ordina una Isotta Fraschini rossa (…) … per la grande visita familiare, Yerwant si reimmerge nell’elaborata cortesia orientale, fare sfoggio e fare troppo sarebbe mortalmente offensivo. Con il 1915 Yerwant entra nel cinquantesimo anno, ed è soddisfatto – e solo. Sornioni, casuali, i ricordi compaiono, si affollano nella mente, mai troppo urgenti, fluidi, fra una visita e l’altra, fra un’operazione e l’altra. “ormai sono cittadino italiano, nell’Impero nessuno mi può toccare” pensa, “perché non comprarmi una casa, vicino alla Masseria, vicino alle cascate”?

(…) Cos’ avvenne che il carteggio fra i due fratelli si fece molto fitto, fra l’ottobre del 1914 ed il marzo del 1915, e così avvenne che entrambi, come immersi in un gorgo struggente di reciproco riconoscimento, lasciassero in quel periodo parlare troppo la memoria del cuore, e troppo poco l’intelligenza della mente e dei tempi.

(…) Colloqui riservati sono in corso a Costantinopoli fra Talaat, Enver, il capo della polizia, un gruppo ristretto di fedelissimi del partito ed i responsabili dell’Organizzazione speciale. Non tutti i membri del Comitato Unione e Progresso sono al corrente del progetto, e comunque sono invitati solo i più determinati, fra cui un paio di alti burocrati. C’è anche il colonnello Hauptmann delle forze alleate tedesche.

(…) Il disarmo dei soldati e la messa a disposizione degli ufficiali armeni dell’esercito sono stati completati. I soldati sono stati eliminati, gli ufficiali si è curato che non avessero sospetto.
(…) Il passaporto interno il teskerè è già stato ritirato a molti, ma si deve procedere con una certa precauzione dice Selim Effendì, laureato alla Sorbona e capogabinetto del Ministero degli Interni.
(…) “Oggi”, è Talaat che parla, “oggi è il giorno qui, nella Capitale. Le feste di Pasqua li hanno snervati e distratti. Stasera li preleverete nelle loro case, negli ospedali, nelle redazioni dei giornali. Distruggete le macchine da stampa, devastate le redazioni delle riviste e delle case editrici. Ogni impiegato non armeno deve essere minacciato severamente e mandato a casa. Se sapranno tacere avranno un premio dal governo.
“Non usate le prigioni, ma le caserme. Non permettete contatti, sequestrate i libri, soprattutto non rispondete, mai, a nessuna domanda.
“Portate via solo gli uomini. Non toccate le donne.”
Enver, che ha continuato ad assentire gravemente, a questa frase rialza la testa sorpreso. “c’è tempo, per loro” sorride finemente Talaat. “Ci sono tutte le donne delle Sette Province. Con quelle di Costantinopoli, queste giaurre libertine che frequentano le ambasciate e scrivono perfino sui giornali, bisogna avere per il momento la mano leggera. I loro uomini vengono imprigionati per cospirazione contro lo stato, non perché sono armeni”.
“ E Zohrab, cosa ne facciamo? Chiede ancora Enver, con un filo di ironia per il celebre amico armeno di Talaat.
“Oggi appunto lo vedrò alle quattro: è il nostro giorno del tavlì. E’ sempre precisissimo, un vero signore, e una testa fine di politico e di poeta. Lui va ignorato. Non dovete toccarlo: ma se mi cerca assicurategli che mi porterete i messaggi, lasciateglieli scrivere. E poi gettate le lettere, e fate in modo che lui se ne accorga.”
E’ Enver che sorride a questo punto, ammirato. Non aveva pensato in termini così raffinati..

(…) Costantinopoli, sera del 24 aprile 1915. la grande retata ha inizio. Davanti ai suoi bambini ed alla moglie incinta, Daniel Varujan, il poeta, mostra coraggio, sorride: “E’ una misura di sicurezza. C’è la guerra. Siamo al centro dell’attenzione internazionale, non possono più ripetere gli orrori degli anni del Sultano Rosso”(ma un’ala nera gli disturba la vista, all’angolo dell’occhio, e un brivido fondo lo scuote).

(…).Qualcosa bolle in pentola riguardo agli armeni. Da un giorno all’altro, i loro portavoce, i membri più autorevoli della comunità di Costantinopoli, medici, professori, giornalisti, risultano tutti scomparsi; i giornali tacciono, i deputati armeni non si vedono più in giro. Il patriarca è invisibile, e molti diplomatici si stanno informando con cautela….
Nella villa di Dolo (in Italia) i figli di Yerwant, (…)… con tutti i pori sentono che l’Italia sta per entrare in guerra; e assistono quasi con pietà al progressivo immergersi del padre in un ritorno alle origini, a un passato oscuro di cui si vergognano un poco, a quel parlare senza articoli che lo rende subito straniero, anche ad orecchie inesperte e benevole. Ce la farà Yerwant a partire prima che le frontiere con l’Austria-Ungheria si chiudano? Ma come può pensare di farcela? Si chiedono i due ragazzi stizziti, perché anche a loro toccano delle sedute di preparazione. E come può pensare di trascinare in quei posti da leoni nostra madre, così delicata e sensibile? E’ il pomeriggio di domenica 23 maggio al Dolo. I titoli dei giornali non lasciano dubbi.

Il 24 maggio (…)l’Italia entra in guerra, a fianco di Francia, Inghilterra e Russia denunciando il trattato della triplice Alleanza. D’Annunzio e Mussolini battono le piazze, rullano i tamburi nell’immaginazione eccitata del paese, convinto che pochi mesi basteranno (per l’eterna illusione della “guerra facile…) per riportare la nazione ai suoi confini naturali….
(…)Yerwant e la famiglia sono sui due fronti opposti; la visita è annullata, il paese perduto arretra e ritorna nella sua cornice lontana.
“Oh Sempad, fratello” singhiozza Yerwant, “mandami almeno i tuoi figli”. Così passa tutta la notte. Non parlerà mai più del suo viaggio.

(…) Il 24 maggio l’Italia entra in guerra, fra uno sventolio di bandiere e di inni patriottici. Il giorno prima, Yerwant ha mandato al fratello un telegramma di disperata impotenza. Ma Sempad, l’uomo dei telegrammi, non lo riceverà mai; perché è proprio nella notte del 24 maggio che il kaymakam ha ricevuto finalmente il suo telegramma, quello ufficiale. Tutti i membri del partito sono già allertati, nella piccola città. Gli alleati tedeschi hanno raccomandato silenzio fino al momento decisivo, ordine, organizzazione. Di casa in casa si è tessuta una rete precisa. Tutti i nodi sono a posto, i capi delle tribù curde sono stati avvertiti, ma con l’ordine tassativo di non farsi vedere per il momento in città, se vogliono poi avere il promesso diritto di saccheggio, e la scelta delle ragazze.
(…)Appare sulla porta, concitato Krikor il medico….corre da Sempad… sussurra : “Ci arrestano tutti, corriamo!”. “Dove, come? E poi perché? Farmacista e medico servono sempre”. Risponde giudiziosamente Sempad.
(…) “C’è l’ordine del kaymakan a tutti i capifamiglia armeni di recarsi alla prefettura oggi alle tre”. Il banditore sta girando per le strade. “Partiamo per la Masseria e stiamo lì fino a domani. Se non abbiamo saputo nulla non siamo colpevoli di niente, e intanto Azniv e Veron(le sorelle di Sempad) possono informarsi un po’ in giro” sussurra Krikor a Sempad…
(…) Partiti i due uomini, la famiglia resta seduta, come se avesse paura di muoversi. Shusaning termina di mangiare in silenzio…Ora deve agire da sola. La responsabilità della famiglia … cade sulle sue spalle …
Raggiunge il cofanetto con il patrimonio personale di oro e gioielli… divide in due sacchetti il tesoro e ne affida la parte più consistente alla fida Ismene.

(…) ..Andiamo tutti alla Masseria decide Shushanig “là nessuno oserà mettere piede…
(…) Il drappello dei cavalieri si arresta dinanzi alla Masseria.
Come avviene una strage? Quale liquore diventa il sangue? Come sale alla testa? Come si diventa assetati di sangue? Chi lo gusta, si dice, non lo dimentica. In pochi istanti, il gruppo si è trasformato in una banda da preda e con felina scioltezza si è avvicinato a tutte le porte… la casa si offre all’ospite, senza difese, innocente come Sempad, il suo padrone..
Ismail l’ufficiale ordina:
“Voi traditori, cani rinnegati. Avete disubbidito all’ordine del Kaymakam, ma io vi ho trovato, ed ora sarete puniti”.
Prendete tutti i maschi e portateli nell’altra stanza….
(…) E così si compì il destino di Sempad e dei suoi.
Lame balenarono urla si alzarono, sangue scoppiò dappertutto, un fiore rosso sulla gonna di Shushaning….

La villa è diventata una trappola mortale…


Dalla PARTE SECONDA
Shushanig


… Appena fuori dalla Masseria, le carrozze vengono circondate dalle donne di Ismene, (le donne delle lamentazioni) che non sanno bene cosa fare, se non esercitare il loro mestiere: la compassione nel lutto.
(…) L’aura nera che avvolge le donne di Sempad non le spaventa ancora: offrono grida, lamenti, spalle su cui piangere. Cenciose, sempre evitate da tutti, le vecchie dei cimiteri si schierano un po’ a distanza, in un cerchio irregolare, in riguardoso silenzio. Il loro momento verrà, e così pensano, i doverosi banchetti funerari, il momento di riempirsi per bene la pancia. E’ l’orizzonte limitato del povero.
(…) Tutti guardano Shushanig, ma Shushanig non vede nessuno: piange come Niobe, immobile, senza muovere il viso, ghiacciata, inarrestabile. Allora Azniz che si scuote, Azniz maturata in un’ora, che conta febbrilmente i superstiti, che qualcuno non sia rimasto dentro la villa e scopre dietro Henriette singhiozzante, orrendamente impiastrata di sangue, il visetto attonito di Nubar-vestito-da-donna, con il suo abitino di seta frusciante, la bambina graziosa che è l’unico maschio sopravvissuto. Anzi giura a sé stessa che lui lo farà sopravvivere; ci riuscirà, con quell’energia che scopre vibrare dentro di sé, e tendersi inflessibile, indomabile…

(…) Nel quartiere sussurri e sussurri. Gli uomini non sono ancora tornati; qualcuna delle vecchie ha detto che sono stati visti, in colonna, e accompagnati da soldati con le baionette inastate, davanti alla porta del Magazzino del Sale, un vecchio edificio vuoto da tanti anni. L’arrivo delle carrozze non desta particolare curiosità, ma subito qualcuno arriva a cercare Shushanig, per consigliarsi e viene informato. La rete di sussurri e di orrore si infittisce, e scuote tutto il quartiere: ma nessuno sa bene cosa fare.
(…) Senza i loro uomini, con il peso dei vecchi e dei bambini, le donne inclinano al panico. Ma sono pronte a cedere a qualsiasi voce rassicurante, e soprattutto a non cedere alla disperata verità – se pure gli venisse in mente.
(…) E’ per questo che il piano procede senza intoppi, senza vere ribellioni da parte di questo popolo così docilmente sciocco. A tarda sera appaiono le solite guardie, in compagnia di un banditore che proclama che le famiglie armene hanno trentasei ore per lasciare la città ed i loro beni, con tutti i membri delle loro famiglie, senza eccezione. “Il governo vi sposta per proteggervi meglio; le vostre case, i vostri negozi saranno affidati all’esercito”
“E gli uomini? Dove sono gli uomini? Grida un gruppo di donne affannate (e già si pentono del tono minaccioso). “Buone, buone, vi raggiungeranno fuori città, perché se foste insieme, furbi come siete, voi armeni, potreste tentare di imbrogliarci, di nascondere i vostri soldi invece di affidarli al padre di noi tutti, il kaymakam.
Questo è infatti precisamente quello che ogni famiglia si mette a fare. I soldi possono essere la salvezza, sono sempre la salvezza. In ogni casa, in ogni cucina, dalle scatole di latta, dai vecchi portafogli, da tasche segrete escono biglietti di banca, monete d’oro e d’argento…talleri di Maria Teresa e sterline di Vittoria Regina (…) … escono pietre preziose di tutti i colori, sassolini luminosi che riscaldano, illuminano un po’ le affaticate mani femminili che le maneggiano….
(…) La notte è passata, e degli uomini non c’è traccia. Nessuna famiglia li rivedrà più. Molti anni dopo, finita la passione degli armeni e la guerra mondiale, nella Turchia disfatta dalla sconfitta sarà scoperto il loro destino: fatti di uscire di notte dal magazzino del Sale, vennero uccisi l’uno sull’altro nella valle delle Cascate, dove cadaveri insepolti rimasero a fissare il cielo…., nudi e privati di tutto, anche della maestà della morte.

(….) .E’ ..il potentissimo ministro della Guerra Enver Pascià, il principale organizzatore dei rastrellamenti e delle deportazioni degli armeni, che sono in corso in tutta l’Anatolia orientale con un calendario strettissimo, controllato giorno per giorno dagli ittihadisti più zelanti della temibile Organizzazione speciale, messa in piedi proprio a questo scopo.
(…) I gendarmi (…) hanno ordini precisi. L’operazione deve essere condotta in modo molto moderno, con precisione chirurgica…La partenza deve svolgersi con fredda regolarità, nessuno deve ricordarsi delle scomposte cacce all’uomo dei tempi del Sultano, quando i cadaveri degli armeni morti venivano accatastati trionfalmente per le strade di Erzerum o di Costantinopoli. E qualcuno si è fatto immortalare dai reporter occidentali in piedi sul mucchio, appoggiato al fucile…
(…) L’idea della deportazione nel deserto appare dunque agli ideologi del partito come un rito di purificazione, un sacrificio propiziatorio di animali macellati per l’onore e la gloria di un Dio laico, impassibile e geloso. Così questa volta, perfino gli zaptiè riescono a dissimulare; la fiduciosa cecità delle armene, lasciate sole, fa il resto. Ed è così che partono in pace.
(…) Yerwant (…) invia un altro telegramma, chiedendo notizie, a Zareh ad Aleppo: ma anche Zareh non risponde: e Rupen da Boston non può che riecheggiare la sua stessa domanda, e condividere la sua apprensione.
Così passano due settimane, e il destino di Sempad si è intanto compiuto. Poi arriva, da un trafiletto breve, tra tanti, la prima notizia, attraverso un giornale americano, imprecisa, ma carica di una verità che le orecchie armene, anche quelle occidentalizzate, distinguono con rintocchi di campane, di morte. Nella città di *** il famoso collegio Americano è stato chiuso a tempo indeterminato. L’edificio è stato espropriato, i ragazzi mandati a casa o arruolati in battaglioni di lavoro. Il direttore ed il console americano si sono opposti, e vengono dichiarate persone non grate. L’ambasciatore Morgenthau eleva formale protesta al governo turco, nella persona di Enver Pascià. Ma non ottiene soddisfazione”.
Da quel giorno, è un crescendo di informazioni frammentarie, dapprima casuali ed isolate, in mezzo a tutti i dispacci d’agenzia sullo svolgersi della guerra europea, poi man mano poste in maggior rilievo, fino ad un quadro che è impossibile ignorare.
In quel buio inizio dell’estate del 1915 Yerwant non leggerà le notizie della guerra; ma, un pezzettino alla volta, le minime informazioni che trapelano all’estero sulle stragi armene, poche righe per lui terribilmente eloquenti. I giornali le pubblicano in appoggio ai tanti articoli sulla slealtà e la malvagità degli austro-germanici; infine, l’Impero Ottomano è alleato delle Potenze centrali. Ma Yerwant incomincia a intuire che non di occasionali massacri si tratta, né di episodi di disordine bellico; comincia amaramente a sentire l’oscuro disegno, la rete di morte in cui certo Sempad si è impigliato….
Il cuore di Yerwant si chiude, si sigilla per sempre. Oppresso da un infinito senso di colpa – la colpa stessa di esistere come armeno, di sopravvivere, di avere successo – Yerwant non scenderà mai più di sua volontà nelle radici della sua appartenenza, nei musicali, colorati ricordi del Paese perduto, mai più fino a quando li racconterà alla bambina come fiabe lontane, forse inaccessibili, forse sognate.
Provvederà certo ai bambini di Aleppo: li farà arrivare in Italia, pagherà il viaggio, li alleverà: ma poi li separerà di nuovo, crudelmente, anche se, tranne Henriette, li lascerà crescere come armeni. Due in America, da Rupen a Boston; Nubar e Henriette con lui, in Italia. Ai suoi figli invece, l’antica patria sarà vietata per sempre chiusa in una vaga memoria di ciò che è impossibile negare. Qualche fotografia, qualche nome. E nel 1924 chiederà al governo italiano il permesso di togliere legalmente dal suo cognome quell’imbarazzante codina delle tre lettere finale “ian”, che denunciano inequivocabilmente l’origine armena…
(…) Ora, davvero comincia la lunga marcia, la strada senza ritorno. La lontananza dalla città è ormai sufficiente: la carovana, abbandonata, è in completa balia dei gendarmi e del loro capriccio. Sopravvivere diventerà un caso, un’astuzia ingegnosa, una prova di forza, uno scherzevole gioco di dadi che ha in palio la morte.
(…) “Vecchi e bambini” ha ordinato Shushanig “montino sui carri rimasti finché riusciremo a tenerli” Spinta dagli zaptié a cavallo, la carovana si allunga lungo la strada. Poca acqua hanno potuto portare con sé, non ci sono molti recipienti, e il sole picchia. La pianura dell’Anatolia centrale arida, implacabile, si spalanca davanti a loro.
(…) Dopo l’incursione, ormai tutte hanno capito che sono davvero sole – e per sempre. Fuggire, non si può, ci sono sentinelle intorno al campo, e fuori i curdi. E, poi, dove, dove andare? (…) I pochi miserabili villaggi, non possono offrire riparo, anche se lo volessero. (E le donne non lo sanno ma è stata emanata una legge che proibisce di dare rifugio agli armeni, pena la morte)..
(Ismene e Nazim il mendicante riusciranno a raggiungerle e da Konya inizieranno una missione di aiuto tessuta con l’aiuto della Confraternita dei Mendicanti…ed arriveranno ad Aleppo dal fratello medico Zareh)
(…) Nelle Corti dei Miracoli della malavita, che fioriscono ovunque e sono il rovescio del tessuto di ogni società organizzata, le cose hanno una loro logica, per quanto capovolta; e vi trovano spazio l’avidità, la crudeltà, l’astuzia, la fuga dalla fame, ma non il fanatismo….
(…) A questo punto, tre strade, tre percorsi si intrecciano.
Parallele corrono le strade di Shusanig e di Ismene:
la strada di morte è stata raggiunta dalla strada di vita, ma l’esito è incerto.
(…) Isolata, solitaria è la terza strada quella di Yerwant. Lui, l’uomo impaziente, il chirurgo fulmineo deve reimparare l’attesa orientale, dipendere dalle notizie che arrivano, non potere niente, non fare niente. Non c’è altro che aspettare e vedere morire un po’ alla volta il suo orgoglio.
Sushanig, i bambini, le ragazze percorrono la via dolorosa. Le montagne del Tauro si ergono davanti a loro agghiaccianti. I conforti portati miracolosamente dalla gente di konya e da Ismene, tesaurizzati al millesimo permettono di sopravvivere un poco; ma è soprattutto la speranza che è rinata. Fievole, ma tenace : arrivare ad Aleppo.
(…) E così paziente lettore, siamo giunti al termine di questo viaggio, e di questo racconto. Le figlie di Sempad sopravvissero e così Nubar, come era stato predetto. Per un anno Zareh li tenne nascosti nella cantina della sua casa… poi riuscì ad imbarcarli per mare verso Venezia – e Yerwant che se ne prese cura. Sushaning sopravvisse a se stessa per tutto quel lungo anno, ma si lasciò andare e morì di crepacuore sulla nave, la prima notte in cui, essendosi finalmente imbarcata per l’Italia con il suo piccolo popolo, poté dismettere la paura e sorridere di nuovo a Sempad…