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Il poeta fuori di sè - Roberto Roversi


lunedì 05 marzo 2007 legge Salvatore Jemma
Roversi col suo operare mette in atto con una radicalità direi assoluta, come quasi nessuno ha saputo o voluto fare, una fuoriuscita dal proprio sé, come «un monaco di clausura / diventato pazzo, che cerca una clausura nella clausura» secondo la famosa poesia di Pasolini; ed è proprio così che si autodefinisce, un poeta fuori di sé. La “follia” di chi non patologizza il proprio essere, non arrovella il mondo attorno proprio ombelico, ma coglie la possibilità spaesante di trovarsi sempre su un altro terreno dove poter fruttificare e, come il Marcho Marcho del suo I diecimila cavalli, ogni giorno, iniziare un nuovo viaggio per cambiare il mondo, comprenderlo e, a sua volta, esserne compreso.

Il poeta fuori di sé
In Roversi, la scrittura è sempre connessa a ciò che può strappare dal nostro più o meno pigro “chiuso” personale, e non perché quest’ultimo sia senza valore, ma perché se ci si vuole esporre con un’opera (sia essa artistica o meno) che si propone di aggirarsi per le strade, quel privatissimo valore è in sé nullo, perché contiene solo il “proprio mondo” e non regge (non vuole o non sa reggere) la spinta prepotente della storia pubblica; cosicché la storia privata ha dignità in quanto ha il coraggio di farsi imbrattare dagli schizzi di mota che la strada offre, in modo da non essere davvero «fuori dal mondo».
Nessuno, pare dirci Roversi, può estraniarsi dalle vicende del mondo e poi pretendere di mostrare a questo il prodotto della propria creatività quale pietra di paragone (positiva o negativa che sia) - non oggi almeno, sempre che ieri o l’altro ieri fosse possibile farlo. Se lo fa, compie un’operazione di mascheramento della realtà, non costruzione ma distruzione della possibilità di capire il tempo che si vive e, in quello, di agire conseguentemente. Poiché la creazione di un’opera non può consumarsi nell’appagamento narcisistico, cercando di riconciliare il proprio sé col mondo o tentando di ricostituire una sorta di integrità psichica; deve, al contrario, costruire una nuova realtà (o, almeno, dovrebbe tendere a questo).
Roversi col suo operare mette in atto con una radicalità direi assoluta, come quasi nessuno ha saputo o voluto fare, una fuoriuscita dal proprio sé, come «un monaco di clausura / diventato pazzo, che cerca una clausura nella clausura» secondo la famosa poesia di Pasolini; ed è proprio così che si autodefinisce, un poeta fuori di sé. La “follia” di chi non patologizza il proprio essere, non arrovella il mondo attorno proprio ombelico, ma coglie la possibilità spaesante di trovarsi sempre su un altro terreno dove poter fruttificare e, come il Marcho Marcho del suo I diecimila cavalli, ogni giorno, iniziare un nuovo viaggio per cambiare il mondo, comprenderlo e, a sua volta, esserne compreso.
s.j.

da I diecimila cavalli, Editori Riuniti 1976, Conversazione introduttiva, pagg. XVI-XVII 

Ci sono poi, tra i personaggi del romanzo, i «cavalli», i «fagiani», i «persiani» e i «fiumi infernali».

«Ahi / i diecimila cavalli / sono tutti ammutoliti» sono due versi di un poeta cinese di secoli addietro citato da Mao. Li ho presi per intenderli non come simbolo e riferimento agli uomini che si sono ammutoliti dentro a una critica grigia o al rancore o al dolore che graffia, o si sono messi dentro la solita situazione di disarmo non soltanto apparente; disarmo susseguente a lotte non definite, a contraddizioni sempre contrapposte e agli impatti imprevedibili che si propongono con una furia delle occasioni talvolta opprimente o frastornante. I diecimila cavalli sono, e restano, tutti quelli che si muovono e corrono, che operano – e scelgono di conseguenza – perché le cose possano cambiare dietro spinte continue; sono quelli che tengono più duro, che durano di più, opponendosi sul piano delle idee e delle cose.
I persiani? sono una rapida e semplice trasposizione da Senofonte. Come in quel testo, qua vengono associati al brivido cupo dell’oppressore, al mare della sorpresa violenta, al rancore, a un certo odio che fa male e a tutto ciò, insomma, che non si vorrebbe più vedere come esercizio criminale e lubrico del potere.
I fagiano dorati? non so precisare in questo momento il piccolo riferimento bibliografico; l’ho nell’orecchio certamente da una vecchia lettura. Ma credo che importi poco o niente. Qua stanno come i rappresentanti della giustizia ingiusta, della ingiustizia gabellata e lacrimosa, dei fescennini calibrati e rigorosi della giustizia ufficiale, che si tramuta e recita, è ironica o lacrimosa, suggerisce o colpisce, invoca e reprime. Sotto le sue svariate penne si adattano le trasformazioni più tragiche, alla fine; e colui che ammonisce conduce e conclude è assiso in alto, come su trespolo d’oro, a esercitare il suo giudizio parziale in uno splendore terrorizzante.
I fiumi infernali? qua sono i cinque rappresentanti di un potere economico. Ciascuno ha la sua faccia e il suo luogo; conduce la danza o segue, secondo interesse e programma. L’accordo apparente è perfetto; c’è un’armonia ibrida e giallastra fra di loro, che è alla fine più borbottante e pericolosa di una tempesta o di un terremoto che arrivi. Charlot del petrolio è il petroliere, è chiaro; coi suoi affetti, minuto e lindo, feroce come un gatto accecato. Si può anche immaginarlo con la bombetta in testa. L’uomo col pompon è un altro, della grande industria di Stato; è lui, non l’ho inventato io; gira in macchina su e giù per Milano, terrorizzato dal freddo e dallo spionaggio industriale, che è poi uscito insieme ai trucioli a sua pancia di buffone shakespeariano. Agli altri tre metti maschera d’uso; basta allungare la mano.

da I diecimila cavalli, Editori Riuniti 1976, Prima II, pagg. 8- 9
Non puoi far nulla (nel caso specifico)
se non sei come loro
se non sei
non sei un rivoluzionario se non fai la rivoluzione
non sei un operaio se non fai l’operaio
né un uomo se non stai fra gli uomini.
Puoi distorcere tutto, contaminare
mescolandoti nel veleno della metafora
ma se non sei questo e quello
puoi appena parlare.
Bisogna esercitare per poter concludere.
Guardarsi dalle imitazioni.

«Dove diavolo stai andando?»

Nel giro di otto settimane, fra l’aprile e il maggio; nel giro di otto settimane fra giugno e luglio e agosto; nel giro di otto settimane fra quell’aprile e quel luglio; e ancora altre settimane prima dopo, per l’inverno l’està… Disse alla moglie: stasera faremo qualcosa di buono, qualcosa fra noi, qualcosa che non facciamo da tempo. Una cosa. Uscì e andò in banca, in quella banca
[rovescio la domanda e parlo col mio cavallo. Alla domanda sopra indicata – a cui non si può non rispondere; anzi, a cui si deve una qualunque risposta o soltanto quella risposta (voluta e dovuta) che non chiede altro, che si inchina e inclina, che è complice (un poco) e subito manifesta; a quella domanda come rispondere? cosí: sissignore, passeggio (un poco), rincaso (un poco), mi avvio a morire, se oggi è segnato che debba morire. Forse. Se ho qualche probabilità per questo; o per schivarlo. Vedrò. Pomeriggio di festa, l’asfalto si bagna, l’asfalto è molle. Continueremo dopo] – dunque andò in banca, in quella banca e
tu credesti Marcho Marcho
che la liga te temesse
né già mai ardire avesse
oltre dada far il varcho. Quello disse alla moglie: noi stasera faremo qualcosa di buono, qualcosa di diverso, qualcosa che non facciamo da tempo; noi due faremo qualcosa. Uscì, andò in banca, andò alle poste dove non trovò che prospetti pubblicitari ma non l’assegno su cui contava (l’assegno che sperava), lavorò come al solito e alle tredici via, mentre cammina incontra un compagno di scuola, mannaggia è Triarchi, decrepito, chissà come ringhioso, sembra rincoglionito, è ricco, cisposo, è felice? certamente apatico, è frustrato, fuori giuoco? greve invadente frivolo simpatico umano con strisce rosse sulle guancie che gli segnano il viso un po’ foruncoloso, iellato. Forse tutto sommato un uomo moderatamente tranquillo, moderatamente disperato. Gli disse mi rallegro, lo salutò andandosene, ritornò indietro gli chiese del figlio nato ieri, era un obbligo ecc.
Andando. A casa Marcho Marcho ripete alla moglie stasera, stasera, è deciso. Il giornale radio, mangia, si sforza, mentre fa il pieno della latta dello stomaco milza e fegato traballano alle parole che escono dal transistor sporcando il boccone che diventa amaro, nero. Forse la giornata comincia qui. Marcho Marcho digerisce male con questa voce nella pancia. Una vaccata sto paese esimio per pietre.


da Fabio Moliterni, Roberto Roversi. Un’idea di letteratura, Edizioni del sud 2003, pagg. 142

Questo è il gruppo integrale delle Descrizioni in atto composte dal 1963 al 1969, di cui molte inedite; e raccolte adesso per pochi a cui sono dedicate e liberamente mandate. Bologna, dicembre 1969.

La raccolta poetica più intensa dell’intero percorso roversiano reca in apertura questa avvertenza: è il frutto della decisione di sospendere ogni forma di collaborazione con la cultura ufficiale, di rifiutare le pratiche istituzionali e i mezzi tradizionali della comunicazione editoriale e di tirare al ciclostile, personalmente, nel giro di un decennio, quasi 3.500 copie del volume da inviare gratuitamente a chiunque, veramente interessato, ne facesse richiesta. Roversi tornerà in più occasioni, fino ad interventi recentissimi, a spiegare e ad analizzare la sua scelta, troppe volte semplificata e mistificata (o ignorata) dalla critica e dalla stampa del periodo, che recepisce il suo ciclostilato come un gesto individuale e di rivolta, disperatamente anarchico, contro la potente industria culturale. E si trova col dover chiarire il suo dire anche per le ambiguità e per i malintesi che esso poteva oggettivamente suscitare. Pur tra ripensamenti e autocritiche, sottolineerà costantemente il significato politico che quel progetto doveva assumere. Si vedano, ad esempio, queste dichiarazioni stese in momenti diversi:

Sono stati gli studenti a insegnarmi a usare il ciclostile anche per il mio libro. Agli inizi avevo molte perplessità, temevo che potesse essere soltanto una forma di goliardismo senile; ma poi mi pare di aver saputo collocare la scelta di questo mezzo in una posizione abbastanza giusta… (1970)

Sappiamo che gestione della comunicazione è stato il problema di una certa sinistra negli anni Sessanta. Col mio ciclostilato mi proponevo […] di inserirmi in un problema seguente, più nuovo e anche più urgente, più di fondo: quello della gestione della distribuzione della comunicazione. Mi ciclostilavo non per far dispetto a Mondadori che neanche mi filava (o Einaudi, Laterza, Bompiani, Vallecchi, ecc). […] Volevo arrivare, con le mie lettere a mano, più lontano, più in dettaglio; e arrivarci da solo (1978).


da Le descrizioni in atto I quaderni de Lo Spartivento, Bologna 1990
DECIMA DESCRIZIONE IN ATTO

I.
Che età avevi quando irruppe il Medo?

II.
Il giuramento a lume di candela
nella cattedrale di Brunswick
davanti alla tomba
di Enrico l’Uccellatore (vedere a pagina ottanta)
con gli occhi azzurri e i capelli biondi, essi
e il pelo sul cuore…

III.
Una strada non c’è. C’è una strada (un fiume), c’è un fiume
- credo che ci sia, è così – un profondo
fosso, una siepe, un fiore d’albero
sotto il giardino spappolato, c’è il pianto
di una bambina nuda col tracoma c’è
il sangue di un uomo decapitato
la milza di un animale sul bancone di legno;
c’è il filo bianco (un rosso filo) che stende
dal labbro di chi parla fino a una casa laggiù;
una carta su cui il dito stende con raccapriccio;
l’orgasmo della donna fra l’erba affumicata
da un vecchio incendio, un bombardiere che non si vede.
Vilipendio di istituzioni (di gravi legittime colpe).
Non c’è più l’eco, il suono non c’è, il percuotere
dell’ultimo dissenso, le voci
placate (finalmente?), i refusi scomposti;
ribolle un altro piombo per più degne canzoni
- la caratteristica del tempo è una misurata indifferenza,
tutto interessa un poco per brevissimo tempo,
ogni cosa muore, deperisce, sé consuma e sfoltisce
nel forno della memoria.

da Nota quinta, in Numerozero, n. 4, settembre 1987 

Quanto scrivono! commenta uno riferendosi ad altri e proprio nel momento stesso in cui anch’egli scrive. Hai ragione! Carta straccia! dice un altro, nel momento in cui ripone quattro fogli versificati e bene ordinati nel cassetto, chiudendolo a chiave, per il timore che un qualche vento li semini via, o un ladro- poeta li rubi per cibarsene. Segno che ciascuno tutela la propria scrittura con l’avida empietà e con l’arida intransigenza di un animale selvatico che difende gli ultimi nati; e non bada agli altri se non per sopraffarli.
Che sia un male o sia un bene, non so. Come l’ospite nella sesta lettera goethiana de “Il collezionista ed i suoi” mi sento di ripetere: “della poesia non voglio sentenziare”. Invece posso prolungare alcune deduzioni più generali, destinate a restare fra noi - in questo concerto quasi privato di voci che cercano e si cercano - e per altro, destinate a restare inattuali, fuori dal corso ufficiale di questo tempo che si scuote alle volte come una bandiera affumicata e che tratta la poesia con il riguardo che si ha, e si deve avere, per le persone ammalate. Gravemente ammalate.
Oggi la comunicazione è allargata ma la solitudine si è fatta secca e tetra. Vuol dire che - in generale, naturalmente: e non per le persone “affermate” né per i giovanotti risucchiati dalla cannuccia della Coca Cola nella gola della società dello spettacolo - più fai meno trovi ascolto; più cerchi e meno hai; a meno che uno non accetti di reggere la coda al serpente (ce ne sono tanti che lo fanno); in tal modo arriverà prima o poi a una qualche duratura paga mensile per il lesso. Ma ci sono anche quelli, invece, che strisciano i denti sul muro per fare qualche scintilla e cercano di non lasciarsi accalappiare. Con questi si può litigare sotto il sole senza paura di perdere il tempo.
Una città buia di sera

da Una città buia di sera, in Zero in condotta, n. 9 1996

Sicura a mio parere, è una città dove puoi lasciare aperta o socchiusa la porta di casa; abbassato il vetro del finestrino dell’auto; appoggiata a un muro la bicicletta nuova senza catena; tenere il portafoglio nella tasca dei calzoni in autobus; uscire di casa anche per strade deserte senza essere inghiottito dal fato.
È dunque sicura o insicura Bologna?
La risposta, credo è semplice semplice, molto concreta: è poco sicura, è molto insicura; così com’è, è la verità, accade a tutte le altre città del mondo, tranne che in Islanda. Ma come e perché e quanto?
La sicurezza del luogo natio, della cara città in cui si vive e si vorrebbe sperare, è assegnata esclusivamente alla convinzione costante e onorevole, alla responsabilità costante onorevole, al rispetto costante onorevole e reciproco, che dovrebbero accompagnare i cittadini per l’intero corso della giornata, comunque spesa; e, direi, per tutta la vita. Sono sempre meno propenso, invece, ad addebitare, a scaricare l’insicurezza, l’infelicità quotidiana sociale sulle spalle degli altri, sempre degli altri; in questi casi, degli amministratori.
Sento voci che ribattono: chiacchiere, chiacchiere generiche di uno dalla penna facile. La verità è, dicono le voci, che i cittadini di Bologna non solo si sentono insicuri ma hanno addirittura paura. Paura vera, concreta, reale. E questa è più pesa della insicurezza generica. La paura si porta stretta addosso, incombe sulle spalle, diventa cultura di vita, scelta di vita, limite di vita, riflessione e incertezza costanti, nevrotiche, assillanti. L’insicurezza, al confronto, è solo un brivido prolungato.


da Dopo Campoformio, Torino, Einaudi, 1965, pag. 9

Quando venni in Lombardia
ero giovane, allora.
Per ròse dai fischi dei vapori
il pianto di un ragazzo
migrò libero verso la frontiera:
l’ombra dei montanari saliva verso il cielo
e in tiepidi restaurants i camerieri
scoprivano agli ufficiali
distratti da un occhio adolescente
fragili zuppiere.
Nel rifugio della stazione,
mentre i treni bruciavano
bianchi neri contro le vetrate,
la donna appoggiò i chiari
capelli sul mio zaino.
Terra per eserciti
in fuga verso i monti.
Tremano al lume della luna le giovani foglie.
Austria, Svizzera, Francia alla frontiera.

In due giorni di cammino
sui laghi volarono,
col balzo delle trote, le speranze.
A Novara, a Novara;
oh a Novara, in un osteria
avvinghiata da caserme bruciate;
un uomo grida sul prato della periferia,
al mattino era morto. Ivrea, Aosta…
su quelle strade marciavo e per i monti
frustrato da tristezza, dai ricordi.

Nota
Roberto Roversi è nato nel 1923 a Bologna, dove si è laureato in filosofia, e a Bologna ha sempre vissuto e lavorato, gestendo la libreria antiquaria “Palmaverde. Fondatore con Leonetti e Pasolini della rivista “Officina” (1955), ha dato vita nel 1961 alla rivista “Rendiconti”. Ha collaborato, inoltre, a importanti riviste di politica e di letteratura, ma anche a riviste provvisorie e sotterranee, oltre che a quotidiani locali e nazionali.
Delle numerose opere poetiche, si ricordano: - Poesie per l'amatore di stampe, a cura di Leonardo Sciascia 1954 Dopo Campoformio, Feltrinelli, Milano 1962 (nuova ed. Einaudi 1965); Descrizioni in atto, ciclostilato in proprio, Bologna 1969 (nuova ed. riveduta e accresciuta, Coop Modem, Bologna 1990); L’Italia sepolta sotto la neve. Premessa: Il tempo getta le piastre nel Lete, Nordsee, Roma 1984 (nuova ed. Quaderni del Masorita, Bologna 1995); L’Italia sepolta sotto la neve. Parte prima: Fuga dei sette re prigionieri, Il Girasole, Valverde 1989; L’Italia sepolta sotto la neve. Parte seconda: La natura, la Morte e il Tempo osservano le Parche, Pendragon, Bologna 1993; Il Libro Paradiso, Lacaita, Mandria 1993; La partita di calcio, Pironti, Napoli 2001. Inoltre, da tempo la terza parte viene pubblicata a puntate sulla rivista ilfilorosso.
Le principali opere di narrativa sono: Ai tempi di re Gioacchino, Palmaverde, Bologna 1952; Caccia all’uomo, Mondadori, Milano 1959; Registrazioni di eventi, Rizzoli, Milano 1964; I diecimila cavalli, Editori Riuniti, Roma 1976; Scrittura scenica, con Franco Fortini, Alba Morino, Alfredo Antonaros, Emilio Isgrò e Ottiero Ottieni, EnnErre, Milano 1994.
Per il teatro ha scritto: Unterdenlinden, Rizzoli, Milano 1965; Il crack, “Sipario”, n. 275, marzo 1969; La macchina da guerra più formidabile, Quaderni del CUT, Bari 1971; Enzo re Tempo viene chi sale e chi discende, “Bologna Incontri”, (cinque puntate), 1977-1978.