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Il tribunale del bene - Gabriele Nissim




lunedì 12 febbraio 2007 leggono vari
Esiste a Gerusalemme un luogo chiamato “Giardino dei Giusti” dove ogni albero piantato ricorda un non ebreo che durante la Shoah ha salvato almeno un ebreo dalla persecuzione nazista. A idearlo è stato Moshe Bejski, uno dei milleduecento nomi della lista Schindler.
Ma chi può essere considerato un Giusto? Può essere ritenuto tale chi non ha rischiato la vita ma la posizione sociale? E può essere ritenuto un Giusto un’antisemita convinta, che pur rimanendo tale, ha salvato centinaia di vite? E chi ha fallito nel suo intento, è anch’esso un Giusto?
Quattro episodi, quattro storie di uomini e non di eroi che hanno saputo trovare e trasmettere al loro tempo e ai tempi futuri tutta l’umanità che avevano dentro di sé. Perché come diceva la scrittrice Etty Hillesum: “L’unico modo che abbiamo per preparare tempi nuovi è di prepararli fin d’ora in noi stessi”.
Gabriele Nissim, fondatore del Gariwo, comitato promotore per i giardini mondiali dei Giusti, sarà presente alla serata.


Gabriele Nissim, Il tribunale del bene, Milano, Oscar Mondadori, 2004


Moshe Bejski esercitava uno strano mestiere. Faceva il pescatore di perle. Si tuffava nel passato per scoprire un tipo di uomini (di cui si parla sempre troppo poco) che nei tempi oscuri del mondo permettono di credere ancora nelle possibilità dell’uomo.
Non poteva eliminare le macerie della Storia, né ridare sollievo alle vittime. Non aveva la bacchetta magica per rimarginare le ferite, ma nessuno come lui sapeva mostrare quante risorse ed energie possiedono gli esseri umani per resistere al male.
Moshe era il presidente della Commissione dei giusti presso il memoriale di Yad Vashem a Gerusalemme (il memoriale di Yad Vashem è l’istituzione in ricordo dei “martiri e gli eroi della storia” creato nel 1953 con un’apposita legge del parlamento israeliano, con l’obbiettivo di onorare “i sei milioni di ebrei uccisi dai nazisti e dai loro collaboratori, le comunità ebraiche che sono state distrutte con l’obbiettivo di sradicare il nome e la cultura di Israele, e infine l’eroismo e il coraggio degli ebrei e dei giusti tra le nazioni), il primo organismo del novecento che si sia occupato della memoria del bene compiuto durante un genocidio. Ricercava in ogni angolo del mondo gli uomini che avevano rischiato la vita per aiutare gli ebrei durante la persecuzione nazista.
“Non volevo che un solo giusto fosse dimenticato da noi ebrei” ripeteva con ossessione agli amici.
In realtà non era interessato alla purezza e alla perfezione degli esseri umani, non cercava gli eroi e i superuomini, ma voleva ricordare chi aveva tentato, di fronte a un male estremo autorizzato dalla legge, di salvare anche una sola vita, che era stato capace di comportarsi semplicemente da uomo.
Era questo il suo concetto particolare di giusto.
Moshe amava gli uomini, non cercava i “santi”.
Moshe è sempre rimasto fedele alla sua personale esperienza e ne ha fatto un punto di riferimento per ripensare il mondo in modo nuovo.
Un giorno, infatti, quando la catastrofe stava per inghiottirlo, aveva ricevuto un dono insperato: un tedesco megalomane, semialcolizzato, donnaiolo, spendaccione, amante disordinato di tutti i piaceri mondani, lo aveva tirato fuori dall’inferno. Moshe non lo aveva dimenticato e si era prodigato con ostinazione per toglierlo dai suoi guai giudiziari, per farlo conoscere e per celebrare il suo gesto straordinario. Non era stato facile e aveva dovuto battersi come un leone contro tutti i pregiudizi ideologici e moralistici che impedivano la comprensione profonda di quello strano tedesco sui generis. Quell’uomo era Oskar Shindler e Mosche Bejski era uno dei milleduecento nomi ineriti nella famosa lista.

Chi è l’uomo giusto che merita di essere ricordato nel giardino di Gerusalemme?
“Quando abbiamo iniziato il nostro lavoro” spiega Bejnski “ci siamo basati sulle indicazioni generali di un comma della legge approvata dal parlamento israeliano nel 1953”.
Tutto l’impianto della legge è dedicato alla memoria delle vittime della Shoah. A conclusione dell’elenco degli imperativi della memoria è stato aggiunto un ultimo paragrafo, molto diverso dagli altri, che indica di rendere omaggio agli uomini “giusti tra le nazioni”.
“Un uomo giusto tra le nazioni è un non ebreo che ha rischiato la vita per venire in aiuto a degli ebrei”
“Quel passo però”osservò Bejski “non offriva ancora un’esatta definizione di chi meritasse il titolo di giusto tra le nazioni, ma divenne per noi il punto di partenza su cui lavorare”
Un giusto era prima di tutto un individuo che aveva agito secondo coscienza , un uomo concreto, e non un’organizzazione collettiva, un ente astratto.
In secondo luogo, era giusto chi aveva agito mettendo a rischio la sua vita, nel clima della persecuzione.
In terzo luogo, la legge non faceva distinzioni quantitative e qualitative sul tipo di aiuto dato e sul numero di ebrei salvati.

La creazione è cominciata con l’apparizione di un solo uomo, forse per insegnare che chiunque distrugge una singola vita è come se distruggesse l’intero universo e chiunque invece salva un singolo individuo salva il mondo intero.

“Il primo grande interrogativo che mi trovai di fronte, appena entrato nella commissione sotto la guida di Landau, riguardava il concetto di giusto: doveva riferirsi unicamente a chi aveva rischiato la vita per salvare altre o vite o andava esteso a coloro che, pur senza trovarsi esposti a un pericolo mortale, aveva raggiunto lo stesso fine?”

Il poliziotto svizzero che guardava dall’altra parte

“La discussione sul caso Gruninger rappresentò per me un punto di svolta nella direzione della commissione. Fu forse la discussione più difficile, perché rivelò l’urgenza di riconsiderare il principio che doveva ispirare il giudizio. Dovevamo aprirci a un’idea più complessa del rischio personale e alcuni di noi non erano ancora in grado di farlo. Inseguivano l’eroismo, anziché gli uomini reali e così non si convincevamo mai”

Gruninger viveva in Svizzera, il paese neutrale per eccellenza, che aveva costruito una corazza tra sè e il male nel resto del mondo. Per rendere più efficace questa barriera e non lasciarsi inquinare dai mostri che giravano per l’Europa, aveva letteralmente recintato le frontiere, chiudendo la porta non solo ai fanatici di Hitler ma anche a migliaia di profughi ebrei che cercavano rifugio, soprattutto dall’Austria. Il governo non voleva che il paese fosse invase da migliaia di rifugiati e temeva le reazioni ostili della Germania.
Gruninger, capo della polizia del cantone di San Gallo pensò che esisteva un unico modo per incrinare quella barriera di indifferenza: fare il contrario di quanti non volevano vedere la sofferenza e rimandavano gli ebrei dall’altra parte. Finse di non vedere gli ebrei che passavano.
Invece di girare le spalle al dolore, preferì girare le spalle quando attraversavano clandestinamente la frontiera. Chiuse un occhio di fronte alla loro gioia, al bene che si compiva in flagrante opposizione alle leggi che tutelavano la sicurezza della nazione. In questo modo lasciò entrare in Svizzera centinai di profughi, fingendo di esserne completamente all’oscuro.
Gruninger usava uno stratagemma per farli entrare legalmente: imprimeva un timbro retrodatato sui loro documenti quando, spaventati, si presentavano in grossi gruppi alla frontiera. Fece risultare sui passaporti che il passaggio era avvenuto prima del decreto che vietava l’ingresso ai profughi a partire dal 19 Agosto 1938.
Nel 1939 la burocrazia svizzera se ne accorse e il capo della polizia di San Gallo fu licenziato con una nota di biasimo del governo cantonale. Un anno dopo, poco prima di natale, fu condannato dal tribunale della sua città per aver falsificato dei documenti e non avere ottemperato ai doveri della sua professione. Privato della pensione, costretto a vivere di un lavoro modesto, non si presentò mai davanti ad un’istituzione ebraica né per chiedere il riconoscimento del suo gesto né per ottenere un aiuto economico. Aveva accolto gli ebrei nel suo paese con lo stesso spirito di chi si ferma per soccorrere una persona in difficoltà e non sente alcun bisogno di pubblicizzare un atto di normale responsabilità. Era il più anonimo dei salvatori e perfino quanti erano riusciti ad attraversare il confine non conoscevano il suo nome; sapevano soltanto che alla frontiera svizzera c’era sempre qualcuno molto distratto, che si sbagliava sulle data e soffriva di una strana quanto provvidenziale miopia.
Moshe aveva capito che il rischio che corre un uomo nel fare il bene non è mai quantificabile. Un individuo non lo affronta soltanto davanti ad un nemico con le armi in pugno, che può minacciare la sua esistenza al pari di quella della vittima ma anche quando si discosta dal silenzio generale ed è costretto a fare i conti con la reazione subdola dell’ambiente in cui vive, che lo isola, lo deride, lo punisce perché non accetta la sua diversità. Per questo motivo tutti i tipi di rischi che un uomo aveva affrontato per aiutare un ebreo dovevano avere pari dignità nella commissione. Un giusto poteva essere privato della vita, ma anche di altre componenti dell’esistenza come la libertà, il lavoro la reputazione, l’amicizia. “Ecco perché mi sono battuto allo stremo per una interpretazione allargata del concetto di rischio” sottolinea oggi Bejski.

L’uomo per reagire, deve superare dentro di sé la paura di morire o di essere relegato in un angolo come un oggetto inutile. Eccola la sfida principale nei tempi oscuri dell’umanità: è la lotta, interiore tra la difesa della propria dignità e la paura dell’annientamento.
L’esito non è mai scontato.





L’analisi della paura come elemento costitutivo della condizione umana portava Bejski ad affrontare un ulteriore aspetto, imprescindibile per l’impostazione del suo lavoro nella commissione.
Non voleva che si costruisse su quella collina di Gerusalemme il giardino degli eroi, ma il giardino degli uomini normali. Voleva ricordare il rischio che ogni uomo si assume e non esaltare soltanto quello estremo che mette consapevolmente in conto la morte. A Bejski piaceva pensare che la gente potesse scoprire, salendo su quella collina di Gerusalemme, i piccoli passi che gli uomini giusti avevano tentato. Voleva che ogni visitatore uscisse da quel luogo di meditazione con il ricordo di migliaia di nomi sconosciuti impressi nella memoria, piuttosto che con l’immagine roboante i qualche decina di eroi divinizzati in manifesti e gigantografie.

Un caso estremo lo aveva fatto riflettere. Era accaduto in Olanda. Una guardia forestale si era trovata a tu per tu in un bosco con una pattuglia tedesca alla caccia di un gruppo di partigiani ebrei. I soldati gli avevano chiesto con aria minacciosa di rivelarne il nascondiglio: sapevano che quell’uomo controllava palmo a palmo tutta la zona con il suo binocolo e non poteva non aver notato dei partigiani alla macchia. La guardia però era rimasta ostinatamente in silenzio, nonostante la loro insistenza sempre più pressante. Alla fine, dopo interminabili minuti di tensione, i tedeschi, spazientiti, presero il mitra e lo freddarono. Poi si rivolsero alla moglie, minacciandola allo stesso modo . Quella donna, pur avendo davanti agli occhi il cadavere insanguinato della persona che amava, rimase zitta, preferendo morire piuttosto che piegarsi alla volontà degli assassini di suo marito e rivelare il nascondiglio degli ebrei.
“Se mi chiedessero cosa avrei fatto se mi fossi trovato al posto della povera moglie della guardia forestale mentirei a me stesso se dicessi che sarei stato capace di stare in silenzio senza fornire le informazioni. Avrei avuto una paura folle, che avrebbe condizionato le mie reazioni. Non so proprio come mi sarei comportato, terrorizzato davanti al cadavere di quell’uomo, probabilmente avrei parlato sotto la minaccia del mitra. Io non sono un eroe, come potevo chiedere da altri di essere eroi?” Ai membri della commissione che volevano premiare solo eroi quasi sovraumani, disposti a morire senza paura per gli ebrei, Moshe poneva un interrogativo chiarificatore, che sgombrava subito il campo da ogni equivoco.
“Se la situazione si fosse capovolta, come si sarebbe comportato un ebreo nei confronti di un non ebreo in pericolo? Avrebbe sicuramente avuto le stesse paure, le stesse esitazioni, le stesse viltà. E allora che senso ha glorificare soltanto i perfetti?”

L ‘esempio dello sconfitto

Jan jarski era un giovane patriota polacco. Dopo la laurea in legge all’università di Lodz e l’inizio di una carriera diplomatica a Berlino, Ginevra e Londra, si era arruolato nella cavalleria al momento dello scoppio della guerra. (…) Quando i russi e i tedeschi si spartirono la Polonia nel 1939, dimostrò una dose notevole di coraggio, fuggendo prima da un campo di prigionia sovietico, poi da uno tedesco. Arruolatosi con entusiasmo nella resistenza clandestina venne mandato per due volte in missione a Parigi per incontrare gli emissari del governo polacco in esilio. Durante uno dei suoi viaggi fu scoperto dalla Gestapo in Slovacchia, arrestato e torturato. Per non tradire i suoi amici e l’organizzazione tentò il suicidio. Trasferito in ospedale, riuscì in circostanze fortunate a fuggire calandosi da una finestra.
Con la stessa determinazione s’impose di non tradire le aspettative che avevano riposto in lui Leon Feiner e Menachem Kirshenbaum, due dirigenti delle organizzazioni clandestine ebraiche del ghetto di Varsavia.. Karski li aveva incontrati alla vigilia del suo viaggio a Londra, dove avrebbe dovuto consegnare ai membri del governo polacco tutte le informazioni sui vari gruppi di opposizione. Fu la conversazione più dura, più cruda, più disperata, di tutta la sua vita.
Kirshenbaum gli spiegò subito che non c’erano speranze :”Il nostro intero popolo verrà distrutto. Solo pochi forse si salveranno, ma i tre milioni di ebrei polacchi sono irrimediabilmente condannati. Ciò non potrà essere impedito da nessuna forza clandestina in Polonia, né Polacca, né tanto meno ebraica. CHIEDA AGLI ALLEATI DI ASSUMERSI QUESTA RESPONSABILITA’. NON CI DEVE ESSERE UN SOLO ESPONENTE DELLE NAZIONI UNITE CHE POSSA DIRE UN GIORNO DI NON ESSERE STATO INFORMATO DELLO STERMINIO DEGLI EBREI POLACCHI”
“E cosa devono fare gli alleati?” chiese Karski.
“La Germania può essere piegata solo con la forza. Le città tedesche devono essere bombardate senza pietà e in ogni bomba ci dev’essere un volantino che denunci la sorte degli ebrei polacchi. I tedeschi devono sapere che, se non si fermeranno, subiranno lo stesso nostro destino durante e dopo la guerra”
Karski capì che quelle richieste avrebbero sconcertato i suoi interlocutori, anziché creare simpatia verso gli ebrei.
“Lei pensa che noi non lo sappiamo? Lo chiediamo perché è la sola risposta a quello che stanno facendo. Non abbiamo illusioni, ma lo chiediamo comunque. Vogliamo che la gente sappia come ci sentiamo, quanto è grande la nostra disperazione, quanto poco significherà per noi una vittoria degli alleati.”
C’era un’ultima estrema risorsa, aggiunse. Gli alleati avrebbero potuto pagare i nazisti per farsi consegnare le donne, i vecchi, i bambini ebrei.
Karski lo interruppe.
“Ma non possiamo dare soldi ai nostri nemici. E’ contrario ad ogni strategia bellica”
“Tutti ci dicono che è contrario alla strategia bellica, ma una strategia può essere cambiata. Perché il mondo deve lasciarci morire? Non abbiamo contribuito anche noi alla cultura, alla civiltà…” L’inesorabile avvicinarsi della morte era così incombente che quando Karski chiese cosa doveva dire ai leader ebraici, la risposta fu inequivocabile. “Lei ci chiede quale tipo di azione io suggerisca ai nostri leader. Dica loro di recarsi in tutti i più importanti uffici e nelle agenzie ebraiche e di non muoversi di lì fino a quando non otterranno la garanzia che è stato deciso qualcosa per salvare gli ebrei. Dica loro di non accettare niente, né da bere, né da mangiare, di morire di morte lenta mentre il mondo li guarda. Si, sii lascino morire. Ciò potrà scuotere la coscienze del mondo.” Ma non furono solo quelle parole a sconvolgere Karski. I due dirigenti ebrei lo fecero entrare due volte nel ghetto e alcuni giorni dopo, travestito con l’uniforme di una guardia ucraina, lo portarono a Izbica Lubelska, un luogo di raccolta nella regione di Lublino in cui migliaia di ebrei provenienti dalla Cecoslovacchia venivano perquisiti, spogliati, esaminati e caricati sui treni diretti al campo di Belzec. Quando Karski ripartì per la missione in Occidente, si portò dietro quelle immagini. Fino a quel momento aveva guardato esclusivamente alla sorte del suo paese, non aveva mai avuto un interesse particolare in famiglia per la cultura ebraica e non si era eccessivamente preoccupato degli orrori nazisti nei confronti degli ebrei. Ora, da un giorno all’altro, era diventato il messaggero della loro sorte.
Quando arrivò a Londra(…) fece decine di riunioni e prese appuntamento con i più disparati circoli politici, ma si accorse presto che i cuoi racconti venivano accolti con scetticismo e incredulità; i suoi interlocutori trovavano sempre una ragione da far valere per giustificare l’impossibilità di una iniziativa. Alcuni suoi superiori gli fecero capire che la situazione degli ebrei era una questione secondaria rispetto alla lotta per l’indipendenze polacca. Molti addirittura temevano che le sofferenze degli ebrei distogliessero l’attenzione del mondo da quelle dei polacchi. Nel febbraio 1943 ebbe un incontro segreto con il segretario di Stato inglese Anthony Eden da cui ricevette una risposta glaciale. “La Gran Bretagna ha già fatto abbastanza per accogliere centomila profughi. Non può fare niente di più. Karski allora pensò di rivolgersi al mondo ebraico di Londra. Trovò l’impotenza assoluta di Szmul Zygielbojm, rappresentante del governo polacco in esilio a cui raccontò quanto gli avevano detto a Varsavia. “Se organizzo una protesta davanti a un’istituzione, come chiedono da Varsavia, arriveranno due poliziotti che mi cacceranno fuori con le cattive maniere. Pensa forse che mi lasceranno morire lì davanti? No, non me lo permetterebbero di certo”.
Qualche settimana dopo Karski apprese che Zygielbojm si era suicidato con una lettera di protesta per l’indifferenza del mondo alla sorte degli ebrei. Karski partì per gli Stati Uniti con la ferma intenzione di continuare la sua missione, di cercare ogni strada per sensibilizzare i grandi della terra. Si sentiva un piccolo uomo a cui il destino aveva dato un compito enorme “Io ero molto giovane, un semplice ragazzo, niente di più che un corriere. Non avevo la levatura per parlare con uomini così potenti. “ “La maggior parte delle persone mostrava sensibilità verso i miei resoconti sugli ebrei, ma quando mi rivolgevo ai capi dei governi, vedevo che mettevano da parte la loro coscienza e trovavano tutti gli argomenti possibili per dimostrarmi l’impossibilità di agire. L’unica soluzione percorribile era la sconfitta del terzo Reich. Niente doveva interferire con questa strategia militare”
Quando incontrò Roosevelt ebbe la sensazione che il presidente fosse interessato esclusivamente alla situazione della resistenza polacca. Insistette allora per spiegare che gli ebrei potevano essere salvati soltanto dagli alleati, ma si accorse che il presidente cambiava discorso con osservazioni di circostanza “ Dica ai polacchi che hanno un amico alla Casa Bianca e che saranno vendicati per i crimini commessi contro di loro”
Uscì dalla stanza ovale emozionato come un ragazzino, ma con la sensazione di non essere stato ascoltato. Ancora peggiore fu il colloquio con Felix Frankfurter, il presidente della Corte suprema americana, ex consigliere della Casa Bianca. “Io non posso crederle” gli disse. E quando un diplomatico polacco presente all’incontro gli domandò se ritenesse che Karski mentisse, la sua risposta fu lapidaria “Io non dico che questo giovane stia mentendo, ma che sono incapace di credergli. E’ questa la differenza”. Quel giudice preferiva non doverci pensare. Dopo tutti i tentativi inutili, Karski chiese di ritornare ad operare in clandestinità in Polonia. Gli fu risposto che non era possibile perché oramai era un volto conosciuto e sarebbe stato facilmente scoperto dai tedeschi. Si stabilì definitivamente negli Stati Uniti. Per molti anni preferì non parlare della sua missione, si sentiva un uomo sconfitto “Ho la sensazione che gli ebrei non abbiamo avuto fortuna con me…Ero troppo insignificante per suscitare interesse alla causa”

Un giusto antisemita

A metà degli anno ottanta arrivò sul tavolo della commissione un rebus ancora più difficile da sciogliere: il caso della scrittrice polacca Zofia Kossak. Poteva diventare un giusto tra le nazioni anche un convinto antisemita?
La vicenda era veramente complicata perché si trattava di giudicare una donna che, pur essendo già prima della guerra una convinta antisemita, durante l’occupazione nazista era stata mossa da una sincera pietà per gli ebrei e li aveva aiutati come pochi avevano osato fare nel suo paese, ma non aveva cambiato una virgola le sue opinioni e aveva continuato a credere nell’incompatibilità assoluta tra ebrei e polacchi. Zofia Kossak Szczucka aveva quarantanove anni allo scoppio della seconda guerra mondiale. I suoi romanzi storici le avevano dato una grande notorietà, non solo in patria, ma anche in Europe e negli Stati uniti, dove un suo libro, I crociati, aveva avuto un grande successo. Era una fervente cattolica, patriota e nazionalista. Come la maggioranza dell’elite politica e intellettuale inseguiva il sogno di un paese composto soltanto da polacchi, mentre nel paese erano presenti diverse minoranze, come ucraini, bielorussi, tedeschi, tuttavia era la liberazione dalla presenza degli ebrei a essere considerata il toccasana per tutti i mali della nazione.
Nel 1936 la Kossak si pronunciò apertamente per una legislazione discriminatoria nei loro confronti, sostenendo che non era la religione che li divideva dai polacchi, bensì la razza. Dopo l’invasione tedesca, da coerente patriota e nazionalista, si lanciò anima e corpo nella lotta clandestina contro l’occupazione nazista e, a differenza della maggior parte degli intellettuali antisemiti, decise sorprendentemente di rompere il muro di omertà che circondava la sorte degli ebrei. Di fronte alla tragedia del ghetto di Varsavia, nell’estate del 1942, fece circolare un volantino, intitolato Protest, in cui denunciava la totale indifferenza del mondo di fronte al genocidio e invitava i polacchi a protestare con tutte le forze contro i massacri in atto. “Il silenzio non può più essere tollerato. Qualunque ne sia la ragione è un fatto vile. Di fronte a un assassinio non è consentito rimanere passivi. Chiunque rimane silenzioso davanti ad un omicidio diventa complice dell’omicidio. Chiunque non condanna approva” Quell’appello, con il quale la prima volta in Polonia si denunciava la morte di un milione di ebrei, fu portato a Londra dal corriere della resistenza Jan Karski che se ne servì nei suoi sfortunati incontri con i leader politi inglesi. La scrittrice non usò solo la penna e la parola, ma si impegnò in prima persona per organizzare un gruppo di soccorso chiamato “ Commissione per l’aiuto sociale alla popolazione ebraica bestialmente perseguitata dai nazisti” che nascondeva ebrei fuggiti dal ghetto. Nel dicembre del ’42 la commissione si trasformò in un’organizzazione ufficiale della resistenza nazionale, con il nome di Zegota, inventato dalla stessa Kossak. Si calcola che furono 6000 gli ebrei nascosti, forniti di documenti falsi, che ebbero salva la vita. Zofia non si limitò a costruire reti di soccorso, ma mise a disposizione anche la sua abitazione per nascondere alcune famiglie di ebrei. Arrivò così ad accogliere in casa sua le persone che più detestava. La sua attività politica nella resistenza rischiò di concludersi tragicamente. Catturata dai nazisti nel ’43, fu rinchiusa per alcuni mesi nel campo di Auschwitz, finchè un combattente della resistenza riuscì a liberarla corrompendo una guardia con una somma di denaro.
Pur essendo antisemita la Kossak aveva capito che la Polonia con il suo silenzio di fronte allo sterminio rischiava di pagare un peso politico e morale molto pesante nel presente e anche nel futuro. L’indifferenza verso la sorte degli ebrei avrebbe inquinato irrimediabilmente la moralità della società e sarebbe pesata a lungo sull’immagine del paese. “La partecipazione forzata della nazione polacca allo spettacolo sanguinoso che si svolge in terra polacca può inoltre radicare un sentimento di indifferenza verso i torti, può alimentare il sadismo e soprattutto portare alla conclusone che l’omicidio non sia punibile. Chiunque non capisce questo e ritiene di potere collegare il futuro di una Polonia libera alla disgrazia del proprio vicino, fino al punto di gioirne in modo vile, non può essere considerato né un cattolico né un polacco”.
Ancora oggi sono molti coloro che rimangono stupefatti di fronte al caso della Kossak e che parlano di enigma, di mistero dell’animo umano, quasi si dovesse scoprire nelle sue azioni un indizio di un pentimento o di una repentina maturazione determinata dalla drammaticità degli eventi. E’ difficile accettare l’idea che chi disprezza profondamente un uomo possa aiutarlo nel momento del pericolo. In realtà la sua vicenda, per certi versi unica nella storia della Shoah, mostra che il comandamento Non uccidere può rivelarsi un antidoto contro i peggiori e più inquietanti pregiudizi. Si può amare a persino odiare, ma di fronte all’omicidio dell’altro non ci si può sottrarre al dovere morale di opporvisi. E’ per questo motivo che la Kossak è stata nominata giusta, e mai nessuno ha contestato, neppure in seguito, il giudizio coraggioso della commissione. E’ stata onorata perché aveva agito restando antisemita, e non perché avesse cambiato idea.

Mosche Bejski con la sua grande foresta dei giusti è riuscito a riportare in vita atti di bene che altrimenti si sarebbero perduti nel vento.
Ma aveva compiuto soltanto il primo passo, non si faceva illusioni.
Siamo infatti noi contemporanei che determiniamo l’orizzonte dello sguardo del giusto. Lo collochiamo esclusivamente nel passato se facciamo di lui un’icona da ammirare in lontananza.
Lo facciamo riviere se ci permette di scoprire altri giusti in circostanze e in luoghi diversi.
Renderemo il suo sguardo passivo e rivolto all’indietro se confineremo la sua storia in un tempo che non ci appartiene più, mentre lo faremo guardare avanti se ci porremo delle domande sulle nostra responsabilità individuale, se reagiremo di fronte a ogni espressione del male, a ogni accenno di disumanizzazione degli esseri umani.
I giusti ci hanno lasciato in eredità il loro comportamento nei tempi oscuri, ma senza un testamento che ci possa orientare nel presente. Dobbiamo decidere da soli.
E’ quanto ha osservato il poeta Renè Char in un aforisma che rende molto bene la situazione in cui NOI ci troviamo.
“La nostra eredità non è preceduta da alcun testamento.”