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La fine della povertà, Lo sviluppo inafferrabile - Jeffrey Sachs, William Easterly



lunedì 22 gennaio 2007 legge Lorenzo Casaburi
Il testo di Jeffrey Sachs è il manifesto dei grandi filantropi odierni, da Bill Gates a Bono. L'economista della Columbia University propone una strategia di intervento volta all'eliminazione della povertà estrema, grazie all'aumento della quantità (e della qualità) degli aiuti internazionali concessi dai paesi ricchi ai paesi in via di sviluppo. La riduzione della povertà nei paesi poveri sarebbe dunque il risultato di un "patto globale" tra Nord e Sud del mondo.
D'altro canto la storia degli aiuti internazionali presenta risultati modesti a fronte di ingenti trasferimenti e sembrerebbe indurre cautela verso tali proclami, come illustrato dal libro di Easterly, già economista della Banca Mondiale, oggi docente alla New York University.
Insomma, andiamo verso la “fine della povertà” o assistiamo a un'altra disavventura di “economisti ai Tropici”? 



Jeffrey Sachs, La fine della povertà, Milano, Mondadori, 2005

Gli investimenti necessari per cancellare la povertà


Semplificando al massimo, la chiave per cancellare la miseria estrema è dare ai più poveri fra i poveri la capacità di compiere il primo passo sulla scala dello sviluppo economico. Quella che abbiamo chiamato “scala del benessere” è proprio lì, sopra di loro, ma i più poveri fra i poveri non dispongono del capitale minimo necessario per iniziare a salirla e, perciò, hanno bisogno di una spinta che offra una salda presa sul primo gradino. Ai poveri mancano sei tipi fondamentali di capitale:
1) il capitale umano, ovvero salute, alimentazione e competenze necessarie affinchè ogni individuo possa essere economicamente produttivo;
2) il capitale produttivo, ovvero le macchine, le attrezzature, i mezzi meccanici per l'agricoltura, l'industria, i servizi;
3) il capitale infrastrutturale, ovvero i fattori critici per la produttività economica, come strade, energia, acqua e servizi igienici, aeroporti e porti marittimi, sistemi di telecomunicazione;
4) il capitale naturale, ovvero terra arabile, suolo fertile, biodiversità, ecosistemi ben funzionanti che garantiscano i «servizi naturali» necessari al consorzio umano;
5) il capitale istituzionale, ovvero i codici del commercio, il sistema giudiziario, i servizi della pubblica amministrazione e di sicurezza che supportano una pacifica e prospera divisione del lavoro;
6) il capitale intellettuale, ovvero le conoscenze scientifiche e tecnologiche che aumentano la produttività del lavoro e delle attività d'impresa e che promuovono il capitale naturale e produttivo.
Come superare la trappola della povertà? 1 poveri partono da una dotazione molto bassa di capitale per persona, e si trovano intrappolati nella povertà perché il saggio di capitale pro capite diminuisce da una generazione all'altra. Ciò accade perché la popolazione cresce più rapidamente di quanto il capitale venga accumulato. A sua volta, il capitale si accumula in condizioni di equilibrio di due forze, una positiva e una negativa. Il capitale si accumula quando le famiglie riescono a risparmiare una parte del proprio reddito, o conferiscono una parte di questo allo Stato - sotto forma di tassazione - per finanziare investimenti. I risparmi delle famiglie sono prestati alle imprese (spesso attraverso intermediari finanziari, come le banche) o investiti direttamente in attività familiari o strumenti finanziari negoziati nel mercato. Il capitale diminuisce, o si deprezza, in conseguenza del trascorrere del tempo, dell'uso o della scomparsa di competenze professionali (quando per esempio, un lavoratore con competenze particolari muore di AIDS) Se il risparmio è maggiore del deprezzamento, l'accumulazione netta di capitale è positiva, mentre se è inferiore, il capitale diminuisce. Tuttavia, anche in presenza di un'accumulazione netta positiva del capitale, la questione della crescita del reddito pro capite dipende dal rapporto fra accumulazione netta di capitale e crescita della popolazione.
Gli aiuti stranieri, in forma di Assistenza ufficiale allo sviluppo (ALS), contribuiscono ad avviare il processo di accumulazione del capitale, la crescita economica e l'aumento del reddito delle famiglie. Gli aiuti stranieri alimentano tre canali: una parte va direttamente alle famiglie, soprattutto per emergenze umanitarie come gli aiuti alimentari in caso di siccità; una parte, maggiore, entra direttamente nel processo di finanziamento dell'investimento pubblico; e un'altra parte, più modesta, va direttamente alle imprese private (per esempio, agli agricoltori), attraverso programmi di microcredito e iniziative analoghe che finanziano lo sviluppo di piccole attività produttive e il miglioramento delle tecniche di coltivazione. Se l'assistenza finanziaria straniera è sufficiente, e sufficientemente duratura, lo stock di capitale aumenta quanto basta per portare le famiglie al di fuori dell'economia di semplice sussistenza. A quel punto la trappola della povertà non agisce più: la crescita si sostiene da sola attraverso il risparmio delle famiglie e l'investimento pubblico, reso possibile dalla tassazione dei redditi familiari. In tal senso l’assistenza straniera non è da considerare semplice elemosina, ma un vero e proprio investimento mirante a eliminare in modo definitivo la trappola della povertà.

Un patto globale per la fine della povertà

Per sconfiggere la povertà entro il 2025 è necessaria l'azione concertata di tutti i paesi del mondo, partendo da un patto globale fra quelli ricchi e quelli poveri. I paesi poveri devono prendere sul serio la lotta alla povertà, dedicandole più risorse nazionali di quante ne impieghino per la guerra, la corruzione e la lotta politica interna; i paesi ricchi devono abbandonare il proprio atteggiamento passivo riguardo all'aiuto ai paesi poveri, e mantenere le promesse ripetutamente fatte di aumentare l'assistenza allo sviluppo. Tutto ciò è possibile; anzi, è molto più probabile di quanto appaia. Ma è necessario un quadro di riferimento. Con i colleghi del Progetto millennio delle Nazioni Unite ho formulato una proposta proprio in tal senso, incentrata sul periodo da qui al 2015 e denominata Strategia di riduzione della povertà basata sugli OSM.
Per quanto sia noioso, dobbiamo comunque definire il «sistema idraulico» dell'assistenza internazionale allo sviluppo, in modo da aiutare efficacemente i paesi ben governati. Gli aiuti seguono percorsi precisi - aiuti bilaterali. Banca mondiale, banche di sviluppo regionali (come l'African Development Bank) - ma questi percorsi spesso sono intasati o troppo stretti per apportare un flusso sufficiente di aiuti. Se vogliamo ottenere il consenso dei contribuenti del mondo occidentale ad alimentare il sistema con un maggior volume di risorse, dobbiamo dimostrare che questo sistema è in grado di convogliarle proprio dove i paesi poveri ne hanno più bisogno: nei villaggi, nelle baraccopoli, nei porti, negli altri luoghi critici. Vediamo come si potrebbe organizzare questo sistema, concentrandoci sul periodo che va da oggi al 2015, data entro cui gli OSM dovrebbero essere raggiunti. Principi analoghi si applicherebbero al decennio seguente, fino al 2025.
Il segretario generale delle Nazioni Unite, supervisore di tutte le agenzie delle Nazioni Unite e delle istituzioni di Bretton Woods (che fanno parte delta famiglia delle Nazioni Unite), dovrebbe sovrintendere all'intero piano. Agendo per tramite dello United Nations Devclopment Program - braccio dello sviluppo economico nel sistema delle Nazioni Unite - il segretario generale, per conto dei paesi membri, dovrebbe farsi garante delle attività legate al patto. Gran parte del lavoro si svolge a livello di singoli paesi, dove i piani devono essere formulati e nei quali vanno effettuati gli investimenti sulla base delle risorse finanziarie nazionali e degli incrementati aiuti dei donatori.
Per organizzare il lavoro a livello nazionale, ogni paese povero dovrebbe adottare una Strategia di riduzione della povertà (Poverty Reduction Strategy, PRS) configurata pacificamente per raggiungere gli OSM. La maggior parte dei paesi poveri già oggi dispone di una strategia di riduzione della povertà - di solito in forma di libro bianco o di piano operativo -- definita in collaborazione con FMI e Banca mondiale. Gli attuali piani operativi della Banca mondiale per la riduzione della povertà definiscono gli scopi, gli obiettivi, le politiche e le strategie del paese per la riduzione della povertà. Introdotti alcuni anni fa per dare maggiore coerenza agli sforzi di ciascun paese nella lotta alla povertà e per offrire una griglia di riferimento alle decisioni di cancellazione o riduzione del debito, i piani esistenti non sono pensati con rigore e ambizione sufficienti a permettere a un paese di raggiungere gli OSM.
Tutti i documenti strategici per la riduzione della povertà sono disponibili pubblicamente sui siti Internet del FMI e della Banca mondiale, perciò chiunque può leggere direttamente che tipo di interventi ogni paese ha eletto a strategia per la riduzione della povertà. I programmi spesso sono ben formulati, ma cronicamente sottofinanziati rispetto alle risorse che sarebbero necessario per soddisfare gli OSM. Così, frequentemente tali paesi sono costretti a mettere da parte intere aree di investimento pubblico (come la sanità).


Una vera strategia di riduzione della povertà basata sugli OSM
Una vera strategia di riduzione della povertà, basata sugli OSM, dovrebbe contemplare cinque aspetti:
1) una diagnosi differenziale, che identifichi le politiche e gli investimenti di cui il paese necessita per soddisfare gli OSM;
2) un piano di investimenti, che definisca la dimensione, la tempistica e i costi degli interventi necessari;
3) un piano finanziario per sostenere il piano degli investimenti, che includa il calcolo del differenziale finanziario degli OSM, ovvero , la porzione del fabbisogno finanziario che deve essere coperta dai donatori
4) un piano dei donatori,che elenchi gli impegni pluriennali che i donatori dovranno sostenere per coprire il differenziale finanziario degli OSM;
5) un piano gestionale, , che delinei i meccanismi di governo e di pubblica amministrazione che contribuiranno a implementare l'ampliata strategia di investimento pubblico.
Nel !oro insieme, queste cinque sezioni non permetterebbero ai paesi donatori di accampare la scusa cui sono soliti ricorrere per non impegnarsi di più negli aiuti ai paesi poveri: la cosiddetta e famigerata «capacità di assorbimento» di un maggiore volume di aiuti. Chiedono i donatori: «Che senso ha aumentare le risorse che mettiamo a disposizione del sistema sanitario, se mancano il personale medico e infermieristico e le strutture ospedaliere per fornire servizi sanitari alla popolazione?». Questa domanda tradisce il senso stesso degli aiuti allo sviluppo: certo che oggi non ci sono abbastanza medici, infermieri e strutture; ma che situazione potrebbe essere fra quattro, sei o dieci anni? Con più aiuti, ci potrebbero essere più medici, più infermieri, più strutture ospedaliere e ambulatoriali. Andare da qui a lì è una questione di routine pianificata, non di gesti eroici.
In un orizzonte temporale di un paio d'anni, per esempio, i medici locali che si sono trasferiti all'estero potrebbero essere allettati a tornare nel proprio paese con salari più adeguati, in parte finanziati dai donatori; in un periodo di due o tre anni, si potrebbero formare decine di migliaia di operatori sanitari di villaggio, grazie a programmi di istruzione finanziati dai donatori. In un orizzonte temporale di cinque anni, l'attuale leva universitaria degli studenti in medicina potrebbe essere allargata, grazie anche alla parziale copertura dei costi da parte dei donatori. E in dieci anni potrebbero essere aperte nuove facoltà di medicina in tutto il paese, finanziate dagli aiuti stranieri. La limitata capacità di assorbimento non è un argomento contro l'espansione degli aiuti, ma la ragione stessa per cui gli aiuti sono necessari! La soluzione è finanziare gli aiuti con continuità nel corso di un decennio, in modo che la capacità di assorbimento aumenti progressivamente, in misura prevedibile.


I ricchi possono permettersi di aiutare i poveri?

Chiedere al mondo ricco di assumersi la responsabilità di aiutare più poveri fra i poveri a sfuggire alla trappola della povertà potrebbe sembrare molto imprudente. Non solo il compito sarebbe ingrato e protratto nel tempo, ma potrebbe anche portarli alla bancarotta. O almeno, così si crede diffusamente. Dopotutto, perfino la gestione dei programmi sociali dei paesi ricchi si è dimostrata troppo onerosi: il mondo occidentale, con tutti i problemi che ha, non è già abbastanza impelagato nel caos finanziario? Com'è possibile che si faccia anche carico di miliardi di persone fuori dai propri confini, in paesi dove la popolazione cresce rapidamente? Si tratta di dubbi ragionevoli. Ma per i quali, per fortuna, ci sono anche risposte ragionevoli. Ad un'analisi più attenta, si scopre che il problema dei paesi occidentali non è se si possano permettere di aiutare i paesi poveri, ma se si possano permettere di non farlo.
La verità è che oggi il costo è probabilmente minimo, nei termini di qualsiasi parametro rilevante: reddito, tassazione, costi di ulteriori rinvii, benefici che ne deriverebbero. Ma quel che è più importante è che l'onere complessivo non sarebbe superiore agli impegni già assunti dal mondo occidentale: 0,7% del PNL dei paesi ad alto reddito, cioè 7 centesimi per ogni 10 dollari guadagnati. L'incessante dibattito sull'assistenza allo sviluppo, se sia sufficiente quello che il mondo occidentale già sta facendo per aiutare i poveri, riguarda, effettivamente, meno dell'l% del reddito dei paesi ricchi. Dunque, l'impegno economico richiesto ai ricchi è talmente leggero che fare meno significherebbe dichiarare apertamente all'altra metà del mondo: «Voi non contate niente». E non ci sarebbe da stupirsi se, in futuro, i paesi ricchi si trovassero a pagare un pesante pedaggio.
Le ragioni per cui in realtà il livello dell’impegno richiesto è così contenuto, sono cinque. In primo luogo, il numero degli afflitti da povertà estrema è diminuito e rappresenta, oggi, solo una porzione molto modesta della popolazione mondiale. La Banca mondiale stima che 1,1 miliardi di persone vivano oggi, nel mondo, in condizioni di povertà estrema; meno di un quinto della popolazione mondiale. Una generazione fa, questa porzione era di un terzo; e due generazioni fa era prossima alla metà. Di conseguenza, in termini relativi, la quota della popolazione mondiale ancora invischiata nella povertà estrema è contenuta.
In secondo luogo, l'obiettivo è cancellare la povertà estrema, non la povertà, né tantomeno equalizzare i redditi mondiali o eliminare il differenziale fra paesi ricchi e poveri. Questo potrà magari accadere ma, perché avvenga, i poveri dovranno diventare ricchi da sé. L'aiuto dei paesi ricchi serve soprattutto a offrire assistenza a quelli estremamente poveri, perché si possano liberare dalla trappola della povertà che li attanaglia.
In terzo luogo, neutralizzare la trappola della povertà potrebbe essere più facile del previsto. Per troppo tempo la stragrande maggioranza degli economisti si è posta domande fuorvianti: come trasformare un paese povero in un modello scolastico impeccabile di buona amministrazione o in un'efficiente economia di mercato? Troppo poco è stato fatto per individuare gli specifici, sperimentati interventi che, a costo minimo, possono davvero fare la differenza nel tenore di vita e nella crescita economica. Se scendiamo sul piano pratico e parliamo di investimenti in aree specifiche (strade, energia,
trasporti, agricoltura, acqua e servizi igienici, controllo delle malattie), lo sforzo sembra improvvisamente meno titanico.
In quarto luogo, oggi il mondo ricco è straordinariamente ricco. Uno sforzo per porre fine alla povertà estrema, che anche solo una o due generazioni fa sarebbe apparso fuori portata, adesso è facilmente affrontabile, perché i costi rappresentano una frazione modesta dell'immenso reddito del mondo ricco. Soprattutto nel caso degli Stati Uniti, parte della soluzione che permetterebbe ai donatori di onorare gli impegni già assunti nei confronti dei più poveri fra i poveri sta nell'affidarne il maggiore onere economico ai più ricchi fra i ricchi: non il contribuente medio, ma i contribuenti al vertice della graduatoria dei redditi. I ricchi possono permettersi di pagare una quota significativa di quanto necessario, sia attraverso un modesto aumento dell'aliquota fiscale sia in uno slancio filantropico su larga scala, commisurato alla propria sterminata fortuna.
In quinto luogo, i nostri strumenti attuali sono più potenti che mai. Telefonia mobile e Intemet stanno ponendo fine alla cronica carestia di informazione che affligge l'Africa e l'Asia rurali. Sistemi logistici migliorati permettono alle imprese multinazionali di operare in modo redditizio nelle regioni all'estrema periferia del mondo. Le moderne tecniche agronomiche, come il miglioramento delle sementi, l'agrobiotecnologia e la gestione scientifica dei fertilizzanti, stanno restituendo fertilità a terre in passato esaurite o offrendo all'agricoltura terre considerate non adatte allo scopo. I nuovi approcci alla prevenzione e al controllo delle malattie offrono la prospettiva di grandi innovazioni nella pratica medica. E’ vero che queste innovazioni raggiungono ancora solo marginalmente i più poveri fra i poveri; infatti, il fulcro della riduzione della povertà è un aumento della scala degli investimenti fondamentali in infrastrutture, sanità e istruzione: investimenti che il rapido progresso tecnologico ha reso infinitamente più efficaci.





Negli ultimi cinquant’anni, noi economisti abbiamo più volte pensato di aver trovato le giuste risposte alla questione della crescita economica. Si iniziò con i finanziamenti per colmare il gap tra investimenti “necessari” e propensione al risparmio. Anche dopo l’abbandono, da parte di alcuni di noi, del rigido concetto di investimenti “necessari”, si continuò a pensare che gli investimenti rappresentassero la chiave per la crescita. A integrare questa idea arrivò la convinzione secondo cui l’educazione costituiva una sorta di “meccanismo umano” di accumulazione che avrebbe portato la crescita. In seguito, interessati a come la popolazione “in eccesso” avrebbe potuto annientare la capacità produttiva dell’economia, abbiamo promosso il controllo della crescita demografica. Poi, quando abbiamo scoperto che gli interventi dei governi avevano ostacolato la crescita, abbiamo sostenuto il ricorso a prestiti, per indurre i paesi a riformare le loro politiche sociali. Infine, quando i paesi hanno avuto problemi con la restituzione dei prestiti ricevuti per le loro riforme, abbiamo proposto la cancellazione del debito.
Nessuno di questi elisir ha funzionato come promesso, perché non tutti i partecipanti alla realizzazione della crescita economica hanno avuto i giusti incentivi.


Cinquant’anni sono abbastanza

Il ricorso, per più di cinquant’anni, al feticcio degli investimenti finanziati attraverso aiuti ci ha portati fuori strada nella nostra ricerca della crescita. Il modello dovrebbe essere finalmente messo a riposo. Dovremmo liberarci del concetto di gap finanziario in modo definitivo, con le sue false previsioni su quanti aiuti siano necessari a un paese. Non dovremmo tentare di stimare il livello “neccessario” di investimenti affinché un paese possa raggiungere un determinato tasso di crescita, perché non esiste un legame stabile, nel breve periodo, tra investimenti e crescita. Né dovremmo cercare di stimare il livello “necessario” di aiuti per raggiungere un determinato tasso di crescita, perché non esiste un modello economico capace di affrontare questo problema.
Per di più, fornire aiuti sulla base del gap finanziario crea incentivi perversi per i destinatari, come si è scoperto già molto tempo fa. Quanto più il gap finanziario è grande e quanto più sono abbondanti gli aiuti, tanto più bassa è la propensione al risparmio del destinatario. Ciò crea incentivi che ostacolano la gestione autonoma da parte del destinatario delle proprie risorse per lo sviluppo.


Incentivi per i donatori e per i destinatari degli aiuti

Per quale motivo dunque la politica degli aiuti di aggiustamento, a cui abbiamo fatto ricorso fino alla fine degli anni ottanta, ha finito per trasformarsi in un in incauto finanziamento a paesi disperati? Perché quella dei prestiti d’aggiustamento non è stata la formula magica che avrebbe evitato di perdere due decenni di crescita? Perché siamo stati incapaci di far rispettare le condizioni sulle riforme? Ancora una volta, la risposta viene dal nostro motto ufficiale: le persone rispondono agli incentivi. Le organizzazioni internazionali non verificano gli incentivi. I finanziatori hanno incentivi a concedere prestiti anche quando le condizioni per i prestiti non vengono rispettate. I beneficiari hanno l’incentivo a non realizzare le riforme anche quando ottengono prestiti d’aggiustamento. Alla base di questi problemi c’è una molteplicità di incentivi.
In primo luogo, i donatori non sarebbero tali se non fossero preoccupati per la sorte dei poveri del paese destinatario degli aiuti. Ma questa sollecitudine nei confronti dei poveri rende poco credibile la minaccia di tagliare i prestiti, nel caso in cui le condizioni a essi collegate non venissero rispettate. Dopo tutto, anche se le condizioni non vengono rispettate, la volontà dei donatori è quella di ridurre la massa dei poveri e dunque essi continuano a concedere aiuti. I destinatari possono anticipare questo comportamento rimanendo immobili, senza intraprendere alcuna riforma e senza aiutare i poveri, convinti di ottenere comunque gli aiuti. Come abbiamo visto nel caso del taglio del deficit, essi possono dare l’impressione di fare riforme anche quando in realtà non fanno nulla.
La preoccupazione dei donatori per i poveri crea incentivi ancora più perversi per i beneficiari. Siccome i paesi con i più seri problemi di povertà ottengono più aiuti, questi paesi avranno uno scarso incentivo ad alleviare il problema della povertà. I poveri vengono così tenuti in ostaggio al fine di estorcere aiuti ai donatori.
Come possiamo fare fronte a questo problema degli incentivi perversi? Paradossalmente, i poveri dei paesi destinatari degli aiuti starebbero meglio se la decisione di finanziamento fosse nelle mani di una cinica agenzia a cui non importa nulla di loro. Questa avara agenzia può infatti minacciare in modo credibile i tagli agli aiuti, nel caso in cui il beneficiario non dovesse rispettare le condizioni e non si impegnasse nel ridurre la povertà. A questo punto il beneficiario rispetterà le condizioni e i poveri starebbero meglio.
Vi sono incentivi sbagliati a concedere finanziamenti anche per una ragione meno nobile. La maggior parte delle istituzioni donatrici ha una struttura organizzativa che prevede un dipartimento per ciascun paese o gruppo di paesi. Il budget di questo dipartimento viene determinato sulla base della quantità di finanziamenti concessi al beneficiario. Un dipartimento che non usa il proprio budget per i prestiti, con molta probabilità l’anno successivo otterrà meno risorse. Budget più ricchi sono associati a maggior prestigio e a maggiori possibilità di carriera. Così i responsabili dei vari dipartimenti sono incentivati a erogare comunque aiuti, anche quando le condizioni collegate al prestito non vengono rispettate.
I finanziatori creano anche un altro incentivo perverso per i beneficiari dei prestiti, nel momento in cui condizionano i finanziamenti a cambiamenti nella politica economica. Ciò crea una sorta di aggiustamento a zigzag, con il quale i paesi procedono con continui aggiustamenti e revisioni degli aggiustamenti. Quando aggiustano ottengono nuovi prestiti grazie al cambiamento nella politica economica. Ma quando hanno delle ricadute, non ottengono più finanziamenti. Allora aggiustano di nuovo, dando inizio a un nuovo round di prestiti d’aggiustamento da parte della Banca Mondiale, del Fondo Monetario e di altri enti finanziatori. L’“Economist” descrive come questo processo abbia avuto luogo in Kenya.

Nel corso degli ultimissimi anni il Kenya si è esibito in un curioso rito di accoppiamento con i suoi donatori. Le fasi del rito sono le seguenti: in primo luogo, il Kenya riceve le sue annuali promesse di aiuti internazionali. In secondo luogo, il governo inizia a comportarsi male, facendo retromarcia sulle riforme economiche [...]. In terzo luogo, in un nuovo incontro i paesi donatori esprimono la loro esasperazione e si preparano a richiamare all’ordine il governo keniota. In quarto luogo, il Kenya tira fuori il coniglio dal cappello, tranquillizzando i donatori. In quinto luogo, i donatori si ammorbidiscono e l’aiuto è garantito. A questo punto l’intera danza ricomincia.

A volte c’è una quarta ragione per la quale i finanziatori ufficiali concedono nuovi prestiti a paesi che non realizzano le riforme. Spesso questi paesi hanno già ricevuto molti prestiti dai finanziatori ufficiali e hanno qualche difficoltà nel restituire il debito. I finanziatori ufficiali non vogliono dichiarare pubblicamente che i prestiti non stanno producendo risultati, perché ciò sarebbe politicamente imbarazzante e potrebbe mettere a rischio il budget dei finanziatori ufficiali nei loro paesi. Così essi qualche volta finiscono per concedere nuovi prestiti per permettere ai beneficiari di restituire i vecchi prestiti.
I beneficiari sono consapevoli degli incentivi dei donatori. Anche se può apparire sorprendente, durante le negoziazioni sull’erogazione di aiuti, le redini sono tenute in mano dai poveri beneficiari. La minaccia della mancata erogazione da parte del dipartimento dell’istituzione donatrice, nel caso in cui le condizioni legate al prestito non venissero rispettate, non è molto credibile. I beneficiari sanno che i finanziatori hanno a cuore i poveri e che il budget dei finanziatori dipende dall’erogazione di nuovi prestiti. I beneficiari possono anche minacciare di non onorare il vecchio debito, nel caso in cui non dovessero ricevere nuovi prestiti ... e in tal modo le erogazioni vengono comunque fatte.


Conclusione 

Dovremmo fare tutto ciò che è in nostro potere per migliorare le vite dei poveri, sia nei paesi altamente indebitati sia nei paesi a basso ?debito. Sembra sensato immaginare che l’elevato debito potrebbe sottrarre risorse alle spese nella sanità e nella scuola, che andrebbero a beneficio dei poveri. Coloro che ci dicono di cancellare il debito stanno dalla parte degli angeli o almeno dalla parte di Bono, del Dalai Lama e del papa. Il nostro cuore ci dice di cancellare il debito per aiutare i poveri.
Ahimè, la testa contraddice il cuore. La cancellazione del debito garantisce aiuti a quei paesi che hanno dato prova di fare un pessimo uso degli aiuti. Essa è inutile per i paesi i cui governi non modificano il proprio comportamento. La stessa pessima gestione che ha causato l’elevato debito impedirà ai poveri di godere dei benefici della cancellazione del debito.
Un programma di cancellazione del debito potrebbe avere senso se soddisfa due condizioni: l) sia concesso laddove vi sia un comprovato cambiamento da un governo irresponsabile a un governo con buone politiche economiche e sociali; 2) sia una misura una tantum, quindi senza possibilità di future ripetizioni.
È possibile che un governo seriamente intenzionato ad aiutare i poveri erediti l’elevato debito da un precedente pessimo governo. In questo caso, si potrebbe prevedere la cancellazione del debito. Ma la condizione dovrebbe essere che solo governi seriamente intenzionati a mettere in atto un deciso cambio di rotta possano essere considerati meritevoli della cancellazione. Per valutare se i paesi hanno compiuto questo profondo mutamento, la comunità internazionale dovrebbe osservare una lunga serie di azioni inequivocabilmente responsabili prima di concedere la cancellazione.
Nell’iniziativa HIPC del 1996 furono compiuti importanti sforzi in questa direzione, che sfortunatamente sono stati indeboliti, probabilmente a causa di proposte successive, come quelle scaturite dai meeting del 2000 della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, che accelerarono il processo di cancellazione e applicarono questa misura a un numero maggiore di paesi.
In assenza di un cambiamento nel comportamento dei governi, i finanziatori ufficiali non dovrebbero continuare a colmare il gap finanziario. Il concetto stesso di gap finanziario dovrebbe essere abolito in modo definitivo, dato che ha creato incentivi perversi all’indebitamento permanente. Nonostante i prestiti e la cancellazione del debito vengano concessi in nome dei poveri, questi non ottengono un aiuto effettivo se gli interventi della comunità internazionale finiscono per creare incentivi a un progressivo indebitamento. Per evitare questo genere di incentivi, il programma? di cancellazione del debito deve tentare di stabilire in modo credibile che la cancellazione non verrà più concessa nel futuro. Se ciò è difficile da realizzare, allora l’idea della cancellazione diventa essa stessa problematica. I governi avranno infatti l’incentivo ad accumulare debito nella convinzione che un giorno questo verrà cancellato.
Un programma di cancellazione del debito, che fallisca nello stabilire una di queste due condizioni, ha come conseguenza un flusso di risorse, a paesi con pessime politiche economiche e sociali, maggiore di quello destinato a paesi poveri responsabili. Perché gli HIPC dovrebbero ricevere una quantità di aiuti pro capite pari a quattro volte quella concessa ai paesi meno indebitati, come è accaduto nel 1997. Se c’è una qualche possibilità che i donatori nel futuro continueranno a finanziare i governi irresponsabili, allora la cancellazione del debito andrà a collidere con la risposta delle persone (e dei governi) agli incentivi. La cancellazione del debito si rivelerà dunque essere un altro deludente elisir nella nostra ricerca della crescita.