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Versi spezzati - Kamila Shamsie



lunedì 15 gennaio 2007 legge Annamaria Tagliavini 
Pubblicato da Ponte alle Grazie nel 2005, dopo Kartografia del 2001 e Sale e zafferano del 2000, il romanzo della Shamsie è molte cose contemporaneamente: un thriller, la vibrante storia di un rapporto madre-figlia, un vivace ritratto del Pakistan di oggi. Ma è soprattutto una via semplice e diretta per entrare in contatto con le emozioni e i sentimenti delle donne che nascono nei paesi di cultura islamica, per incominciare a conoscere il modo in cui vivono, per modificare stereotipi che ci portiamo dietro dall’infanzia, dalla prima lettura delle Mille e una notte. Per accettare finalmente che abitiamo tutti in una realtà profondamente cambiata e complicata che possiamo imparare ad attraversare soltanto conoscendoci meglio.
Annamaria Tagliavini, femminista e autrice di numerosi articoli e saggi, dirige la Biblioteca italiana delle Donne di Bologna.


Aasmani Inqualab, una trentenne inquieta, vive a Karachi e lavora per un’emittente televisiva. Sua madre, Samina, è una specie di eroina nazionale, attivista dei diritti civili e femminista, scomparsa misteriosamente quindici anni prima, due anni dopo la morte del Poeta - suo amante e grande intellettuale - assassinato da un’agenzia governativa. Improvvisamente un giorno Aasmani riceve un messaggio redatto nel codice segreto che sua madre e il Poeta usavano per comunicare durante gli anni della clandestinità. Un codice di versi spezzati, appunto. E’ questa l’occasione per rivisitare il passato e la relazione complessa e intensa con la madre, di cui sempre attende inutilmente il ritorno. Sullo sfondo di una città, Karachi, e di un paese, il Pakistan, in radicale e rapida trasformazione si sviluppa un intreccio di sentimenti e misteri e insieme la toccante vicenda di due donne, madre e figlia, in cerca della propria differente libertà.


Il vecchio sogno, ancora una volta.
Sono in un capanno sulla spiaggia, guardo fuori. Il telaio della finestra riduce il mondo a un riquadro di sole e mare. Dentro al riquadro c'è una donna che cade, con un braccio alzato sulla faccia. Finisce in acqua. Corro fuori. Il suo corpo è prigioniero della risacca: una forma scura, scompigliata. Sopra, nient'altro che il cielo. Le onde si ritirano, lasciandola sulla sabbia. Mi precipito verso di lei, vedo squame dove mi aspettavo le gambe. Ho già visto una sirena, una volta, per ore e ore sono rimasta a spruzzarle l'acqua addosso per evitare che si disidratasse. Ricordo il dolore al braccio per la fatica, ma non se l'ho salvata. È evidente che nulla potrà salvare questa. Mi volto verso il capanno per capire il motivo delle grida della gente, e quando mi giro di nuovo lei se n'è andata, tranne la sua impronta. So cosa bisogna fare. Devo ritagliare la sabbia con la sagoma del suo corpo, staccarla e seppellirla. Ma il mare si sta riavvicinando e so che, prima che io possa reagire, le onde laveranno via i contorni del suo corpo, la delicata curva della sua coda.
Al risveglio, mi venne in mente questa frase: i sogni, a volte, sono prove.
Mi tirai su nel letto, mi grattai le cicatrici sbiadite che si incrociano sul palmo della mia mano, e alle mie spalle balzò fuori uno squalo. Dovevo davvero fare qualcosa per quei muri. La camera era stata quella dei bambini, quando gli inquilini precedenti vivevano in questo appartamento, e le pareti erano ricoperte di acquerelli di creature marine: una medusa, una tartaruga, un barracuda, un pesce volante, un polipo, un pesce angelo, uno squalo, un cavalluccio marino e una sirena seduta in groppa a un diavolo di mare. Non potevo guardarmi nello specchio a tutta altezza senza che qualche creatura allungasse tentacoli, pinne, il muso o la coda verso il mio riflesso. Se l'immagine fosse stata sempre uguale, non sarebbe stato difficile farci l'abitudine, ma lo specchio era fissato all'anta dell'armadio, che si apriva e si chiudeva a ogni alito di vento, e gli angoli della stanza si spostavano anche mentre stavo lì ferma a guardarmi. Nonostante tutto, preferivo dormire in questa stanza che in quella padronale, dirimpetto a una moschea che, come mi aveva detto mia sorella, trasmetteva sermoni infuocati appena prima dell'azaan dell'alba. «Se dormi qui ti sveglierai di pessimo umore tutti i giorni» aveva detto Rabia.
Saltai giù dal letto, nuda, e mi infilai la vestaglia. Poi ricordai: vivo da sola. Mi scrollai di dosso la vestaglia, e per un attimo l'idea di tutte le persone sole che andavano in giro nude negli appartamenti vicini mi diede il capogiro. Ma una cosa simile la si può immaginare solo per un certo tempo, prima che intervengano i nostri organi di censura interni, a sollevarci da quelle immagini. Nel mio caso fu il pazzo del 3B, che avevo visto dalla finestra mentre faceva flessioni sull'orrenda moquette beige, a farmi cercare altre cose di cui riempirmi la testa.
Ma quali altre cose?
Entrai in cucina, ma tornai subito sui miei passi. La finestra non aveva tende. Meglio non dare spettacolo, e poi la mia presenza solitaria non si qualificava come colonia nudista.
Pochi minuti dopo ero di nuovo in vestaglia, a bere una tazza di tè e a domandarmi se potevo rubare il giornale del mattino davanti alla porta dell'appartamento vicino, quello di Rabia e di suo marito Shakeel. Avevo spiegato loro che non volevo abbonarmi – di questi tempi cosa mai avrei potuto trovare di interessante, nelle notizie? – ma non avevo preso in considerazione la pura e semplice noia di starmene da sola in un appartamento vuoto. Se le cose non fossero cambiate, avrei dovuto darmi allo yoga, o ai programmi televisivi del mattino. O a tutte e due. Contemporaneamente. Avrei dovuto mettermi a guardare i programmi di yoga del mattino.
Astuta Beema, pensai.
Mio padre e la mia matrigna non avrebbero preso il volo per Islamabad prima di sera, ma Beema, la mia matrigna, aveva comunque insistito perché mi trasferissi in quell'appartamento un giorno prima che ‘migrassero’, invece di passare un’ultima notte nella stanza che avevo occupato per tutta la mia vita. ‘Perché la casa sarà in disordine, con tutte le cose impacchettate’ aveva spiegato Beema, ma ora capivo: sperava che svegliandomi così, nel silenzio, mi sarei convinta a cambiare idea all'ultimo momento e a partire con loro, invece di restare a Karachi.
Mentre mi guardavo attorno in quel vuoto, dovetti ammettere che la sua speranza non era priva di fondamento.
Sei una donna adulta, mi dissi. Agisci di conseguenza!
L'aiuto arrivò dallo squillo di un telefono. Risposi con gratitudine, e una voce sconosciuta all'altro capo del filo disse: «Aasmaani Ingalab?»
Aasmaani Inqalab, il mio primo e il mio secondo nome, pretenziosi trisillabi che da molto tempo avevano esautorato il mio breve cognome da tutto ciò che non era un documento ufficiale. Una decisione di mia madre, il nome. Mia madre aveva preso tutte le decisioni importanti dei miei primi anni di vita; l'unica scelta che aveva lasciato a papà e a Beema era il compito di tirarmi su. Aasmaani Inqalab: rivoluzione celeste. Un nome che non dà neppure tanto l'idea dell'infanzia. Ma Beema mi sussurrava nell'orecchio «Azzurra», perché Aasmaani vuole anche dire azzurro. Una rivoluzione azzurra. Come il periodo blu di Picasso, ma senza la tristezza.
Picasso non ha mai avuto periodi, tanto meno mestruali, ribatté mia madre una volta che aveva sentito Beema. Gli uomini non sanno niente del dolore inevitabile.
Mi piacerebbe poter dire che era una battuta.
La voce sconosciuta chiamava dagli studi televisivi della Save the Date – affettuosamente noti come STD – per comunicarmi che il mio colloquio del pomeriggio col direttore era stato anticipato al mattino, e quindi se potevo andare subito agli studi.
«Mi presenterò in pompa magna» dissi.
«Pompa magna?» mi fece eco la voce, con una sfumatura di panico. «Oh, no, non credo sia necessario».
Una delle poche cose buone che ho ereditato da mia madre è la capacità di divertirmi con poco. Stavo ancora ridacchiando quando salii in macchina per il breve tragitto fino alla STD. E quando parcheggiai davanti all'edificio, di un giallo sconcertante, che era stato convertito negli studi pochi mesi prima, l'idea di incontrare la voce dello scherzo mi provocò un nuovo attacco di ridarella, che dovetti sopprimere mentre sgusciavo fuori dalla portiera del passeggero, per evitare il tombino aperto accanto al quale avevo parcheggiato, percorrevo il vialetto con le palme, davo il mio nome alla guardia giurata seduta su una sedia pieghevole davanti alla porta d'ingresso e venivo indirizzata alla reception.
Questa consisteva in una scrivania e una sedia vuota all'inizio di un lungo corridoio imbiancato di recente, che conduceva agli uffici, ad altri corridoi più piccoli e – in fondo – a un'imponente scalinata con corrimano in palissandro, che saliva e scendeva. Due ventenni in jeans e kurta a maniche corte cammina-vano nel corridoio; una domandava: «In che senso non vogliono inquadrature a due?», e l'altra, scuotendo la testa: «Sai com'è, yaar, le celebrità».
Mentre me ne stavo lì – ero stata vista, ma ero passata inosservata – in un shalwar-kameez con una dupata buttata sulla spalla, mi sentii improvvisamente vecchia. Avevano quella luce negli occhi, le due ragazze, che nasce dal sentirsi parte di qualcosa che è più grande di te. Avrebbero infuso cultura giovanile, pensiero progressista, prospettive multiculturali, cronache approfondite in un paese che fino a poco tempo prima disponeva soltanto di telegiornali manipolati dal governo. Il 2002 sarebbe stato ricordato come l'anno dell'esplosione della tv via cavo in Pakistan, e queste due ragazze erano al posto giusto nel momento giusto, facevano la storia. Per un attimo cercai di immedesimarmi con loro, di ricordare com'era sentirsi così pieni di speranza. Povere stupide, che invidia mi facevano.
Mi guardai attorno in cerca di qualcosa che non fosse più giovane e più alla moda di me, e trovai una frase in arabo dipinta sul muro alle mie spalle. Il verso ricorrente della sura al-Rahman, amata dai calligrafi per la varietà e l'equilibrio che la contraddistinguono.
Quale dunque dei benefici del vostro Signore negherete?
Quando mia madre – in uno dei suoi tentativi di indirizzarmi a un mestiere – mi aveva consigliato di imparare l'arabo per poter tradurre il Corano sia in inglese sia in urdu, in versioni prive di interpretazioni patriarcali, il Poeta aveva detto: «E tradurre la sura al-Rahman apposta per me».
«Perché vuoi sapere tutto delle fanciulle pie e belle che aspettano i fedeli in paradiso?» lo punzecchiò mia madre. «Vuoi sapere cosa ti perderai?»
Il Poeta scosse la testa. «No, non quella parte. ‘Ha creato l'uomo e gli ha insegnato a esprimersi. Il sole e la luna si muovono secondo un calcolo preciso. E si prosternano le stelle e gli alberi’. Voglio vedere se Aasmaani riesce a tradurla ancora meglio».
«È bella» riconobbe mia madre, «ma non dimenticarti degli avvertimenti sul giorno del giudizio che vengono dopo. Non è tutto ordine e adorazione».
Il Poeta tese le mani, come faceva sempre quando citava delle parole che lo commuovevano, come per soppesarle nei palmi. «’Quando si fenderà il cielo e sarà come cuoio rossastro, quale dunque dei benefici del vostro Signore negherete?’»
Il cielo come cuoio rossastro. Bastava quasi a farti desiderare la fine del mondo.
Una donna di mezza età, con un naso che cambiava personalità a metà della sua lunghezza, uscì da un ufficio e mi sorrise. «Sei qui per Boond?»
Scossi la testa, molto dispiaciuta. Boond era uno sceneggiato a puntate molto chiacchierato, piombato in una crisi profonda la settimana precedente, quando una delle protagoniste era stata licenziata, a sei settimane dalla messa in onda, per un'improvvisa allergia alla buganvillea che aveva bloccato le riprese in esterni. Si diceva che sarebbe stato necessario cancellare del tutto la serie, e non mancavano speculazioni sulla batosta finanziaria che la STD avrebbe dovuto sopportare, ma poi, con un colpo di scena stupefacente, un annunciatore della rete aveva rivelato, nei titoli di testa del telegiornale delle nove, che Shehnaz Saeed avrebbe ricoperto il ruolo della protagonista.
Stavo guardando il telegiornale al momento dell'annuncio e, giuro, ero rimasta a bocca aperta. Shehnaz Saeed! Soltanto se la parte fosse stata affidata al fantasma di Marlene Dietrich sarei rimasta ancora più di stucco, suppongo, ma solo perché la Dietrich non parlava l'urdu.
Shehnaz Saeed era stata la beniamina del palcoscenico e del piccolo schermo, un'attrice di straordinaria versatilità che si era ritirata all’apice della carriera, quindici anni prima, per ‘prepararsi alla maternità e dedicarsi all'educazione dei figli’ che intendeva avere dall'uomo con cui si era appena sposata. A quei tempi, il figlio che aveva avuto in prime nozze faceva il diavolo a quattro all'università, raccontando a chiunque gli desse ascolto che le madri avrebbero dovuto starsene a casa, per evitare che i loro bambini diventassero come lui. Non avevo mai incontrato il primogenito, ma lo detestavo profondamente per aver messo Shehnaz Saeed nella condizione di scegliere fra la recitazione e la famiglia. La prima volta che l'avevo vista recitare in teatro avevo più o meno undici anni, in una traduzione in urdu del Macbeth fatta dal Poeta, e giuro che fra il pubblico non c'era uomo, donna o bambino che per lei non avrebbe conficcato un pugnale nel cuore del re. Aveva finito per non avere figli dal secondo marito – le malelingue dicevano che faceva coincidere i suoi frequenti viaggi di lavoro all'estero con i periodi fertili della moglie – eppure, malgrado le voci che giravano di tanto in tanto sulla sua intenzione di tornare a lavorare, non aveva fatto nemmeno un cammeo dai tempi del suo canto del cigno, un monologo in cui aveva recitato sei parti diverse; un solo spettacolo senza repliche, esaurito ancor prima che i biglietti fossero messi in vendita (per lo sdegno dei principali quotidiani).
Era stato per accertarsi che l'annunciatore non si fosse fatto di qualche droga che Beema aveva telefonato a una vecchia compagna di scuola, il cui cognato era il direttore della STD; alla fine della telefonata Beema non solo aveva avuto conferma della notizia, ma mi aveva anche organizzato un colloquio di lavoro agli studi. Mi ero appena licenziata da una compagnia petrolifera e non avevo ben chiaro cosa volevo fare. Così decisi che tanto valeva assecondare i progetti di Beema.
La donna col naso fuori dal comune mi voltò le spalle per fermare con un gesto un uomo dai capelli impomatati. «È un disastro» gli disse. «Dobbiamo riscrivere tutta la parte».
«Ne stanno facendo tutti una tragedia» rispose lui. «È soltanto un'attrice finita».
La donna si voltò di scatto, disgustata, e tornò a guardarmi. «Tu. Dimmi una cosa. Hai intenzione di guardare Boond?» «Come tutti, no?»
«Okay, stai a sentire. Questa parte, la parte di Shehnaz Saeed, è quella della ex moglie di un ricco industriale. Hanno divorziato da anni e lui sta per risposarsi. La prima scena della serie è la proposta di matrimonio. La nuova moglie, che è molto più giovane di lui, non si fida per niente della ex, ma senza ragione. Okay? Insomma la faccenda è questa: alla fine la ex diventa importante, ma nel primo episodio il ruolo dev'essere assolutamente marginale. Cosa ne pensi del fatto che Shehnaz Saeed torni in televisione con un ruolo marginale? Non mi rispondere! Mi è bastato vedere la tua faccia». Si rivolse all'uomo impomatato. «Guarda qui. Guarda la sua espressione». Mi passai le mani sulla bocca e sulla fronte per assicurarmi che i miei muscoli facciali non facessero nulla di cui ero inconsapevole, tuttavia mi sembrarono rilassati. «Non posso farcela. Tutte le idee che mi vengono per la sua entrata in scena non funzionano. Le aspettative di tutto il paese pesano sulle mie spalle strette e ossute».
La donna smise di parlare e si voltò di colpo verso di me.
«Ho capito solo adesso chi sei» disse. «Ti spiace se...?» Prima che potessi aprire bocca fece un passo avanti e con una mano mi coprì la parte bassa del volto, in modo da lasciare visibili solo gli occhi – che sono grigi, con uno squarcio di verde in mezzo –, la fronte e i capelli neri e lisci.
«Stupefacente» disse. «Non è stupefacente?»
La cosa stupefacente era che in Pakistan le donne mi davano un'occhiata e si sentivano in diritto di trattarmi con una familiarità immediata, come se fossi stata io quella che si era seduta con loro nella cella di una prigione, o accucciata con uno striscione fra le mani sul vagone di un treno affollato.
La porta di un ufficio a qualche metro di distanza si aprì, e ne uscì un uomo sui trentacinque anni. Mi vide e impallidì di colpo. Mi allontanai dalla donna, rivelando il mio naso lungo e la mascella decisa, e l'uomo batté le palpebre, si coprì gli occhi con una mano e vacillò.
«Chiedo scusa» mi stava dicendo la donna. «Sono stata arrogante».
Ma ormai non le prestavo più tanta attenzione. Conoscevo quell'uomo, come lui conosceva me. Anche se Beema non mi avesse detto che lavorava qui, e che rappresentava il motivo per cui Shehnaz Saeed aveva accettato la parte, credo che l'avrei riconosciuto immediatamente. Quegli occhi curvi usciti da una miniatura Mughal, quella bocca sensuale. Strano che risultassero così mascolini sul suo volto, anche se lo identificavano chiaramente come il figlio della donna più bella del paese. Con la sua cravatta elegante e la camicia costosa non era per niente come me l’ero immaginato, il teppista che quindici anni prima aveva costretto sua madre a ritirarsi.
Vide che capivo chi era, e sul suo viso comparve un'espressione che riconoscevo: un miscuglio di panico e modestia che si accompagnava all'ammissione del proprio fallimento.
Si fece avanti e tese la mano. «Mir Adnan Akbar Khan» disse in tono scherzosamente ampolloso. «Ma gli amici mi chiamano Ed».
«E raro che i soprannomi vadano d'accordo con l'amicizia» dissi mentre gli stringevo la mano e tentavo di non rivelare il mio stupore nel ritrovare in un estraneo un'espressione che consideravo soltanto mia. Non sembrava aver intenzione di lasciar andare la mia mano, e quando sfilai le dita dalla sua stretta mi domandai se si trattasse di un gesto lusinghiero o sordido. Era uno di quegli uomini che stanno a metà strada fra il sexy che ti seduce e il ripugnante.
E tutto per quegli occhi da Mughal. «Io mi chiamo Aasmaani Inqalab. Lasmania Incallappia, per gli amici».
Rise – una risata abbagliante – e mi fece cenno di rientrare con lui nel suo ufficio. «Ti stavamo aspettando».
(…)

Mi è capitato una sola volta di assistere alla grazia, e non è stato a teatro. A Karachi ho sentito Samina Akram, l'icona del femminismo, che parlava alla folla. E nell'interazione fra lei, il pubblico e una qualche presenza inesprimibile si è verificata la grazia. Io ero tra il pubblico, e posso dire senza ombra di dubbio che è stata quella la mia interpretazione più importante: il semplice fatto di trovarmi lì in quella folla di centinaia di persone, che hanno creato l'atmosfera che le ha permesso di essere se stessa fino in fondo. Non penso che proverò mai più niente di simile.
Era quella la massima forma di crudeltà di mia madre. Ti permetteva di godere della sua grazia per un tempo sufficiente, poi se ne andava via, e ti lasciava nella certezza che non avresti mai più provato niente di simile, e che sicuramente non saresti stata in grado di riprodurlo tu stessa. C'è poco da stupirsi se mio padre non è più riuscito a guardarla dritta negli occhi dopo il divorzio: quando ripenso a loro due nella stessa stanza c'è sempre qualcosa di periferico che lo distrae da lei, un tramonto, una macchiolina di vernice, una formica. Pensavo che dipendesse dal fatto che odiava guardarla, ma fu solo dopo che se ne fu andata per l'ultima volta che cominciai a domandarmi se non temesse di imbattersi di nuovo fugacemente nella sua grazia. Erano stati sposati per undici mesi; lei lo aveva lasciato dopo quattro mesi, ma aveva acconsentito a rimandare il divorzio fino a dopo la mia nascita.
«Che cosa ti ha dato più fastidio» domandai a papà una volta, in una delle rare occasioni in cui uno dei due aveva nominato mia madre all'altro, «che ti lasciasse o che avesse deciso di sposarti?»
Lui rispose: «Se non mi avesse sposato, non avrei te. Se non mi avesse lasciato, non avrei Rabia».
Immagino che avesse ragione a eludere la domanda. Anche prima che se ne andasse, mia madre era una presenza taciuta, che stava fra papà e me. La sua disapprovazione, e il mio disapprovare la sua disapprovazione facevano del silenzio l'unica possibilità che ci rimaneva per affrontare la questione.
Andai a prendere la grossa borsa che mi ero portata in ufficio quel giorno e tirai fuori la busta indirizzata a me che vi era rimasta dentro, ancora chiusa, dal mattino. Era di Shehnaz Saeed. «Grazie per il tuo contributo al mio personaggio» c'era scarabocchiato sulla busta. Una delle ventenni della STD, che era al banco della reception quando era arrivato il pacchetto, era quasi svenuta nel rendersi conto di quanto poco divistico fosse l’atteggiamento di Shehnaz Saeed nei confronti dei ‘collaboratori’. Io non ne ero tanto convinta. Di donne leggendarie me ne intendevo abbastanza. Conoscevo l'ardore con cui desideravano non essere trattate come leggende, ma soltanto da chi ritenevano all'altezza di una simile impertinenza. Io ero all'altezza, agli occhi di Shehnaz Saeed. Non importava che non ci fossimo mai incontrate.
Nonostante le implorazioni della ventenne non avevo aperto la busta; così facendo mi era parso di rispettare un accordo – non sapevo bene su cosa –, perciò avevo tenuto a freno la curiosità per tutte quelle ore.
Adesso, però, aprii la busta e ne estrassi il contenuto: un foglio di carta, piegato accuratamente, con un post-it giallo appiccicato sopra. Staccai l’appunto e lo lessi: «Mi piacerebbe tanto conoscerti. Telefonami, per favore. Nel frattempo, quello che c'è scritto su questo foglio ti dice qualcosa? Shehnaz».
Aprii il foglio, lo appoggiai sul tavolo e ne lisciai le pieghe con il palmo della mano. Una serie incomprensibile di lettere, scritte in calligrafia, riempiva la sommità della pagina.
Dtta rdjd ndljina a Sikdlana.
Quella era la prima riga. E il seguito non era molto più sensato.Perché una persona che non conoscevo avrebbe dovuto spedire una cosa simile, aspettandosi che per me significasse qualcosa?
Guardai il foglio un'altra volta, poi lo spinsi via. Una lingua straniera, senza dubbio. Se vivi tutta la tua vita in una città di mare finisci per abituarti a fogli di carta con scritte indecifrabili usati come cartocci per i pinoli tostati, o anche solo spostati dal vento in un isolato vuoto, usato come discarica. Shehnaz Saeed mi credeva forse una linguista?
Mi alzai, ed ero quasi arrivata in camera mia quando i neuroni addormentati del mio cervello si svegliarono di botto.
Il mio ex chiama l'inverno ocra ‘autunno’, quando in pace ascoltiamo fughe jazz bevendo whisky nel buio di velluto.
Mi voltai. I piedi faticavano a staccarsi dal pavimento nudo, il mio corpo reagiva pigramente. Allungai la mano, presi il foglio.
Dtta rdjd ndljina a Sikdlana.
Le lettere sgusciarono fuori dal loro travestimento — all'inizio esitanti, poi tutte insieme, in un'onda turbinante di abbandono — e si trasformarono in parole:
Oggi sono tornati i Favoriti.


Il bordo del tavolino mi entrava nella pelle, pochi centimetri al di sotto del gomito. Alzai il braccio e osservai quel segno obliquo. Da vicino, e fuori contesto, questo solco che attraversava un riquadro di pelle avrebbe potuto essere, con la stessa probabilità, il letto asciutto di un fiume in un deserto, o un filo di linfa nella venatura di una foglia.
Passai il dito sulla grinza, e restituii l'attenzione alle quattro righe di testo sulla pagina. Dopo tutti quegli anni, era di una facilità sorprendente leggere il codice, leggerlo come se fosse di per sé una lingua, anche se, visto quello che riuscivo a capirci, avrebbe potuto essere albanese. Strappai una pagina da un bloc-notes che trovai sul tavolo, e la schiacciai contro le parole criptate. La calligrafia nera spuntava da sotto il foglio, come se a nasconderla non ci fosse altro che una buccia di cipolla.
Presi un pennarello e ricalcai quelle lettere attorcigliate sul foglio soprastante. Mi ci volle più tempo del previsto, per seguire ogni linea e ogni volteggio di quella grafia intricata. Cominciai a pensare che era come fare la copia di un dipinto astratto, ogni tratto del pennino a scolpire la mia incapacità di comprendere come una mente potesse concepire quelle combinazioni di forme. Cosa speravo di ottenere, muovendo la penna dentro e fuori da quei ghirigori? Che il solo fatto di seguirli mi avvicinasse a chi aveva scritto quelle frasi, mi consentisse di infilarmi fra le parole e di capire le intenzioni di chi le aveva scritte su quel foglio?
Cosa speravo di ottenere? Era una domanda che mi seguiva da molto tempo.
Misi giù la penna.
A parte me, chi conosceva il codice? Solo mia madre e il Poeta. E il Poeta era morto da sedici anni. Era stato ucciso, o almeno così si diceva, da un'agenzia governativa che temeva il combinarsi della sua notorietà nel paese con la sua reputazione a livello internazionale, per quanto il governo militare che era al potere in quel periodo avesse respinto l'accusa, decretando una giornata di lutto nazionale per quel «fiore del nostro suolo». In tutto il paese i gruppi di opposizione al governo di ogni sfuma-tura di colore avevano boicottato la giornata di lutto, per annunciarne un'altra (nello stesso giorno), in onore di quella «voce della resistenza».
Naturalmente c'era qualcuno convinto che non fosse mai morto. L'arte di raccontare storie, tanto radicata in questo paese, si era trasformata – in tutti gli anni di malgoverno e di oppressione – nell’arte di inventarsi teorie cospirative, l’una più elaborata dell'altra. Perciò, quando morì il Poeta, bastarono poche ore perché questi tessitori di storie producessero la loro versione di quanto era accaduto. C'erano variazioni fra un racconto e l'altro, ma la sostanza era la stessa: quel povero cadavere torturato, dicevano, era un sosia, e i lineamenti che non corrispondevano a quelli del Poeta erano stati sfregiati e svuotati. Dove fosse veramente il Poeta, e perché qualcuno avesse dovuto simularne la morte erano interrogativi più complessi, eppure – a poche settimane di distanza dal funerale – quando i teorici della cospirazione cominciavano a riconoscere l'illogicità di mettere in scena una morte, quando un assassinio vero e proprio sarebbe stato più semplice, il medico che sosteneva di aver identificato il corpo morì in un incidente d'auto. Dopo di che tutte le storie nate fra un bisbiglio e una forma perversa di canone a più voci tornarono alla luce.
Mia madre, però, non accettò mai l'idea di una morte simulata, quindi nemmeno io ci avevo mai creduto. Perché proprio lei avrebbe dovuto farsi beffe di una trovata simile, se avesse contenuto anche solo un barlume di verità?
Se solo ci avesse creduto, forse la speranza le avrebbe consentito di aggrapparsi al suo stesso temperamento, invece di lasciarlo andare alla deriva, come una vedova che butta a mare tutte le sue cose durante la veglia del feretro.
Alzai di nuovo il foglio dal tavolo. Da che distanza lo stavo osservando? Quanto tempo fa era stato scritto?
Molto tempo fa. Per forza. Quando si erano appena inventati il codice. Dovevano pure essersi esercitati, no? Ripresi in mano il faldone di Rabia, feci ancora una volta passare i ritagli di giornale finché trovai quello che stavo cercando. Un'intervista al Poeta, pubblicata per la prima volta nel 1971, l'anno in cui ero nata io, e ristampata poi nel 1996, nel decimo anniversario della sua morte.

(…)

In tutte le sue poesie, è questa l'unica metafora a cui ritorna sempre: l'assenza dell'Amata è l'inferno, è la prigionia. E quell'assenza alimenta l'amore, finché lo struggimento del prigioniero divampa. A volte l'Amata è una donna, a volte la democrazia, a volte la gioventù sognata. E invariabilmente, la separazione è soltanto la catapulta che spinge a un nuovo livello di amore.
Ogni volta che veniva imprigionato, ogni volta che lui e mia madre erano costretti a separarsi, lui le scriveva – in un tono fra il tenero e l'ironico – di come era immerso in quella metafora. In parte perché ci credeva; in parte perché avrebbe fatto qualunque cosa pur di risparmiarle un dolore. Quel suo grande cuore: non avrebbe mai scritto di dita spezzate o di amore che sgusciava via, nemmeno nella più remota ipotesi che lei leggesse quelle parole.
Come avevo potuto essere così cieca?
Ed l'aveva capito. Aveva capito che l'aiuto più grande, per il suo inganno, non veniva dalle lettere del Poeta a Rafael o dalle storie raccontate da mia madre. Veniva dal mio desiderio di credere. Perché, di colpo, mi ero convinta che le lettere fossero autentiche? In quale momento si era fatta strada la decisione? Mi chinai in avanti, in modo da toccare con la fronte la raccolta di poesie, come se fosse un tappeto di preghiera. Era successo nell'ufficio dell'Archivista, con quei ritagli di giornale a dirmi come era morto il Poeta. Affronta la realtà, mi avevano detto quei ritagli, oppure convinciti che non è stato lui a morire. E io avevo scelto la seconda opzione. Avevo preferito credere a una vita implausibile, piuttosto che a una morte intollerabile.
Proprio come avevo fatto con mamma.
Alzai la testa e chiusi il libro.
Mia madre soffriva di una grave forma di depressione. Per più di due anni si è rassegnata all'idea, finché, incapace di credere alla possibilità di una guarigione, si è uccisa. Pronunciai le parole fra me e me, prima piano, e poi ad alta voce. Sembravano prive di significato.
Così mi alzai dal letto e andai in soggiorno, dove papà stava tagliando con cura una mela in otto fette, e leggeva uno dei libri che Shehnaz Saeed mi aveva spedito per corriere la settimana prima.
«Mamma si è uccisa perché era depressa e non credeva di potersi riprendere» dissi.
Papà si tolse gli occhiali, mise da parte il libro e alzò gli occhi su di me. «Sì».
Mi sedetti accanto a lui sul divano. Lui prese una fetta di mela dal piatto e me la porse. Aveva l'aria di aspettare che dicessi qualcos'altro, ma io fui sopraffatta da una curiosa sensazione di piattezza, come se ogni metafora fosse scappata via, e non restasse altro che un irriducibile, inconfutabile fatto.
«Perché ci hai messo tanto ad accettarlo?» disse alla fine, e non senza esitazione. «Pensavi che davanti alla sua morte avresti reagito come lei alla morte del Poeta?»
Scossi la testa lentamente.
Tutto ciò che mia madre aveva fatto durante i miei primi quindici anni di vita, e che gli estranei consideravano segno del suo non essere una buona madre – il suo andarsene continuamente, ogni volta che seguiva il Poeta in un'altra città o in un altro paese; ogni saggio della mia scuola che perdeva perché era in prigione, o a un comizio – al tempo avevo perdonato, compreso, ne ero persino andata fiera. Queste cose potevano essere prese come segni della sua forza – forza nell'amare, nel suo essere così risoluta, nel credere nella mia capacità di capire perché non poteva essere una donna comune. Le perdonavo tutta la sua forza. Ma non potevo vedere il suo crollo per ciò che era, perché quello, per me, sarebbe stato un segno di debolezza, e l'avrei considerato un tradimento.
«Non ero disposta ad accettare che fosse umana, papà. Non ero disposta ad accettare che potesse spezzarsi».
Ecco, tutto qui: una piccola cosa, che tuttavia aveva definito ogni aspetto della mia vita. Era la conclusione da cui ero partita quando avevo cercato di capire la sua scomparsa, e da quella ero partita a ritroso, interpretando e reinterpretando le mie idee del mondo per dare alla conclusione una parvenza di plausibilità. Non mi ero fermata a considerare l'idiozia di quanto stavo facendo, nemmeno quando l'unica maniera per salvaguardare il mito da me creato era mettere a repentaglio le cose che le stavano più a cuore: la sua fede nell'attivismo e il suo amore per me.
«Il suicidio è una forma di diserzione, secondo te?» Nel dirlo mi tese la mano.