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‘54, Un anno di storia e romanzi





lunedì 19 gennaio 2004 leggono Giorgio Sandrolini e Mirco Dondi
Protagonista del romanzo è un anno. Il 1954 raccontato dai Wu Ming è infatti un anno topico, crocevia di avvenimenti “storici” e di vicende quotidiane, di macro e microstoria.
Si tratta di un momento importante, per quanto dimenticato, lontano 50 anni, un tempo in cui la televisione cominciava a trasmettere e lo faceva per pochi fortunati (?). 
In sintesi:
“Che anno convulso. Un anno che cambiava faccia al mondo.
La nascita del Kgb. La conferenza di Berlino. Il riarmo della Germania e la sua adesione alla Nato. La sconfitta dei francesi in Indocina e la divisione del Vietnam. Tito. La rovina di McCarthy. Tito e Cary Grant. Esperimenti nucleari nei deserti e in mezzo agli oceani. La fine del ‘dopoguerra’”.

Brani tratti da Wu Ming, 54, Torino, Einaudi 2002
I titoletti fra parentesi quadre sono una redazione di Giorgio Sandrolini e Mirco Dondi

[La Storia e le storie: dopo una morte prematuramente annunciata del romanzo]

[1 La meglio gioventù]

[Uno spaccato di vita bolognese degli anni 50. I giovani sono sempre gli stessi].

[Il ballo al Pratello, pp. 50-53]

L’ingresso alla sala del Pratello costava trecento lire, ma Pierre e i suoi amici entravano gratis, perché c’era gente che veniva apposta per vederli, quando si spargeva la voce di dove avrebbero ballato.
Con il Trio Bonora c’era una buona intesa. I musicisti sapevano quali erano i pezzi preferiti dai ballerini e glieli suonavano volentieri. Il primo era sempre una mazurka, non troppo veloce, per scaldarsi. Pierre attaccò in coppia con Brando, e a Sticleina toccò volteggiare con Gigi.
La mazurka riempì la pista, comprese le donne, che di solito non reggevano i tempi vorticosi di quelle danze. Al secondo e terzo giro, il ritmo cominciò ad aumentare.
L’organetto di Nino Bonora, sostenuto da contrabbasso e chitarra, pareva non doversi fermare più. Al sesto pezzo in scaletta, rimasero in pista solo i moschettieri del bar Aurora. Dai tavoli si alzavano grida di incoraggiamento e applausi per le evoluzioni più complicate. Sticleina, accentuando il suo ballare “da donna”, si mise a sculettare.
Terminato il pezzo, il chitarrista Aroldo Trigari si avvicinò al microfono per annunciare:
- Tenetevi forte adesso, questa polka è un vero terremoto!
Bonora attaccò su un tempo velocissimo e i quattro filuzzi seguirono la musica ognuno per sé, incrociandosi e ricombinando le coppie a ogni giro. Infilarono quattro figurazioni diverse una dietro l’altra, e alla quinta tutta la sala ebbe un unico respiro, le ragazze stavano aggrappate a i tavoli per paura di essere ribaltate tanta era l’energia con cui Robespierre Capponi eseguiva il famoso frullone a chinino, un modo di ballare in cui rivaleggiavano soltanto lui e Neri Raffaele, detto Felino, del Borgo San Carlo.
Il terremoto polka era l’ultimo pezzo della prima sessione. Dopo quello, l’orchestra attaccò un valzer molto tranquillo. La parte centrale della serata, per gli appassionati, era la più vicina al liscio romagnolo che alla vera filuzzi. Tuttavia nessuno si lamentava, perché era l’occasione di invitare a ballare qualche bella fanciulla, e la maggior parte della gente andava lì per quello.
- Andiamo all’attacco? – Chiese Gigi, sistemando la cravatta dopo tutto quel ballare.
Pierre si asciugò la fronte con il fazzoletto. – Fammi almeno prender fiato. Beviamo un bicchiere, poi vediamo.
- Te sta’ pur lì, allora. Noi andiamo in avanscoperta.
Gigi e gli altri sapevano bene che gli occhi neri di Capponi piacevano a più di una ragazza e preferivano precederlo nella scelta della ballerina.
- Ballate, signorina? – si inchinò Sticleina davanti a una moretta prosperosa, con fare da conquistatore navigato.
- Sai ballare anche da uomo?
- Certo, e non solo quello.
Pierre restò al bancone per almeno tre o quattro giri a sorseggiare un vermouth. Sapeva bene che c’era una ragazza che aspettava soltanto lui. Anche adesso, mentre ballava con un tizio, gli faceva gli occhi dolci a ogni giravolta. Tra l’altro, era quella che si muoveva meglio di tutte. Pierre pensò che doveva essere brava anche alla filuzzi. Finito il ballo, fece cascare la sigaretta e la schiacciò sotto la scarpa. Attraversò la pista come piazza Maggiore una domenica mattina, tenendo la mano nella tasca dei pantaloni, sotto la giacca, più Cary Grant che mai. Arrivato di fronte alla ragazza, le offrì il braccio e la invitò con lo sguardo e il sorriso appena accennato.
Dopo la prima piroetta chiese: - Come ti chiami?
- Bernardi Agnese.
- Stai qui nel Pratello?
- Sì, qua vicino.
A Pierre tornò in mente la regola. Se invitavi a ballare una ragazza di un altro quartiere, dopo il primo giro la dovevi mollare, e lasciarla stare per il resto della serata. Al secondo ballo era già “provarci”.
Così, quando la musica si interruppe, Pierre fece per congedarsi. Proprio in quel momento, per mossa studiata o per caso, alla ragazza si sfilò una scarpa. Appoggiandosi al suo cavaliere per sistemarla, Bernardi Agnese, questa volta sì, dette proprio l’impressione di metterci più del necessario. L’orchestra partì mentre erano ancora avvinghiati, un pezzo veloce che presagiva il gran finale filuzziano. La ragazza del Pratello cominciò a muoversi a tempo di musica e Pierre, dopo una prima esitazione, scordò la regola e prese a dimenarsi anche lui. Salti, strisciate, evoluzioni e piroette: la coppia spiccava tra tutte per tempismo e agilità. Tutto intorno il brusio cresceva. Lei sorrideva, era carina, e se la cavava davvero bene anche sul ritmo più veloce. Pierre la mise alla prova e lei rispose a tono. Si ritrovarono al terzo ballo senza accorgersene, per il puro piacere di ballare. Per lui era l’occasione di provare i ritmi più rapidi con una ragazza invece che col solito Brando. Con tutta l’amicizia del mondo, era un’altra cosa.
Poi, oltre la musica, una voce maschile spiccò tra le altre, rompendo la magia della danza: - Adesso basta, io gli spacco la faccia!
Pur concentrato sul ritmo, Pierre percepì che qualcosa non andava, che il brusio montante non era solo di ammirazione e che la frase appena risuonata non prometteva nulla di buono. Sfruttò una piroetta per girarsi a guardare. Un tipo tarchiato si liberava proprio in quel momento dalla stretta di due persone e gli veniva incontro con aria minacciosa. Il re della filuzzi prolungò il volteggio di un giro e mezzo, e gli finì proprio addosso, sfruttando l’effetto sorpresa e la rincorsa per rovesciarlo a terra. Le cose precipitarono. Brando si prese un pugno sull’occhio senza vedere chi glielo mollava, Gigi incravattò da dietro un bassettino, mentre Sticleina era già per terra a strattonarsi con uno molto più grosso di lui. Immancabili, alcuni pacieri cercavano di calmare gli animi, di mettersi in mezzo, di trattenere i più agitati.
- Dài, ragazzi, che non è il caso!
- Va’ là, siam qua tutti per divertirci.
- Bòna, Pirein, che Pompetti chiama i pulismani!
Gli spintoni e le botte non durarono più di dieci minuti, il tempo sufficiente, per i più agitati, a dare e ricevere almeno un cazzotto, necessario invece, per i tranquilli, a convincere i moschettieri del bar Aurora a prendere la via di casa e quelli del Pratello a mettersi buoni.


[2 La Storia]

[Si affaccia la grande storia, l’intrigo, la politica; si nota il passaggio dal micro al macro, dal quotidiano all’irragiungibile, anche se il romanzo è proprio giocato su questi incroci apparentemente impossibili, in realtà tanto reali quanto normali:]

Mosca, Palazzo della Lubjanka, 1 aprile, [pp. 204-208]

Il generale Ivan Aleksandrovic Serov saggiò la poltrona del grande ufficio. La luce del pomeriggio filtrava tenue dalla finestra, la primavera moscovita stentava a imporsi sul gelo: era stato un inverno duro. {…}
Osservò i quadri alle pareti. Lenin fissava un punto indefinito all’orizzonte. Lo sguardo determinato ispirava una fiducia profonda nelle sorti umane. Aveva visto il Piccolo padre una volta sola, quando a diciott’anni aveva marciato col suo reggimento sulla Piazza rossa.
I maggio 1922: girò la testa verso il palco, insieme a tutti i compagni, e lo vide, piccolo, col colbacco a proteggere la testa calva, affiancato dal traditore Trotzky e dal compagno Stalin.
Ora Stalin lo guardava dall’alto della parete di fronte, con espressione “divertita”. I baffi nascondevano la bocca, impossibile capire se stesse sorridendo, ma a lui sembrava di sì: il sorriso serafico, saggio, di chi ha già capito tutto. Gli tornò in mente il giorno del funerale, le masse urlanti, le donne che si strappavano i vestiti e si percuotevano la testa.
Pianse anche lui. La prima volta dopo anni. Nemmeno a Berlino nella primavera del ’45, alla vista della bandiera rossa issata sul Reichstag, aveva versato una lacrima. Eppure si era commosso. La vittoria coronava anni di stenti, di fame e di morte. Avrebbe portato con sé quel momento, la grande bandiera che garriva al vento, fino alla fine dei suoi giorni. Anche il funerale di Stalin. Senso di perdita infinito, vago senso di panico: la Guida non c’era più. Quel giorno la domanda gli salì dal fondo della mente, la stessa dei membri del Comitato centrale: “E adesso?”
“Adesso”. Il generale Serov capì subito cosa sarebbe successo. Soltanto i più forti sopravvivono. E i pazienti. Lezione appresa combattendo contro Hitler: un buon generale deve sapere quando ritirarsi, lasciare che il nemico avanzi, si stanchi, quindi colpirlo senza pietà fino all’annientamento. Quel giorno, mentre fissava il feretro di Stalin, scacciò le lacrime e si mise a pensare.
Da allora era passato soltanto un anno, necessario a regolare i conti e decidere chi avrebbe proseguito e chi sarebbe rimasto al palo.
La guerra di successione si era risolta in pochi mesi. Il “delfino di Stalin” Malenkov contro il “grande amico di Stalin” Berija. Lui aveva saputo attendere e scegliere al momento giusto. Chi si era fatto avanti per sbaragliare gli avversari e vincere a mani basse, era rovinato nel fango. Stesso errore di Hitler: blitzkrieg, guerra lampo. Una strategia che sul lungo periodo non paga. Ogni russo che si rispetti dovrebbe saperlo.
Berija pensò di cambiare tutto il ministero degli Interni, calpestando il cadavere ancora caldo di Stalin. Pazzo maledetto. Fin dal primo momento, quando fu convocato per ricevere le nuove consegne (“Niente più epurazioni di ebrei dal Partito, niente più processi, qui bisogna rifare tutto da capo”), il generale capì che quello stolto non sarebbe andato lontano. Si mise da parte a guardare i lupi sbranarlo. A capo del branco trovò il suo uomo, il più astuto, quello che avrebbe fatto a pezzi tutti gli altri: il futuro segretario del Partito, Nikita Kruscev. Il generale non ci pensò due volte a entrare nella cospirazione per eliminare Berija e la cosca “caucasica”. Questione di sopravvivenza.
Facile immaginare che il vice di Berija agli Interni, Sergei Kruglov, si sarebbe venduto per due rubli pur di prendere il posto del capo. Ma il generale non si affidò a lui per restare in sella. Era certo che prima di entrare in azione, Kruscev si sarebbe assicurato l’appoggio dell’esercito. Quindi mandò un segnale esplicito al maresciallo Zukov, viceministro della Difesa e vecchio sodale dei tempi di Berlino. Entrò così nella cerchia dei cospiratori.
In giugno Kruscev si guadagnò l’appoggio dei Malenkov. La fine del “caucasico” era vicina.
Quando Kruscev diede l’ordine di arrestare Lavrentij Pavlovic Berija, con le accuse di “degradazione morale” e “spionaggio al servizio di potenze straniere”, la polizia moscovita insorse in sua difesa. Il maresciallo Zukov mandò i carri armati in città per riportare l’ordine. Quel giorno si sfiorò la guerra civile. Il generale rimase nel suo ufficio al Ministero, aspettando il compiersi degli eventi.
Il traditore Berija venne giustiziato e al generale risultò evidente che nel giro di pochi mesi Kruscev avrebbe preso tutto il piatto. All’indomani dell’eliminazione dei Berija, Kruscev consegnò il Ministero a Kruglov: la ricompensa per aver fottuto il capo. {…}


[3 Walterùn]

[L’incrocio tra storia di cui i vecchi sono stati partecipi, civiltà e capacità di creare la cittadinanza senza barriere:]

Bologna 4 ottobre, giorno di san Petronio, [pp. 641-644]

In fondo alla strada, sotto i tigli che perdono le foglie, compare una bici.
– Walterún, Walterún!
Si ferma. Ha l'aria stizzita.
– Sai cos'è successo a Capponi?
– Capponi? Non è a Imola? Con Garibaldi, Bortolotti, Melega. C'erano i funerali di quel partigiano famosissimo, com'è che si chiama?
– Bob! È vero! Luigi tinti detto Bob. Walterún, giusto te puoi non conoscerlo, che la guerra l'hai fatta a Milano! {…}
Appena Walterún ci saluta, però, la Gaggia controlla che si sia allontanato e ci raduna tutti, ormai saremo una ventina, si piega in avanti, e attacca a parlare un po' sottovoce, come se confidasse un segreto:
– Sentite, forse è meglio che a Walterún ci troviamo un altro nome, sapete? – facce stupite, sguardi, qualche «perché» buttato nel mezzo. – L'altro giorno è venuto a portarmi delle ciabatte da aggiustare. Era in vena di confidenze, e mi ha raccontato bene quella storia di lui, a Milano, e la gente che lo salutava, « Walterún, Walterún», e lui che ci resta male. Dico: ma perché te la prendevi? E lui, insomma, m'ha spiegato che in milanese, Walterún non vuol dire proprio Walterone, come credevamo noi.
– E cosa vuol dire, scusa?
– Vuol dire «Guarda il terrone», il marocchino, il meridionale, come diremmo qui, e a lui questa cosa non è mai piaciuta, era una presa in giro, capito? Allora, non so, magari se lo chiamiamo «Walterone», è più contento, così, senza farglielo tanto notare.
Chi dice va bene, chi è convinto che così finiamo per fargliela pesare di più. Zambelli Cesare sostiene l'immutabilità dei soprannomi: lui si chiama Budlan, budellone, e nemmeno quando ha perso venti chili ci siamo sognati di ribattezzarlo. Non a casa, sei mesi dopo stava di nuovo sul quintale e passa.
Mentre ci interroghiamo sull'origine di alcuni nomignoli misteriosi, arrivano Capponi e il resto della banda, Garibaldi, Melega, Bortolotti e Bottone.
Qualcuno si lamenta per la chiusura a sorpresa, senza nemmeno un bigliettino, un avviso. Capponi ribatte che da quando Benassi glien'ha venduto metà, anche lui può decidere se il bar deve restare chiuso. E oggi, altro che bar, bisognava andare a Imola e poche storie.
– Garibaldi, te che sei bravo in queste cose, quanta gente c'era?
– Almeno quindicimila.
– E anche qualcosa di più. C'erano i sindaci di tutti i comuni della montagna, c'era Bulow, c'erano Teo e Piccolo che portavano la bara, c'erano sezioni dell'Anpi da tutta l'Italia. C'era Bergonzini, che ha fatto l'operazione pubblica insieme al sindaco, c'era tanta gente che dentro il cimitero del Piratello non ci si entrava, c'era la banda, cos'è che suonavano, pure?
– L'Eroica, di Beethoven
– Ecco, proprio quella. E Bob l'hanno seppellito insieme agli altri caduti della Trentaseiesima, in un punto che c'è anche Andrea Costa e tutti i migliori cittadini di Imola.
Bottone si stacca dal gruppo e scuote la testa: – Quasi è un bene che è morto così presto, guarda.
– Be', Bottone, 'sa dit?
– Passavano altri dieci anni e tanti saluti, chi se lo ricordava più il Comandante Bob?
– Ti sbagli, Bottone, – lo corregge Garibaldi. – È più facile che ti dimenticano mentre sei vivo, quando ancora puoi dare fastidio, poi quando muori, alé, torni a essere un grande eroe, l'occasione per tirare fuori le bandiere, cantare un po', e raccontare che lo spirito della Resistenza non muore mai. È così che funziona, dammi retta.



[4 Il 1954: parte della Storia]

[Sintesi storica magistrale]

Mosca, Palazzo della Lubjanka, 21 novembre, [pp. 652-653]

Il generale Serov dispose la documentazione sulla scrivania, i fogli allineati alla perfezione.
Informazioni aggiornate da Saigon, capitale del Vietnam del Sud.
Rapporto su Bao Dai, »imperatore» da operetta. Sorriso da imbecille e sguardo stolido su banconote e francobolli. Era fuori dalla Storia, se mai c'era entrato.
Rapporto sul nuovo Primo ministro Ngo Dihn Diem, bigotto dalla malsana attrazione per i crocifissi, al potere in un paese buddhista. Suo fratello: un pazzo oppiomane con velleità pseudointellettuali, appassionato di intrighi. Sua cognata: una baldracca consumata dall'odio per i comunisti. Un regime corrotto appoggiato dall'America.
Informazioni aggiornate da Hanoi, capitale del Vietnam del Nord. Gli «amici», con la Cina sopra la testa e i piedi in un pantano di sangue e merda.
Equilibrio instabile. La «pace» non sarebbe durata a lungo.
Informazioni aggiornate su Tito, sugli italiani che abbandonavano Istria e Dalmazia, su quello scandalo, il «caso Montesi».
Informazioni sul Guatemala, tornato proprietà esclusiva della United Fruit dopo il golpe con cui la Cia aveva rovesciato un governo «sgradito».
L'America Latina, «cortile di casa» degli americani, un sottile strato di terra a coprire il magma. Era quello il nuovo fronte, Serov ci avrebbe scommesso.
Dispacci provenienti da Francia e Svizzera.
Rapporto su «Vladimiro» ed «Estragone». Localizzati a Parigi, quartiere latino. Frequentavano artisti, pseudorivoluzionari, mitomani, sedicenti «profeti» di ancor più sedicenti movimenti. Un rumeno di nome Inodore Isou. Idiozie. Azzoni e Mariani ci sguazzavano. Non c'era una telefoto in cui Mariani non ridesse, denti in bella vista, zigomi e sopracciglia che quasi si toccavano. Azzoni guardava l'obiettivo.
Li avrebbe usati ancora. I pagliacci si intendono con altri pagliacci, e il mondo era ormai una parata di clown.
Informazioni aggiornate su chiunque e qualsiasi cosa.
Che anno convulso. Un anno che cambiava faccia al mondo.
La nascita del Kgb. La conferenza di Berlino. Il riarmo della Germania e la sua adesione alla Nato. La sconfitta dei francesi in Indocina e la divisione del Vietnam. Tito. La rovina di McCarthy. Tito e Cary Grant. Esperimenti nucleari nei deserti e in mezzo agli oceani. La fine del «dopoguerra».
La nascita di mostri in tutta l'Unione Sovietica: agnelli a due teste, vitelli senza gambe, una capra con un occhio solo. S'annunciavano eventi nefasti.
Tanto per cambiare.
Il generale Serov si alzò, fece scrocchiare le articolazioni del collo e delle spalle e percorse i dieci passi che lo separavano dalla finestra. Guardò oltre il vetro e ancora una volta, come ogni giorno, si sentì parte di un grande ingranaggio.
Parte della Storia.

Wu Ming (in cinese mandarino “anonimo”) è un collettivo di narratori fondato a Bologna nel gennaio 2000, al momento composto da cinque persone i cui nomi anagrafici, benché non segreti, non rivestono alcuna importanza.
Wu Ming ritiene che le storie siano “asce di guerra da disseppellire” e scava nel terreno fertile delle intersezioni fra Storia e Mito. [...]
Wu Ming cura una newsletter telematica gratuita, Giap. Ci si può iscrivere dal sito www.wumingfoundation.com.

[Dal risvolto dell’edizione Einaudi di 54]