logo dell'associazione

logo dell'associazione

Inventare il futuro - Danilo Dolci



lunedì 23 febbraio 2004 legge Maria Orecchia
“Danilo Dolci non è il Socrate che aspetta i discepoli sul traguardo del concetto, ma il ricercatore che avanza con i compagni, crescendo con loro, educandosi con loro” (Gianni Rodari).
Danilo Dolci, nato a Sesana (Trieste) nel 1926, nel 1952 si trasferisce a Trappeto, in provincia di Palermo, dove inizia la sua attività a fianco dei più poveri. In più di quarant’anni di attività, svolte fra Trappeto e Partinico, subisce minacce, denunce, arresti e condanne. Allo stesso tempo riceve riconoscimenti, in Italia e all’estero, per il suo impegno per la pace e la nonviolenza, candidature al Premio Nobel per la pace, la laurea honoris causa in Pedagogia.
Ha fondato il Centro Studi e Iniziative di Partinico allo scopo di esplorare i nessi tra educazione, creatività e sviluppo nonviolento. Ha anche svolto, nelle scuole di tutta Italia e del mondo, seminari con bambini, genitori ed insegnanti perfezionando, così, il suo famoso “metodo maieutico”.

E’ morto il 30 dicembre 1997.

“Tutti sappiamo come è necessaria una scuola nuova. Si potrebbe far crescere con le idee della gente, o senza le idee della gente… Siamo qui per domandarci… come sognate una scuola per i bambini vostri…”(D. Dolci).


Ciascuno cresce solo se sognato
di Danilo Dolci


C’è chi insegna
guidando gli altri come cavalli
passo per passo:
forse c’è chi si sente soddisfatto
così guidato.
C’è chi insegna lodando
quando trova di buono e divertendo:
c’è pure chi si sente soddisfatto
essendo incoraggiato.
C’è pure chi educa, senza nascondere
l’assurdo ch’ è nel mondo, aperto ad ogni
sviluppo ma cercando
d’essere franco all’altro come a sé,
sognando gli altri come ora non sono:
ciascuno cresce solo se sognato.




D. Dolci, Inventare il futuro, Laterza, Bari, 1972, pp.11-25)

“ … cio' che ho imparato
Ho esitato prima di accettare l'invito a scrivere su cosa ho imparato.
Sentivo forte il rischio, dovendo sintetizzare in poche pagine l'esperienza di una vita, di ripetere quanto ho già scritto meglio altrove, o di rimanere in superficie. Poi ho pensato che il tentativo di una meditazione unificatrice poteva riuscire certo utile a me, e forse a qualche altro: dirò semplicemente come ho cominciato a cercare e alcune delle cose che per me è stato più importante imparare.
Fino a quindici anni non ho fatto un particolare sforzo per apprendere: vivevo in una famiglia di media borghesia, frequentavo la scuola un anno dopo l'altro studiando di più le materie rappresentate dagli insegnanti a cui ero più affezionato, e meno le altre. Mi incantava la musica, leggevo volentieri, ero lieto quando iniziava a nevicare, ed altrettanto lieto quando nella primavera potevo cominciare a tuffarmi nel fiume o nel lago.
Essendo mio padre capostazione, quando cresceva di grado cambiavamo città, la memoria si ampliava, non avevo un solo ombelico a farmi comunicare col mondo; e anche l'avere padre italiano, madre slovena, e tra i nonni un tedesco, credo non possa non aver determinato una naturale apertura oltre "la patria". Per tutto questo periodo, fino al 1939 o '40 cioè, si sono accumulate in me sensazioni ed esperienze più o meno comuni ad ogni ragazzo di una famiglia tradizionale nel nord-Italia, senza problemi particolari per mangiare, dormire, vestire,vedendo attorno a se crescere fumaioli e fabbriche.
Dai sedici anni gradualmente, non so ancora esattamente perché, il bisogno di leggere, di conoscere attraverso i libri l'esperienza ed il pensiero degli uomini che mi avevano preceduto, si è fatto così forte che se non avessi trovato attorno a me dei libri - nello scarso armadio di mio padre, nelle biblioteche, dagli amici, comprandoli quando potevo - li avrei rubati. Poiché la giornata non mi bastava più, mi alzavo alle quattro ogni mattina (d'inverno col cappotto addosso per non tremare dal freddo, vicino allo scarso tiepido della stufa della cucina ormai spenta), e ogni mattina, prima di iniziare la giornata comune ad ogni studente, per tre ore nel silenzio incontravo i miei: prima un poco alla rinfusa, poi quasi sistematicamente, ogni mattina ero in un dialogo di Platone; o in una tragedia di Euripide, Shakespeare, Goethe, Schiller, Ibsen, a tappeto; poi, come tornando da capo, per comprendere quale era l'interpretazione del mondo, della vita, degli uomini prima di me, la Bibbia, le Upanisad, i Discorsi di Budda, il Bhagavadgita, fino a Dante, Galileo, Tolstoj. Ero veramente felice.
Passavano gli anni, veniva la guerra, passavo dal carcere fascista attraverso le linee, attraverso i bombardamenti, passava la guerra, passavo le prime esperienze di lavoro, il mio bisogno di sapere cresceva: finché, a venticinque anni, mi è sembrato di avere compreso cosa gli uomini avevano capito ed espresso attraverso i migliori. Negli ultimi anni avevo sentito sempre più la necessità di fare il punto tra le diverse voci, la necessità di decantare in me quanto raccolto, e di confrontarlo con la mia esperienza di vita, la mia verità, la mia intuizione. Ma dove era la mia vita? Quasi non c'era, e quel poco che c'era non era secondo quanto avevo, con la testa, compreso. A cosa di veramente valido potevo confrontare quanto apprende-vo? Il mio non era un apprendere di seconda mano? Attorno a me vedevo sempre più chiaramente persone che pensavano in un modo, dicevano spesso in un altro, e vivevano frammentate, in un altro ancora: erano per lo più una massa di distratti, incoerenti, di superficiali, apparentemente sicuri ma senza profonda fiducia in possibili cambiamenti nostri e del mondo. Perfino usavano la conoscenza del Vangelo come strumento di affermazione personale. Aspiravo a "nuovo cielo e nuova terra" solo con la testa. La mia ripulsione per la violenza era più passiva che attiva. Andavo ad un concerto per esem-pio, sentivo in una musica di Bach una volontà di vita armoniosamente e serenamente coordinata, ne godevo: ma tornando a casa non ero più e meglio fratello agli altri, se qualcuno mi "disturbava" mi seccavo. In casa i miei mi chiamavano "lasciami-finire-il-capitolo".
L'incontro con Nomadelfia (una comunità cristiana che raccoglieva in una grande famiglia di famiglie ragazzi e ragazzi buttati dalla guerra nella strada) mi ha dato la possibilità di una prima profonda esperienza-conoscenza diretta. Zappando, buttando latrina nei campi,vivendo con orfani, ex ladruncoli, malati, sperimentavo cosa era crescere insieme: volti anche idioti nell' impegno comune di alcuni mesi diventavano più umani, talvolta bellissimi; nel vecchio campo di concentramento nazifascista di Fossoli gli orfani potevano ritrovare una mamma e un papà; impegnandoci insieme nella Maremma selvaggia era possibile trasformare la sterpaglia in ordinati campi di grano, far della sterpaglia fuoco al calcare delle montagnole trasformandolo in calce, togliere dai campi i grandi sassi smossi dai potenti aratri e farne case acco-glienti per le nuove famiglie. Sentivo ormai veramente che, come è indispensabile per ciascuno fare il punto di sé, vivendo secondo le proprie persuasioni, così la vita di gruppo, la vita comunitaria, è pure indispensabile strumento di verifica e di costruzione personale e collettiva.Dopo un anno e mezzo di questa esperienza, fondamentale, in cui mi ero come ripulito ed essenza-lizzato, pur comprendendo come Nomadelfia non poteva crescere che ad un certo ritmo per mantenere le proprie qualità, la sentivo come un'isola , un nido caldo che rischiava di compiacersi di sé. Incoscienza ed ispirazione si mescolavano in me quando mi domandavo : e il resto del mondo?
Non so ancora bene come e perché, dopo essermi affettuosamente congedato, son partito per la Sicilia, per Trappeto, il paese più misero che avevo visto. Ignorante come ero dei problemi del Sud, ignorante di tecniche di lavoro socio-economico (all'università avevo studiato architettura, ma i rapporti tra gli uomini mi interessavano ormai più dell'armonia tra le pietre), lavorando coi contadini e coi pescatori, partecipando la loro vita dal di dentro, mi guardavo in giro.
Da questo momento posso dire di aver cominciato ad apprendere veramente, in diverse fasi. Mi trovavo, pur in Europa, in una delle zone più misere e più insanguinate del mondo: vasta la disoccupazione, diffusissimo l'analfabetismo, sottilmente e prepotentemente penetrante quasi ovunque la violenza mafiosa. La popolazione nella sua maggioranza era amara, grave-mente scontenta, ma nono si impegnava a fondo per operare cambiamenti.
Mi era sempre più chiaro:quando, finché non si ha esperienza che il cambiamento è possibile, che profondi e sostanziali cambiamenti sono possibili, si ripete facilmente "è sempre stato così e sarà sempre così", è molto dif-ficile che l'uomo si impegni per operare cambiamenti: e questo, osservavo, era palesemente vero in zone agricole arretrate, ma non era meno vero nelle zone industrializzate dove molti possono non avere visione di direzioni e di ritmi di sviluppo alternativi a quelli in cui sono immersi. Un uomo non si impegna (verso che cosa se è inesistente per lui?) fin che non sa di poter essere anche lui determinante sullo sviluppo e sulla sua direzione. E' necessario dunque, imparavo, impegnarsi con la gente a produrre fatti nuovi, a tutti i livelli, che diano a ciascuno esperienza che, e come, è possibile il cambiamento; e suscitare occasioni di vera comunicazione tra persone di cultura e di vita diversa.
Addosso ad una popolazione spesso affamata, disperata, lo Stato interveniva non portando il necessario lavoro, le necessarie scuole, nuove occasioni di solida fiducia, ma soprattutto imprigionando e uccidendo chi esprimeva la protesta:
[…] Come è possibile la trasformazione di una zona fin che la gran parte della popolazione non può intervenire, rimanendo disoccupata o impegnata in lavori che non sono veri lavori? Un'autoanalisi promossa a chiarire nella popolazione il dramma del lavoro-non-lavoro (il libro ha preso il titolo Inchiesta a Palermo) ci ha aiutato a comprendere quanto avviene anche in altre vaste parti del mondo. Non ci può essere uno sviluppo degli uomini se questi non hanno la possibilità di lavorare, di partecipare allo sviluppo secondo le proprie necessità e persuasioni.
La fame e i malanni scavano grandi masse di gente; antichi e nuovi sfruttatori le succhiano davvero, molto più dei pidocchi. Ma le persone che di fatto rimangono inerti o quasi per tanta parte dell'anno, lavorerebbero volentieri, promuovendo sviluppo per sé e per tutti, se sapessero cosa utilmente fare.
Le acque si sprecano d'inverno nel mare, mentre le campagne arse d' estate potrebbero produrre per tutti: ma come è possibile volere una diga quando non si sa cosa è una diga? Il letame viene bruciato a mucchi ai margini di molti villaggi: come è possibile valorizzarlo se non si sa come farlo fermentare e valorizzare? Frana la terra dai pendii non rimboschiti, si ammalano e rendono poco coltivazioni e allevamenti non ben curati, mentre gran parte della popolazione, spesso pensando superstiziosamente a questi mali come a castighi del cielo, sta gran parte del tempo con le mani in mano. C'è la possi-bilità di vivere per tutti: ma non lo si sa.
Per contribuire a chiarire quale impedimento allo sviluppo sia in ogni parte del mondo, seppure in forme diversissime, il basso livello tecnico-culturale, abbiamo proposto alla popolazione un'autoanalisi poi pubblicata con il titolo di Spreco.Come si possono risolvere dei problemi che non si conoscono, che non si riesce a conoscere? Come si può valorizzare finché non esiste davvero il problema della valorizzazione?
Ero andato a Trappeto da solo, ubbidendo alle mie convinzioni: e non mi ero trovato in una situazione in cui qualcuno non ce la faceva, e poteva farcela dandogli una mano: mi ero trovato in una massa di gente che stava male, in una situazione da cui in genere la gente non sapeva uscire. Era indispensabile allargare i rapporti individuali, era necessario che si formassero tra questi uomini o nuclei familiari, per lo più isolati, gruppi di ricerca e di ini-ziativa con la sempre più intensa volontà di valorizzare valorizzandosi; e che si allargassero e approfondissero i gruppi esistenti già tendenti a svilupparsi democraticamente. Si era formato un gruppo piccolo (una ventina di persone già operanti con la popolazione più avanzata, attraverso quattro centri pilota in una vasta zona della Sicilia occidentale) ma stabile e qualificato, il Centro studi e iniziative: non era più solo, un laboratorio sociale - in cui ciascuno era in un rapporto di simbiosi con gli altri - cercava e realizzava.
Il gruppo tendeva a formarsi, nelle ricerche-iniziative, persuaso ed aperto. Un gruppo, potremmo dire di obiettori di coscienza: tendendo al rapporto attivo con gli altri, individui e gruppi; a far nascere nuovi gruppi dove occorrevano; ad essere come un volano ad altre iniziative.
L'impegno affinché una diga fosse costruita era rilevante perché l'acqua avrebbe portato, col pane, sulla terra arida anche la verde esperienza che era possibile cambiare la faccia della terra; ma era rilevante anche in quanto la diga significava sindacato degli operai, consorzio democratico di irrigazione, cooperative vinicole e di produzione in genere: significava cioè razionalizzazione e organizzazione del caos, inizio di vera pianificazione democratica. Quanto sia necessario per lo sviluppo di un mondo nuovo operare attraverso tre strumenti fondamentali come l'uomo centro di coscienza e di scoperta, il gruppo aperto valorizzatore, e la pianificazione democratica valorizzatrice, ho cercato di esprimerlo con precisione, dopo averlo sperimentato e discusso con i collaboratori più acuti e le popolazioni più interessante nelle prime trenta pagine di Verso un mondo nuovo. Ma basta prendere coscienza di un problema per risolverlo? Basta indicare alcuni sensati obiettivi, anche attraverso rigorose documentazioni, affinché in quella direzione automaticamente vengano mosse le necessarie soluzioni? La nostra esperienza era sempre più nitida: quando un individuo o un gruppo ha un problema da risolvere a scala sua, non ha che da alzarsi le maniche e mettersi a lavorare per risolverlo; ma quando, per tornare all'esempio pre-cedente ci persuade che è necessaria per la zona una grande diga, la cui costo-sa costruzione è di competenza delle autorità della Regione e dello Stato, quando non basta l'indicazione, occorre premere per ottenere. Premere non-violentemente - scioperando attivamente o passivamente, non collaborando decisamente a quanto si stima dannoso, protestando o operando pubblicamente in tutte le diverse forme che possono venire suggerite dalle circostanze, dalla propria coscienza e dalla necessità: avvalendosi delle leggi buone quando esistono e contribuendo a realizzarne di nuove quando sono insufficienti -, ma premere con forza serena fin che non vincono il buon senso e il senso di responsabilità. Premere sapendo che naturalmente costa. Chi tende a conservare le situazioni come sono, "l'ordine", cerca di metter fuorigioco chi vuole promuovere il cambiamento. E' così: ben lo sa chi di noi è stato costretto in carcere, indicato come delinquente, colpito da decine e decine di denunce; bene lo sanno tutti quelli che in ogni parte del mondo si impegnano sensibili all'urgenza di una vita nuova. E' ingenuo meravigliarsene o scandalizzarsene. E' da uomini responsabili invece cercare attentamente quali metodi e quali strategie i deboli possano sperimentare affinché la saggezza possa vincere, per tutti: cioè quali sono le efficaci alternative alla violenza. E non credo più possibile disgiungere l'impegno per lo sviluppo socio-economico dall'impegno per la pace: come non possiamo accontentarci di uno sviluppo qualsiasi, di inorganici incrementi, così sappiamo che un pacifismo senza reali radici nel socioeconomico si riduce per lo più a parole. (……..)
Prima che il giorno assimili le stelle, ogni mattina continuo a cercare nel mio silenzio, prima di impegnarmi nelle iniziative attive: so che accettare di disperdersi nella complessità di questo mondo (dove si aggrovigliano enor-mi sforzi di chiarificazione e sviluppo a dure resistenze ed enormi sprechi - da quelli della miseria disperata a quelli della ricchezza, fino tra i grattacieli e le più tecnicizzate fabbriche di bombe atomiche) è già morire; so come que-sto mondo stenta ad uscire dal suo tempo primitivo verso quello in cui la tua vita è la mia vita, la mia vita non può non essere anche la tua; so che abbiamo appena iniziato ad apprendere che gli uomini possono davvero imparare solo se vogliono ricercare e sanno cercare anche insieme; e che purtroppo è sempre presente il rischio di dimenticare quanto si sa.

D. Dolci, Conversazioni,Einaudi, Torino, 1962, pp.26-34

IL RAPPORTO TRA IL NOSTRO LAVORO, LA POLITICA E I PARTITI
1) La vocazione del Centro è di carattere educativo nel senso che:
a) Il nostro lavoro è maieutico, cioè come quello dell’ostetrica: muove con le domande i problemi ad esistere per le persone;
b) Soprattutto attraverso il lavoro l’uomo può esistere ed educarsi (una diga, abbiamo detto, può essere il fatto culturale più rilevante per una zona).
Un lavoro educativo, un lavoro di questo tipo si fa perché gli uomini diventino quello che non sono ancora, perché le vecchie nostre strutture fatte per difendere i privilegi dei pochi potenti, diventino strumento di realizzazione per tutti, perché la terra, la vita dicenti quello che ancora non è.
In termini politici, dunque, non siamo dei conservatori; non siamo, non possiamo essere, come Centro, in collusione con quanto è conservazione.
2) Dei molti che nel mondo stanno sempre dalla parte dei forti, dei potenti, a seconda di chi comanda, moltissimi dicono: “ io non faccio politica”. Ma stare dalla parte di chi è più forte, è un modo di far politica: scegliere le “ forze dell’ordine”, la polizia, i soldi, i potenti, è mettersi, in una parola, contro i valori che stanno realizzandosi, contro la moralità religiosa e civile che vuole che: chi non è sia, diventi; il tutto sia, il più e il meglio possibile, di tutti.
Di solito, chi dice “io non faccio politica”, vota per le forze della reazione, si schiera anche praticamente dalla parte del cavallo che reputa vincente: ed è questo certamente il modo peggiore di fare politica. Non certo il nostro.
3) Abbiamo detto della necessità di un lavoro dal basso per cui:
a) Le persone scoprono i loro interessi e trovino la loro parte
b) Le persone, sul piano singolo e collettivo, riescano ad impostare veramente i loro problemi. […]
Il centro fa un lavoro di valore politico in quanto cerca di far esistere i piccoli, i non realizzati, attraverso la parola, l’esperienza del possibile sviluppo, l’apertura al mondo, alla cultura, a tutti i valori possibili.

CONCLUSIONI
[...] Educare può essere la parola più presuntuosa o più umile, a seconda se vuol significare propinare ad altri la nostra realtà e le sue giustificazioni, o contribuire ad aprire noi e gli altri a nuova, migliore vita. Lavorare per una società più sana, che ci permetta di pervenire, col contributo sempre più di tutti, ad una vita più alta, credo sia fondamentale tributo per raggiungere la pace come l’amiamo.
Certo è molto facile pensare che, mentre ora abbondiamo di caporali e colonnelli esperti nell’ammazzare il prossimo con precisione, manchiamo di esperti per farlo crescere nel migliore dei modi, mentre ora siamo in gran parte del mondo costretti a procedere privatamente, quasi furtivamente, nel lavoro di risveglio e di sviluppo delle zone arretrate, in una politica ed economia mondiali rinsavite, milioni di anni- studio – lavoro potrebbero essere ogni anno dedicati dai giovani ( che oggi perdono ancora milioni di anni coi fucili in mano) alle zone sottosviluppate, costruendo; invece di miliardi dio miliardi per bombe, potrebbero essere impiegati miliardi di miliardi per scuole, costruzioni ecc. ecc.

SBRECCIARE IL DOMINIO

Ogni volta sperimento come,
nel contesto di una struttura
che veramente favorisce la creatività personale e di gruppo,
ogni giovane è gioiosamente meravigliato
di quanto riesce a esprimere e ascoltare;
mi chiedo in qual modo sia possibile consolidare, approfondire e moltiplicare ampliando queste occasioni
affinché riescano a inceppare e sbrecciare i meccanismi del dominio,
tuttora vastamente imperanti: per riuscire a interrompere il circolo vizioso
fra dilagante necrofilia inconfessata,
disperazione per mancata creatività e informazione deformata, aberrante.
Da: D. Dolci, "Dal trasmettere al comunicare", ed.Sonda.

« Chissà se i pesci piangono »
di Danilo Dolci a cura di Gianni Rodari.

« Chissà se i pesci piangono » raccoglie una serie di incontri/ testimonianze per la creazione di un nuovo Centro Educativo.La recensione del libro di Danilo Dolci « Chissà se i pesci piangono » è un articolo di 30anni fa.....uscito dalla penna e dal nitore mentale di un altro grande educatore e poeta:Gianni Rodari.

«TUTTI SAPPIAMO- dice Danilo Dolci alle mamme di Partinico, nella prima pagina del suo nuovo libro - come è necessaria una scuola nuova. Si potrebbe far crescere con le idee della gente, o senza le idee della gente. Siamo qui per domandarci quali sarebbero i consigli per questa scuola, come sognate una scuola per i bambini vostri, come la vorreste... ».
Le mamme, dapprima timide e disorientate, prendono via via coraggio a parlare, raramente interrotte da una domanda, dall'invito a precisare un concetto, da una sottolineatura.
Il Socrate che coordina il dialogo, lo pungola, lo alimenta discre-tamente di stimoli, non è il furbo stratega che guida i suoi Fedoni e Fedri e Critoni per una strada nota a lui solo, perché arrivino dove vuole lui: ha in mente una meta, la creazione di un nuovo centro educativo, ma non vuole precisarla senza il contributo « della gente »; ha esperienza e cultura, ma sa ripartire alla pari con l'interlocutore più semplice, primo perché rispetta la sua esperienza e la cultura (magari analfabeta) di cui lo sa portatore, se-condo perché pensa che la nuova istituzione avrà fondamenta più profonde se crescerà «con la gente» e farà crescere tutti coloro che ci lavoreranno.
Quello che gli interessa fondamentalmente è sempre un «discorso sul metodo». Così è stato per la diga sullo Jato. Così dev'essere per la scuola nuova. Perciò comincia col far parlare le mamme, i padri, i bambini, i ragaz-zi, ai quali domanda - «Se dovessimo costruire una casa tutta per voi, come la vorreste? » - e dice « casa » non « scuola », rompendo col vocabolario della tradizione, perché non vuol che i ragazzi parlino da « scolari », ma da ragazzi: che prescindano totalmente dai modelli che conoscono, che partano da zero, anche loro. O piuttosto non da zero, ma da sé stessi: dalle loro esigenze e dalle loro fantasie, dalla loro capacità di reinventare il mondo.
Le bambine di otto anni vorrebbero una casa " grande ....larga...in campagna per prendere aria ....con gli alberi, i fiori.....che ci mettiamo d'ac-cordo, chi fa una cosa, chi quell'altra cosa....ci mettiamo intorno a un tavolo, in cinque o in sei....a tavolo rotondo.....che studiamo un poco e poi andiamo in giardino....". I ragazzi dagli undici ai quattordici anni la vorrebbero" vicino alla montagna e all'acqua di un ruscello, tra molti alberi, anche con animaletti ....a un unico piano, che non si sentano i passi sulla testa; diversi gruppi, ma non troppo vicini." Ci vorrebbero il telescopio, il laboratorio musicale, il campo di calcio, la biblioteca, il giornale, la radio, la televisione a circuito chiuso. E lavoraci a gruppi, con un coordinatore a turno. Ma il ragazzo dovrà avere anche " il suo tempo personale" …
Ed ecco l'affascinante resoconto di un "seminario", al quale hanno partecipato 20 ragazzi tra i 9 e i 14 anni, dedicato alla "ricerca espressa attra-verso la parola". I ragazzi scelgono di approfondire questi argomenti:"Cosa è la noia? E la rabbia?- Incontro con dei padri - Incontro con delle mamme - I perché a cui vorremmo una risposta - cosa è il dolore? E la gioia? - Quali di-versi silenzi possono esistere? Essi convengono che ciascuno inizierà con lo scrivere un breve autoritratto e cercherà poi di esprimere quanto vede " In un passo di terra , o in una persona, o in un albero, o in un animale, o in una situazione" .
Gli autoritratti sono ancora scolastici, schematici, poco vivi, sono scritti nella lingua dei "temi".
Tutt'altra cosa sono i testi scritti dopo che le conversazioni e le attività comuni hanno liberato nel gruppo le possibilità della parola, e lo stesso modo di stare insieme e lavorare insieme ha fatto nascere un linguaggio ricco di motivazioni interiori.
Le discussioni sono coordinate, a turno, da un ragazzo, Danilo è presente e interviene, ma alla pari, compiendo lo stesso sforzo che agli altri è richiesto, di cercare onestamente ciò che sa, o sente, o pensa di un argomento. Non è il Socrate che aspetta i discepoli sul traguardo del concetto, ma il ricercatore che avanza con i compagni, crescendo con loro, educandosi con loro. Non è da stupire, dunque, se la parola chiave del libro finisce per essere la bella, antica parola eternamente legata a Socrate: la "maieutica".
Essa entra a più riprese nel capitolo conclusivo del libro riservato alle "indicazioni essenziali" di ciò che dovrà essere la nuova scuola; che di scuola, però, rifiuta anche il nome, per chiamarsi "centro educativo", non in omaggio al concetto-moda di "descolarizzazione", ma per proporsi chiaramente come alternativa alla tradizione.
Il "processo maieutico di gruppo" viene al secondo posto dopo la "scoperta individuale", nell'elenco dei metodi di apprendimento e sviluppo previsti, perché il fine è di "formare una società essenzialmente maieutica". L'educatore - che nella rinnovata nomenclatura sostituirà il maestro, il professore, l'insegnante - sarà tale " in senso maieutico, cioè soprattutto edu-catore a un metodo". Egli è "essenzialmente un esperto di maieutica: intesa come processo di chiarificazione teorica e pratica di gruppo, che avviene sulla base dell'esperienza e della intuizione di ciascuno".Fin dai primi anni
(il centro è concepito per ragazzi dai 4 ai 14 anni) avvierà i ragazzi del grup-po a sperimentare come si può ricercare insieme, come ci si può compren-dere, come si può decidere insieme, come si può agire insieme: come ci si può coordinare e come ciascuno può diventare maieuta". …
E ancora: "l'impostazione maieutica" è vista come l'unica via di scampo dal falso dilemma tra il "rapporto autoritario" (della scuola tradizionale) e il "quasi-caos dello spontaneismo per reazione" ( della contestazione anarchi-ca). Ma bisognerà stare attenti che " l'avvio maieutico " non sia furbescamente utilizzato come " tecnica di sensibilizzazione e attivazione degli interessi affinché l'adulto possa poi appioppare la sua lezione con più successo".
Danilo Dolci prevede e anticipa l'obiezione più facile: "la maieutica era giustificata da Socrate in quanto il conoscere era per lui reminiscenza di quanto aveva già saputo". E risponde: "occorre individuare oltre la favola socratica - il modello socratico stesso - il nodo essenziale: come approfondire e allargare l'osservazione, come esercitarla ed esprimerla in forme diverse; come approfondire e valorizzare l'esperienza personale per cercare di risolvere i problemi che la vita ci chiede di risolvere". All'obiezione risponde del resto, come s'è visto, l'intero libro. e vi rispondono le "indicazioni essenziali" dalle quali il progetto del centro educativo e dei suoi programmi risulta già sufficientemente chiarito. ma su questo punto non mancheranno le occasioni di tornare con attenzione, via via che il centro prenderà vita. Ci è sembrato più importante riferire sulla esperienza educativa della "ricerca" che Danilo Dolci ha condotto, con i suoi collaboratori, per fare nascere quel progetto, perché il metodo seguito in quella "ricerca" si prefigura come "il metodo dei metodi", l'autentico nocciolo intorno a cui nascerà il centro.
Il frutto è diverso dal fiore ma la legge che li forma è unica.
La "legge" per Dolci è stata nella ricerca e non potrà non essere nel centro: "cercare insieme", "agire insieme". Bisogna leggere anche nel suo giusto significato anche questa parola; "insieme". In una scuola, quando si dice "insieme", si può pensare a insegnanti e ragazzi, nel migliore dei casi: già i bidelli restano fuori (ma non, per esempio, nelle scuole per l'infanzia emiliane). "Insieme", per il nuovo centro educativo, vorrà dire anche"insieme con la gente".
Anche gli educatori Danilo Dolci non li cerca soltanto tra i diplomati e i laureati. Ci sono professori che non sono educatori, e ci sono contadini che meritano invece quel titolo.
Un settore del libro è intitolato "educatori" e vi si trovano brevi, affettuosi profili, di Franco La Gennusa, che lavora tra i contadini del consorzio irriguo dello Jato, dei musicisti Eliodoro Sollima, Salvatore Cicero, Giovanni Perreira, Edwin Alton ( un ex farmacista inglese che da anni vive in Sicilia, con Dolci, per insegnare il flauto dolce ai bambini); del pittore Ernesto Treccani, che a Borgo Trappeto è di casa, del fotografo Mario Molino e ancora di artigiani, avvocati, architetti, accanto a quelli di "professionisti dell'educazione" come Lucio Lombardo Radice o Johann Galtung. "Educatori", per Danilo Dolci sono tutte le persone che sanno aiutare gli altri a costruirsi. Non basta ( ma è indispensabile, naturalmente) che essi dispongano di una tecnica corretta per insegnare quello che sanno: occorre che siano interessati agli altri, che sappiano stare tra gli altri come una persona che insegna e impara in ogni momento, da se stesso e da tutti.
La cattedra non fa il maestro. E nel nuovo centro educativo non vi saranno cattedre.


Aldo Capitini: Dieci principi
Estratto da: Aldo Capitini, Rivoluzione aperta, 1956]

Danilo Dolci ha così messo praticamente in maggior rilievo ed ha espresso in modo chiarissimo principi ed elementi già espressi e praticati nel passato e nel presente, ma che con la sua persona, con la sua ispirazione ed azione incisiva e organica in una situazione così significativa, è bene che siano messi a contatto di tutti e moltiplicati:
1. Lavorare per una società che sia veramente di tutti.
2. Cominciare più affettuosamente e più attentamente dagli "ultimi".
3. Portare le cose più alte a contatto dei più umili.
4. Partecipare per comprendere.
5. Superare continuamente i propri possessi dando aiuti.
6. Creare strumenti di lavoro e di civiltà per tutti.
7. Dare amorevolezza a tutte le persone, non considerandole chiuse nei loro errori.
8. Usare nelle azioni e nelle lotte il metodo rivoluzionario nonviolento.
9. Nei casi estremi e nei momenti decisivi offrire il proprio sacrificio (per esempio, il digiuno), prendendo su di sé la sofferenza.
10. Promuovere riunioni e assemblee per il dialogo su tutti i problemi.


1. Le opere di Danilo Dolci
2. "L'ascesa alla felicità'' (a cura di D. Dolci) Stamperia C. Tamburini, Milano, 1948. Ed.
3. dattiloscritta in 200 copie;
4. "Parole del Giorno", nell'Antologia 'Nuovi Poeti', Vallecchi 1950;
5. "Voci nella città di Dio", Mazara, Società Editrice Italiana, 1951;
6. "Fare presto (e bene) perché si muore", Torino, De Silvia, 1954;
7. "Banditi a Partinico", Bari, Laterza, 1955;
8. "Poesie", Milano, Canevini ed., 1956;
9. "Processo all'articolo 4", Torino, Einaudi, 1956;
10. "Inchiesta a Palermo", Torino, Einaudi, 1956;
11. "Una politica per la piena occupazione", 1958;
12. "Spreco", Torino, Einaudi, 1960;
13. "Conversazioni", Torino, Einaudi, 1962;
14. "Chi gioca solo", Torino, Einaudi, 1962;
15. "Racconti siciliani" (comprende "alcuni racconti più significativi" raccolti dal 1952 al
16. 1960 e apparsi in "Banditi a Partinico");
17. "Inchiesta a Palermo", "Spreco"), Torino, Einaudi, 1963;
18. "Verso un mondo nuovo", Torino, Einaudi, 1964;
19. "Conversazioni Contadine", Milano, Mondadori, 1966;
20. "Inventare il futuro", Bari, Laterza, 1969;
21. "Il limone lunare", Bari, Laterza, 1970