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De Vulgari Eloquentia-Paradiso XXVI - Dante Alighieri





giovedì 04 marzo 2004 legge Tullio De Mauro
Dante diceva che la nostra lingua è in parte una costruzione astratta, cioè una macchina teorica finissima, ma anche un'abilità che abbiamo appreso "insieme col latte", dalla madre, parole e latte. 

Noi italiani, quando viviamo e pensiamo, teniamo insieme, nel nostro linguaggio, l'elemento culturale e quello naturale. La vita si innesta nel pensiero, ma forse solo proprio grazie a questo nesso - in questo continuo esercizio individuale, collettivo, corale. Politico, morale e creativo, nel sogno di una “bene ordinata civilitade”. 
Parlare italiano è una scelta culturale che non finisce mai, perché insieme è sempre un atto d'amore naturale. 
Fare attenzione al nostro italiano è così anche il modo migliore per arginare la barbarie, sia quella del 1301, o del 1527, del 1799 (le date certo non mancano), o del 1923 o del 2004:
“ ...e tutti questi cotali sono li abominevoli cattivi d'Italia che hanno a vile questo prezioso volgare, lo quale, s'è vile in alcuna [cosa], non è se non in quanto elli suona ne la bocca meretrice di questi adulteri; a lo cui condutto vanno li ciechi de li quali ne la prima cagione feci menzione” (Conv. I, xi, 21). 
Tullio De Mauro è il maestro che oggi, dopo Dante e generazioni di altri, e così Bembo, e Cesarotti, e Manzoni, e De Sanctis, e Gramsci, a quell’altezza, può meglio ritornare su questo nesso.


MATERIALI – RIFERIMENTI

Antonio Gramsci
Pare chiaro che il De Vulgari Eloquio di Dante sia da considerare come essenzialmente un atto di politica culturale-nazionale (nel senso che nazionale aveva in quel tempo e in Dante), come un aspetto della lotta politica è stata sempre quella che viene chiamata “la quistione della lingua” che da questo punto di vista diventa interessante da studiare. Essa è stata una reazione degli intellettuali allo sfacelo dell’unità politica che esisté in Italia sotto il nome di “equilibrio degli Stati italiani”, allo sfacelo e alla disintegrazione delle classi economiche e politiche che si erano venute formando dopo il Mille coi Comuni e rappresenta il tentativo, che in parte notevole può dirsi riuscito, di conservare e anzi di rafforzare un ceto intellettuale unitario, la cui esistenza doveva avere non piccolo significato nel Settecento e Ottocento (nel Risorgimento). Il libretto di Dante ha anch’esso non piccolo significato per il tempo in cui fu scritto; non solo di fatto, ma elevando il fatto a teoria, gli intellettuali italiani del periodo più rigoglioso dei Comuni, “rompono” col latino e giustificano il volgare, esaltandolo contro il “mandarinismo” latineggiante, nello stesso tempo in cui il volgare ha così grandi manifestazioni artistiche.
(Quaderno 29 (xxi), par. 7, ed. Gerratana p. III, 2350)


Mario Luzi
La forza impositiva di una lingua è incalcolabile, come lo è la sua capacità di avventura e di incremento. La lingua italiana è, si dice, anteriore alla nazione italiana; lo è, ma solo apparentemente, perché proprio nel farsi della sua lingua nasceva la nazione italiana come sogno, miraggio, aspirazione, desiderio. Questi sono i veri stimoli e moventi dell’anima italiana: occorrono tutti quanti perché la nazione viva in noi italiani.
(Mario Luzi, Pensieri casuali sulla lingua, in La Crusca per voi, n. 27, ottobre 2003)


Tullio De Mauro
Tullio De Mauro, il maggior linguista italiano, ordinario di Linguistica Generale all’Università di Roma La Sapienza, Ministro della Pubblica Istruzione nel governo dell’Ulivo.
Alcuni titoli: Storia linguistica dell’Italia unita (200220), Introduzione alla Semantica (19994), Linguistica elementare (20029), Minisemantica (20017), Capire le parole (20022), Minima Scholaria (20012), Prima lezione sul linguaggio (2002), Idee per il governo: la Scuola (1995), Contare e raccontare (con Carlo Bernardini, 2003). Autore del “Patto per la Scuola, l’Università, la Ricerca”.


LA NOSTRA LINGUA


“ ...e tutti questi cotali sono li abominevoli cattivi d'Italia che hanno a vile questo prezioso volgare, lo quale, s'è vile in alcuna [cosa], non è se non in quanto elli suona ne la bocca meretrice di questi adulteri; a lo cui condutto vanno li ciechi de li quali ne la prima cagione feci menzione” (Dante Alighieri, Conv. I, xi, 21).


Il libretto di Dante ha anch’esso non piccolo significato per il tempo in cui fu scritto; non solo di fatto, ma elevando il fatto a teoria, gli intellettuali italiani del periodo più rigoglioso dei Comuni, “rompono” col latino e giustificano il volgare, esaltandolo contro il “mandarinismo” latineggiante, nello stesso tempo in cui il volgare ha così grandi manifestazioni artistiche. (Antonio Gramsci, Quaderno 29 (xxi), par. 7, ed. Gerratana p. III, 2350)



La forza impositiva di una lingua è incalcolabile, come lo è la sua capacità di avventura e di incremento. La lingua italiana è, si dice, anteriore alla nazione italiana; lo è, ma solo apparentemente, perché proprio nel farsi della sua lingua nasceva la nazione italiana come sogno, miraggio, aspirazione, desiderio. (Mario Luzi, Pensieri casuali sulla lingua, in La Crusca per voi, n. 27, ottobre 2003)


DANTE ALIGHIERI
L’ELOQUENZA VOLGARE

LIBRO PRIMO

i. Poiché non ci risulta che nessuno prima di noi abbia svolto una qualche trattazione sulla teoria dell’eloquenza volgare, e ci è ben chiaro che quest’arte dell’eloquenza è necessaria a tutti – tant’è vero che ad essa tendono non solo gli uomini, ma anche le donne e i bambini, per quanto lo consente la natura -, nel nostro desiderio di illuminare in qualche modo il discernimento di coloro che vagano come ciechi per le piazze, e spesso credono di avere davanti a sé ciò che sta alle loro spalle, tenteremo, assistiti dal Verbo che ci ispira dal cielo, di giovare alla lingua della gente illetterata; e per riempire una così grande coppa non ci limiteremo ad attingere l’acqua del nostro ingegno, ma, desumendo e mettendo assieme ciò che altri ci forniscono, vi mescoleremo dentro quanto vi è di meglio, così da poterne mescere un dolcissimo idromele.
[2] Ma dato che qualunque disciplina ha il compito non già di dimostrare, bensì di dichiarare il proprio fondamento, in modo che si sappia su che cosa essa verte, diremo, affrontando rapidamente la questione, che chiamiamo lingua volgare quella lingua che i bambini imparano ad usare da chi li circonda quando incominciano ad articolare i suoni; o, come si può dire più in breve, definiamo lingua volgare quella che riceviamo imitando la nutrice, senza bisogno di alcuna regola. [3] Abbiamo poi un’altra lingua di secondo grado, che i Romani chiamarono “grammatica”. Questa lingua seconda la possiedono pure i Greci e altri popoli, non tutti però: in realtà anzi sono pochi quelli che pervengono al suo pieno possesso, poiché non si riesce a farne nostre le regole e la sapienza se non in tempi lunghi e con uno studio assiduo.
[4] Di queste due lingue la più nobile è la volgare: intanto perché è stata adoperata per prima dal genere umano; poi perché il mondo intero ne fruisce, benché sia differenziata in vocaboli e pronunce diverse, mentre l’altra è, piuttosto, artificiale.
[5] Ed è di questa, la più nobile, che è nostro scopo trattare.

Dantis Alagherii de Vulgari Eloquentia libri duo

LIBER PRIMUS

I Cum neminem ante nos de vulgaris eloquentie doctrina quicquam inveniamus tractasse, atque talem scilicet eloquentiam penitus omnibus necessariam videamus, cum ad eam non tantum viri sed etiam mulieres et parvuli nitantur, in quantum natura permictit, volentes discretionem aliqualiter lucidare illorum qui tanquam ceci ambulant per plateas, plerunque anteriora posteriora putantes, - Verbo aspirante de celis - locutioni vulgarium gentium prodesse temptabimus, non solum aquam nostri ingenii ad tantum poculum aurientes, sed, accipiendo vel compilando ab aliis, potiora miscentes, ut exinde potionare possimus dulcissimum ydromellum.
2. Sed quia unamquanque doctrinam oportet non probare, sed suum aperire subiectum, ut sciatur quid sit super quod illa versatur, dicimus, celeriter actendentes, quod vulgarem locutionem appellamus eam qua infantes assuefiunt ab assistentibus cum primitus distinguere voces incipiunt; vel, quod brevius dici potest, vulgarem locutionem asserimus quam sine omni regola nutricem imitantes accipimus. 3. Est et inde alia locutio secondaria nobis, quam Romani gramaticam vocaverunt. Hanc quidem secundariam Greci habent et alii, sed non omnes: ad habitum vero huius pauci perveniunt, quia non nisi per spatium temporis et studii assiduitatem regulamur et doctrinamur in illa.
4. Harum quoque duarum nobilior est vulgaris: tum quia prima fuit humano generi usitata; tum quia totus orbis ipsa perfruitur, licet in diversas prolationes et vocabula sit divisa; tum quia naturalis est nobis, cum illa potius artificialis existat.
5. Et de hac nobiliori nostra est intentio pertractare.


ii. Questa è dunque la nostra vera lingua primaria. Ma non dico “nostra” come se fosse possibile l’esistenza di altra lingua oltre a quella dell’uomo: solo all’uomo infatti, fra tutti gli esseri, è stata concessa la parola, perché solo a lui era necessaria. [2] Parlare non era necessario agli angeli, non agli animali inferiori, anzi per loro questo dono sarebbe stato inutile: ed è ben certo che la natura rifugge da operazioni inutili. [3] Consideriamo infatti con attenzione ciò a cui si mira quando parliamo: è chiaro che non si tratta d’altro che di estrinsecare agli altri ciò che la nostra mente concepisce. Ora gli angeli, per effondere i loro pensieri glorificanti, possiedono una rapidissima e ineffabile capacità intellettuale, in virtù della quale ciascuno si fa compiutamente palese all’altro con la sua sola esistenza, o meglio attraverso quello Specchio splendentissimo in cui tutti si riflettono nel pieno della loro bellezza e si rispecchiano con tutto l’ardore del loro desiderio: è dunque evidente che essi non avevano bisogno di alcun segno linguistico. [...] [5] Quanto agli animali inferiori, dato che sono guidati dal mero istinto naturale, non fu necessario dotare neppure loro di linguaggio: e in effetti tutti gli animali appartenenti alla stessa specie hanno in comune gli stessi atti e passioni, sicché attraverso i propri possono conoscere quelli degli altri; mentre agli animali di specie diverse un linguaggio che li unisse non solo non era necessario, ma sarebbe stato certamente dannoso, dato che tra loro non doveva esserci nessun rapporto amichevole. [...] [8] E così è chiaro che la parola è stata concessa solo all’uomo. Ma perché a lui era necessaria? E’ quanto cercheremo di analizzare brevemente.

iii. Poiché dunque l’uomo non è guidato dall’istinto naturale ma dalla ragione, e questa a sua volta assume forme diverse nei singoli quanto a capacità sia di discernimento che di giudizio che di scelta, tanto che sembra quasi che ogni uomo goda del privilegio di costituire una specie a sé, dobbiamo ritenere che nessuno comprenda un altro attraverso i propri atti e passioni, come fanno le bestie. E neppure si dà che l’uno si immedesimi nell’altro per mezzo di un rispecchiamento spirituale, come avviene agli angeli, perché lo spirito umano è gravato dallo spessore e dall’opacità di un corpo mortale.


II Hec est nostra vera prima locutio. Non dico autem ‘nostra’ ut et aliam sit esse locutionem quam hominis: nam eorum que sunt omnium soli homini datum est loqui, cum solum sibi necessarium fuerit. 2. Non angelis, non inferioribus animalibus necessarium fuit loqui, sed nequicquam datum fuisset eis: quod nempe facere natura aborret.
3. Si etenim perspicaciter consideramus quid cum loquimur intendamus, patet quod nichil aliud quam nostre mentis enucleare aliis conceptum. Cum igitur angeli ad pandendas gloriosas eorum conceptiones habeant promptissimam atque ineffabilem sufficientiam intellectus, qua vel alter alteri totaliter innotescit per se, vel saltim per illud fulgentissimum Speculum in quo cuncti representantur pulcerrimi atque avidissimi speculantur, nullo signo locutionis indiguisse videntur. [...] 5. Inferioribus quoque animalibus, cum solo nature instinctu ducantur, de locutione non oportuit provideri: nam omnibus eiusdem speciei sunt iidem actus et passiones, et sic possunt per proprios alienos cognoscere; inter ea vero que diversarum sunt specierum non solum non necessaria fuit locutio, sed prorsus dampnosa fuisset, cum nullum amicabile commertium fuisset in illis. [...] 8. Et sic patet soli homini datum fuisse loqui. Sed quare necessarium sibi foret, breviter pertractare conemur.

III Cum igitur homo non nature instinctu, sed ratione moveatur, et ipsa ratio vel circa discretionem vel circa iudicium vel circa electionem diversificetur in singulis, adeo ut fere quilibet sua propria specie videatur gaudere, per proprios actus vel passiones, ut brutum anirnal, neminem alium intelligere opinamur. Nec per spiritualem speculationem, ut angelum, alterum alterum introire contingit, cum grossitie atque opacitate mortalis corporis humanus spiritus sit obtectus.



[2] E’ stato perciò necessario che il genere umano disponesse, per la mutua comunicazione dei pensieri, di un qualche segno insieme razionale e sensibile: perché, dato il suo compito di ricevere i propri contenuti dalla ragione e a questa recarli, doveva essere razionale; e doveva essere sensibile data l’impossibilità che si trasmetta alcunché da ragione a ragione se non attraverso una mediazione dei sensi. Per cui se fosse soltanto razionale non avrebbe libero passaggio; se fosse soltanto sensibile non potrebbe ricevere nulla dalla ragione né introdurre nulla in essa.
[3] Ecco, è questo segno quel nobile fondamento di cui parliamo: fenomeno sensibile in quanto è suono; fenomeno razionale in quanto ciò che significa, lo significa evidentemente a nostro arbitrio.

iv. In base a ciò che si è detto in precedenza è manifesto che solo all’uomo è stato concesso di parlare. A questo punto penso si debba indagare su quanto segue: a quale uomo per primo sia stata concessa la facoltà della parola, e cosa abbia detto per cominciare, e a chi, e dove, e quando; infine a quale idioma sia appartenuto il protolinguaggio che ne è scaturito. [...]
[3] ... è ragionevole la nostra opinione che la parola sia stata concessa ad Adamo in persona per primo da Colui che l’aveva appena plasmato.
[4] Quanto poi alla prima parola che ha fatto risuonare la voce del primo parlante, non ho la minima incertezza: a chiunque abbia la testa che funziona salta agli occhi che è stata precisamente la parola che significa “Dio”, vale a dire El, pronunciata in forma di domanda o di risposta. Appare assurdo e ripugna alla ragione pensare che l’uomo possa avere nominato qualcosa prima di Dio, dato che da Lui e in funzione di Lui l’uomo è stato creato. E infatti, come dopo la prevaricazione del genere umano l’uso del linguaggio incomincia per tutti con un “ahi”, così è ragionevole che colui che visse prima di essa abbia incominciato a parlare con un’espressione di gioia; e poiché non vi è gioia alcuna fuori di Dio, ma tutta sta in Dio, e Dio stesso è tutto gioia, ne consegue che il primo parlante per prima cosa e innanzi tutto abbia detto “Dio”. [...]



2 Oportuit ergo genus humanum ad comunicandas inter se conceptiones suas aliquod rationale signum et sensuale habere: quia, cum de ratione accipere habeat et in rationem portare, rationale esse oportuit; cumque de una ratione in aliam nichil deferri possit nisi per medium sensuale, sensuale esse oportuit. Quare, si tantum rationale esset, pertransire non posset; si tantum sensuale, nec a ratione accipere nec in rationem deponere potuisset.
3. Hoc equidem signum est ipsum subiectum nobile de quo loquimur: nam sensuale quid est in quantum sonus est; rationale vero in quantum aliquid significare videtur ad placitum.

IV Soli homini datum fuit ut loqueretur, ut ex premissis manifestum est. Nunc quoque investigandum esse existimo cui hominum primum locutio data sit, et quid primitus locutus fuerit, et ad quem, et ubi, et quando, nec non et sub quo ydiomate primiloquium emanavit. [...]
3. [...] Rationabiliter ergo credimus ipsi Ade prius datum fuisse loqui ab Eo qui statim ipsum plasmaverat.
4. Quid autem prius vox primi loquentis sonaverit, viro sane mentis in promptu esse non titubo ipsum fuisse quod ‘Deus’ est, scilicet El, vel per modum interrogationis vel per modum responsionis. Absurdum atque rationi videtur orrificum ante Deum ab homine quicquam nominatum fuisse, cum ab ipso et in ipsum factus fuisset homo. Nam sicut post prevaricationem humani generis quilibet exordium sue locutionis incipit ab ‘heu’, rationabile est quod ante qui fuit inciperet a gaudio; et cum nullum gaudium sit extra Deum, sed totum in Deo, et ipse Deus totus sit gaudium, consequens est quod primus loquens primo et ante omnia dixisset ‘Deus’.



[...]

vi. Poiché l’attività umana si esercita attraverso moltissimi e diversi linguaggi, cosicché molti realizzano altrettanta comprensione reciproca con le parole che senza le parole, è opportuno mettersi alla ricerca della lingua che si pensa abbia usato l’uomo che non ebbe madre e non ricevette latte, che non conobbe età infantile né crescita.
[2] Per questo, come per molti altri aspetti, una Pietramala è una città immensa, è la patria della maggior parte dei figli d’Adamo. Poiché chiunque ragiona in modo così spregevole da credere che il posto dove è nato sia il più gradevole che esiste sotto il sole, costui stima anche il proprio volgare, cioè la lingua materna, al di sopra di tutti gli altri, e di conseguenza crede che sia proprio lo stesso che appartiene ad Adamo. [3] Ma noi, la cui patria è il mondo, come per i pesci il mare, benché abbiamo bevuto nel Sarno [Arno, in realtà] prima di mettere i denti e amiamo Firenze a tal punto da patire ingiustamente, proprio perché l’abbiamo amata, l’esilio, noi appoggeremo la bilancia del nostro giudizio alla ragione piuttosto che al sentimento. Certo ai fini di una vita piacevole e insomma dell’appagamento dei nostri sensi non c’è sulla terra luogo più amabile di Firenze: tuttavia a leggere e rileggere i volumi dei poeti e degli altri scrittori che descrivono il mondo nell’assieme e nelle sue parti, e a riflettere dentro di noi alle varie posizioni delle località del mondo e al loro rapporto con l’uno e l’altro polo e col circolo equatoriale, abbiamo tratto questa convinzione, e la sosteniamo con fermezza: che esistono molte regioni e città più nobili e più gradevoli della Toscana e di Firenze, di cui sono nativo e cittadino, e che ci sono svariati popoli e genti che hanno una lingua più piacevole e più utile di quella degli italiani.
[4] Tornando dunque all’assunto, diciamo che in una con la prima anima fu creata da Dio una ben determinata forma di linguaggio. E dico “forma” sia riguardo ai vocaboli che indicano le cose, sia riguardo alla costruzione dei vocaboli, sia riguardo alle desinenze della costruzione: ed è precisamente di tale forma che farebbero uso tutti i parlanti nella loro lingua, se essa non fosse stata smembrata per colpa dell’umana presunzione, come si dimostrerà più sotto.



VI Quoniam permultis ac diversis ydiomatibus negotium exercitatur humanum, ita quod multi multis non aliter intelligantur verbis quam sine verbis, de ydiomate illo venari nos decet quo vir sine matre, vir sine lacte, qui nec pupillarem etatem nec vidit adultam, creditur usus.
2. In hoc, sicut etiam in multis aliis, Petramala civitas amplissima est, et patria maiori parti filiorum Adam. Nam quicunque tam obscene rationis est ut locum sue nationis delitiosissimum credat esse sub sole, hic etiam pre cunctis proprium vulgare licetur, idest maternam locutionem, et per consequens credit ipsum fuisse illud quod fuit Ade. 3. Nos autem, cui mundus est patria velut piscibus equor, quanquam Sarnum biberimus ante dentes et Florentiam adeo diligamus ut, quia dileximus, exilium patiamur iniuste, rationi magis quam sensui spatulas nostri iudicii podiamus. Et quamvis ad voluptatem nostram sive nostre sensualitatis quietem in terris amenior locus quam Florentia non existat, revolventes et poetarum et aliorum scriptorum volumina quibus mundus universaliter et membratim describitur, ratiocinantesque in nobis situationes varias mundi locorum et eorum habitudinem ad utrunque polum et circulum equatorem, multas esse perpendimus firmiterque censemus et magis nobiles et magis delitiosas et regiones et urbes quam Tusciam et Florentiam, unde sumus oriundus et civis, et plerasque nationes et gentes delectabiliori atque utiliori sermone uti quam Latinos. 4. Redeuntes igitur ad propositum, dicimus certam formam locutionis a Deo cum anima prima concreatam fuisse. Dico autem ‘formam’ et quantum ad rerum vocabula et quantum ad vocabulorum constructionem et quantum ad constructionis prolationem: qua quidem forma omnis lingua loquentium uteretur, nisi culpa presumptionis humane dissipata fuisset, ut inferius ostendetur.



[5] In questa forma di linguaggio parlò Adamo; in questa parlarono tutti i suoi posteri fino alla costruzione della torre di Babele – che viene interpretata come “torre della confusione”; questa forma di linguaggio fu quella che ereditarono i figli di Eber, che da lui furono chiamati Ebrei. [6] Ad essi soli rimase dopo la confusione, affinché il nostro Redentore, che per il lato umano della sua natura doveva nascere fra loro, fruisse non di una lingua della confusione, ma di una lingua di grazia.
[7] Fu dunque l’idioma ebraico quello che plasmarono le labbra del primo parlante.

vii. [...] [4] Nella zona di Sennaar, che poi fu chiamata Babele (cioè “confusione”) ... [6] quasi tutto il genere umano si era dato convegno per l’iniqua impresa: chi comandava i lavori, chi progettava le costruzioni, chi erigeva muri, chi li squadrava con le livelle, chi li intonacava con le spatole, chi era intento a spaccare le rocce, chi a trasportar massi per mare e chi per terra, e altri e diversi gruppi attendevano a diversi altri lavori; quando furono colpiti dall’alto del cielo da una tale confusione che, mentre tutti si dedicavano all’impresa servendosi di una sola e medesima lingua, resi diversi da una moltitudine di lingue, dovettero rinunciarvi, e non seppero più accordarsi in un’attività comune. [7] Infatti solo a coloro che erano concordi in una stessa operazione rimase una stessa lingua: per esempio un’unica lingua per tutti gli architetti, una per tutti quelli che rotolavano massi, una per tutti quelli che li apprestavano; e così accadde per i singoli gruppi di lavoratori. E quante erano le varietà di lavoro in funzione dell’impresa, altrettanti sono i linguaggi in cui in questo momento si separa il genera umano; e quanto più eccellente era il lavoro svolto, tanto più rozza e barbara è la lingua che ora parlano.
[8] Ma coloro a cui rimase la lingua sacra non erano presenti ai lavori né li lodavano, anzi li esecravano severamente, deridendo la stoltezza degli addetti. Questa piccolissima parte – piccolissima quanto a numero – fu, secondo la mia congettura, della stirpe di Sem, il terzo figlio di Noè: da essa ebbe appunto origine il popolo d’Israele, che si servì di quell’antichissima lingua fino alla sua dispersione.



5. Hac forma locutionis locutus est Adam; hac forma locutionis locuti sunt omnes posteri eius usque ad edificationem turris Babel, que ‘turris confusionis’ interpretatur; hanc formam locutionis hereditati sunt filii Heber, qui ab eo dicti sunt Hebrei. 6. Hiis solis post confusionem remansit, ut Redemptor noster, qui ex illis oriturus erat secundum humanitatem, non lingua confusionis, sed gratie frueretur. 7 Fuit ergo hebraicum ydioma illud quod primi loquentis labia fabricarunt.

VII [...] 4. ... in Sennaar, que postea dicta est Babel, hoc est ‘confusio’ 6. ... pene totum humanum genus ad opus iniquitatis coierat: pars imperabant, pars architectabantur, pars muros moliebantur, pars amussibus regulabant, pars trullis linebant, pars scindere rupes, pars mari, pars terra vehere intendebant, partesque diverse diversis aliis operibus indulgebant; cum celitus tanta confusione percussi sunt ut, qui omnes una eademque loquela deserviebant ad opus, ab opere multis diversificati loquelis desinerent et nunquam ad idem commertium convenirent. 7. Solis etenim in uno convenientibus actu eadem loquela remansit: puta cunctis architectoribus una, cunctis saxa volventibus una, cunctis ea parantibus una; et sic de singulis operantibus accidit. Quot quot autem exercitii varietates tendebant ad opus, tot tot ydiomatibus tunc genus humanum disiungitur; et quanto excellentius exercebant, tanto rudius nunc barbariusque locuntur. 8. Quibus autem sacratum ydioma remansit nec aderant nec exercitium commendabant, sed graviter detestantes stoliditatem operantium deridebant. Sed hec minima pars, quantum ad numerum, fuit de semine Sem, sicut conicio, qui fuit tertius filius Noe: de qua quidem ortus est populus Israel, qui antiquissima locutione sunt usi usque ad suam dispersionem.



viii. Riteniamo, e in base a ragioni non lievi, che fu allora, in seguito alla confusione delle lingue ricordata in precedenza, che per la prima volta gli uomini furono dispersi per tutte le zone climatiche del mondo e relative regioni abitabili e recessi lontani. E poiché la radice primigenia dell’umana propaggine fu piantata nelle terre d’Oriente, e di qui la nostra propaggine si diffuse da una parte e dall’altra moltiplicando a distesa i suoi tralci, per spingersi da ultimo sino ai confini occidentali, fu forse allora per la prima volta che gole di creature razionali bevvero ai fiumi di tutta l’Europa, o almeno ad alcuni. [2] Ma sia che quegli uomini fossero stranieri arrivati non prima di allora in Europa, sia che ne fossero originari e vi facessero ritorno, portarono con sé una lingua triforme; e una parte di essi ebbe in sorte la zona meridionale dell’Europa, un’altra la settentrionale, mentre i terzi, che ora chiamiamo Greci, occuparono una parte dell’Europa e una parte dell’Asia.
[3] In seguito, come mostreremo più sotto, da un solo e identico idioma ricevuto nella confusione vendicatrice, trassero origine svariati volgari. Poiché su tutto il territorio che si estende dalle foci del Danubio, o dalle paludi della Meotide che dir si voglia, fino ai confini occidentali dell’Inghilterra, e i cui ulteriori limiti sono segnati dai confini degli Italiani e dei Francesi e dall’Oceano, dominò un solo idioma, anche se più tardi si ramificò in diversi volgari, quelli degli Schiavoni, degli Ungheresi, dei Teutoni, dei Sassoni, degli Inglesi e di molti altri popoli: e a quasi tutti costoro è rimasto questo solo elemento come segno dell’origine comune, che, per formulare l’affermazione, quasi tutti i popoli sunnominati rispondono iò. [4] A partire dal territorio di questo idioma, vale a dire dai confini degli Ungheresi in direzione d’oriente, un altro idioma prese possesso di tutto ciò che da quel punto in là continua a chiamarsi Europa, spingendosi anche oltre.
[5] Infine tutto quanto resta in Europa al di fuori di questi due dominii, fu occupato da un terzo idioma, che tuttavia ora appare triforme, dato che alcuni per affermare dicono oc, altri oïl, altri ancora sì, come gli Ispani, i Francesi e gli Italiani.



VIII Ex precedenter memorata confusione linguarum non leviter opinamur per universa mundi climata climatumque plagas incolendas et angulos tunc primum homines fuisse dispersos. Et cum radix humane propaginis principalis in oris orientalibus sit plantata, nec non ab inde ad utrunque latus per diffusos multipliciter palmites nostra sit extensa propago, demumque ad fines occidentales protracta, forte primitus tunc vel totius Europe flumina, vel saltim quedam, rationalia guctura potaverunt. 2. Sed sive advene tunc primitus advenissent, sive ad Europam indigene repedassent, ydioma secum tripharium homines actulerunt; et afferentium hoc alii meridionalem, alii septentrionalem regionem in Europa sibi sortiti sunt; et tertii, quos nunc Grecos vocamus, partim Europe, partim Asye occuparunt.
3. Ab uno postea eodemque ydiomate in vindice confusione recepto diversa vulgaria traxerunt originem, sicut inferius ostendemus. Nam totum quod ab hostiis Danubii sive Meotidis paludibus usque ad fines occidentales Anglie Ytalorum Francorumque finibus et Oceano limitatur, solum unum obtinuit ydioma, licet postea per Sclavones, Ungaros, Teutonicos, Saxones, Anglicos et alias nationes quamplures fuerit per diversa vulgaria dirivatum, hoc solo fere omnibus in signum eiusdem principio remanente, quod quasi predicti omnes jo affermando respondent. 4. Ab isto incipiens ydiomate, videlicet a finibus Ungarorum versus orientem, aliud occupavit totum quod ab inde vocatur Europa, nec non ulterius est protractum.
6. Totum vero quod in Europa restat ab istis, tertium tenuit ydioma, licet nunc tripharium videatur: nam alii oc, alii oil, alii sì affirmando locuntur, ut puta Yspani, Franci et Latini.



E l’indizio che i volgari di queste tre genti discendono da un solo e medesimo idioma è appariscente, dato che si nota che essi denominano molte nozioni con gli stessi vocaboli, come “Dio”, “cielo”, “amore”, “mare”, “terra”, “è”, “vive”, “muore”, “ama”, e quasi tutti gli altri.
[6] Di questi, coloro che dicono oc occupano la parte occidentale dell’Europa meridionale, a partire dai confini dei Genovesi. Coloro che dicono sì stanno nella parte orientale, sempre a partire dai confini suddetti, e precisamente fino a quel promontorio dell’Italia da cui inizia l’insenatura del mare Adriatico, e alla Sicilia. Quanto poi ai parlanti oïl, sono in qualche modo a settentrione rispetto a questi: infatti a oriente hanno i Germani e a occidente e settentrione sono circondati dal mare d’Inghilterra e hanno come estremo limite i monti dell’Aragona; infine a mezzogiorno sono chiusi dai Provenzali e dal declivio delle Alpi Pennine.

ix: [...] [2] Dunque la lingua intorno alla quale procede la nostra trattazione è triforme, come si è detto più sopra: infatti alcuni dicono oc, altri sì e altri oïl. [...] [3] I maestri delle tre lingue concordano dunque in molti vocaboli, e soprattutto in questo: “amore”. Ecco Giraldo del Bornello:
Si·m sentis fezelz amics,
per ver encusera amor;
il Re di Navarra:
De fin amor si vient sen et bonté;
messer Guido Guinizelli:
Né fe’ amor prima che gentil core,
né gentil cor prima che amor, natura.
[4] Ma indaghiamo ora perché la lingua fondamentale si sia differenziata in tre rami; e perché ognuna di queste varietà si differenzi a sua volta al proprio interno, ad esempio la parlata della parte destra d’Italia da quella della sinistra (infatti i Padovani parlano altrimenti che i Pisani); e perché ancora discordi nel parlare gente che abita più vicina, come Milanesi e Veronesi, Romani e Fiorentini,



Signum autem quod ab uno eodemque ydiomate istarum trium gentium progrediantur vulgaria, in promptu est, quia multa per eadem vocabula nominare videntur, ut Deum, celum, amorem, mare, terram, est, vivit, moritur, amat, alia fere omnia. 6. Istorum vero proferentes oc meridionalis Europe tenent partem occidentalem, a Ianuensium finibus incipientes. Qui autem sì dicunt a predictis finibus orientalem tenent, videlicet usque ad promuntorium illud Ytalie qua sinus Adriatici maris incipit, et Siciliam. Sed loquentes oil quodam modo septentrionales sunt respectu istorum: nam ab oriente Alamannos habent et ab occidente et settentrione anglico mari vallati sunt et montibus Aragonie terminati; a meridie quoque Provincialibus et Apenini devexione clauduntur.

IX [...] 2. Est igitur super quod gradimur ydioma tractando tripharium, ut superius dictum est: nam alii oc, alii sì, alii vero dicunt oil. [...] 3. Trilingues ergo doctores in multis conveniunt, et maxime in hoc vocabulo quod est ‘amor’. Gerardus de Brunel:
Si-m sentis fezelz amics,
per ver encusera amor.
Rex Navarre:
De fin amor si vient sen et bonté;
Dominus Guido Guinizelli:
Né fe' amor prima che gentil core,
né gentil [cor] prima che amor, natura.