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La spiaggia (e altri testi) - Cesare Pavese


lunedì 16 febbraio 2004 legge Valentina Vetri
Che cosa ha di assolutamente straordinario La spiaggia all’interno dell’opera di Pavese? La presenza del mare, “dove i giorni non contano”. “Mi è sempre parso strano che sull’orlo estremo di una costa, fra terra e mare, crescano piante e fiori e scorra acqua buona da bere” (La spiaggia). 
A metà fra la il romanzo breve, o short-story, e il racconto lungo, La spiaggia si offre ai lettori come un'opera originale e a suo modo di difficile interpretazione. E' inusuale, considerando Pavese, l'ambientazione: per la prima volta infatti si abbandonano le Langhe e ci si sofferma sul frivolo clima della riviera ligure; ma non sono nuovi i simboli che il testo nasconde dentro di sé. 
La spiaggia, infatti, pur nella sua brevità e nella sua apparente immediatezza, nasconde tutte le tematiche che lo scrittore piemontese ha tentato di toccare nella sua produzione: lo sforzo di comprendere la vita, l'importanza della memoria e dei suoi meccanismi di funzionamento, il tentativo costante di condividere con gli altri il significato dell'esistenza. Ma soprattutto “scoprire , celebrare l'uomo di là dalla solitudine, di là da tutte le solitudini dell'orgoglio e del senso”.

1. Pavese e il mare

Dalla lettera alla sorella Maria, 19 agosto 1935 (Einaudi, Torino 1966)
[…] La mia stanza ha davanti un cortiletto, poi la ferrovia, poi il mare. Cinque o sei volte al giorno (e la notte) mi si rinnova così la nostalgia dietro i treni che passano. Indifferente mi lasciano invece i piroscafi all’orizzonte e la luna sul mare, che con tutti i suoi chiarori mi fa pensare solo al pesce fritto. Inutile, il mare è una gran vaccata.

Dalla lettera a Mario Sturani, 27 novembre 1935 (cit.)
[...] Ora è cominciato l’inverno sotto la forma di piogge, venti torrenziali e umidità notturne, che per la mia asma sono tanto pepe. Questo è brutto, perché essendo qui il sonno l’unico passatempo non esasperante, sentirselo troncare tutte le notti moltiplica per x la durata dell’esilio.
Io faccio poesie senza gusto e senz’appetito, e m’accorgo che il mestiere di poeta non serve nemmeno ad ammazzare il tempo, perché l’interesse al lavoro viene rarissimo, e troppe sono le ore che è necessario stare tetramente concentrati su un’idea che non c’è. Era già brutto a Torino questo, pensiamo qui.
Il mare, già così antipatico d’estate, d’inverno è poi innominabile: alla riva, tutto giallo di sabbia smossa; al largo, un verde tenerello che fa rabbia. E pensare che è quello d’Ulisse: figurarsi gli altri.

Da Il mestiere di vivere, 10 febbraio 1942 (Einaudi, Torino 1952)
Davanti al mare della Pineta, basso e notturno, passando in treno, hai visto i focherelli lontani e pensato che per quanto questa scena, questa realtà, ti riempia di velleità di “dire”, t’inquieti come un ricordo d’infanzia, essa non è però per te né un ricordo né una costante fantastica, e ti suggestiona per frivole ragioni letterarie o analogiche ma non contiene, come una vigna o una tua collina, gli stampi della tua conoscenza del mondo. Se ne deduce che moltissimi mondi naturali (mare, landa, bosco, montagna, ecc.) non ti appartengono perché non li hai vissuti a suo tempo, e dovendoli poetare non sapresti muoverti in essi con quella segreta ricchezza di sottintesi, di sensi e di appigli, che dà dignità poetica a un mondo. Lo stesso devi dire per la sfera dei rapporti umani, per gli esseri umani: soltanto quelle situazioni e quei tipi che a poco a poco ti sono emersi e si sono stagliati sul fondo della tua conoscenza iniziale hanno avuto il tempo (sinora) d’incidersi nel tuo spirito e gettare quelle innumerevoli radichette di riferimenti che danno il sangue e la vita alle creazioni.

2. Pavese e La spiaggia (brani tratti da “La spiaggia”, Einaudi, 1956)

Capitolo 1
Da parecchio tempo eravamo intesi con l’amico Doro che sarei stato ospite suo. A Doro volevo un gran bene, e quando lui per sposarsi andò a stare a Genova ci feci una mezza malattia. Quando gli scrissi per rifiutare di assistere alle nozze, ricevetti una risposta asciutta e baldanzosa dove mi spiegava che, se i soldi non devono neanche servire a trasferirsi nella città che piace alla moglie, allora non si capisce più a che cosa devono servire. Poi un bel giorno, di passaggio a Genova, mi presentai in casa sua e facemmo la pace. Mi riuscì molto simpatica la moglie, una monella che mi disse graziosamente di chiamarla Clelia e ci lasciò soli quel tanto che era giusto, e quando la sera ci ricomparve innanzi per uscire con noi, era diventata un’incantevole signora cui, se non fossi stato io, avrei baciato la mano.
Diverse volte in quell’anno capitai a Genova e sempre andavo a trovarli. Di rado erano soli, e Doro con la sua disinvoltura pareva benissimo trapiantato nell’ambiente di sua moglie. O dovrei dire ch’era l’ambiente della moglie che aveva riconosciuto in lui il suo uomo e Doro li lasciava fare, noncurante e innamorato. Di tanto in tanto prendevano il treno, lui e Clelia, e facevano un viaggio, una specie di viaggio di nozze intermittente, che durò quasi un anno. Ma avevano il buon gusto di accennarne appena. Io, che conoscevo Doro, ero lieto di questo silenzio, ma anche invidioso: Doro è di quelli che la felicità rende taciturni, e a ritrovarlo sempre pacato e intento a Clelia, capivo quanto doveva godersi la nuova vita. Fu anzi Clelia che, quand’ebbe con me un po’ di confidenza, mi disse, un giorno che Doro ci lasciò soli: -Oh sì, è contento,- e mi fissò con un sorriso furtivo e incontenibile.
Avevano una villetta in Riviera e sovente il viaggetto lo facevano là. Era quella la villa dove avrei dovuto essere ospite. Ma in quella prima estate il lavoro mi portò altrove, e poi devo dire che provavo un certo imbarazzo all’idea di intrudermi nella loro intimità. D’altra parte, vederli, come sempre li vedevo, nella loro cerchia genovese,passare trafelato di chiacchiera in chiacchiera, subire il giro delle loro serate per me indifferenti, e fare in sostanza tutto un viaggio per scambiare un’occhiata con lui o due parole con Clelia, non valeva troppo la pena. Cominciai a diradare le mie scappate e divenni scrittore di lettere - biglietti d’auguri e qualche cicalata ogni tanto, che sostituivano alla meglio la mia antica consuetudine con Doro. A volte era Clelia che mi rispondeva – una calligrafia rapida e snodata e amabili notizie scelte con intelligenza fra la cangiante congerie dei pensieri e dei fatti di un’altra vita e di un altro mondo. […] Nello spazio di un anno scrissi forse ancora tre volte, ed ebbi un inverno una visita fugace di Doro che per un giorno non mi lasciò un’ora sola e mi parlò dei suoi affari – veniva per questo – ma anche delle vecchie cose che c’interessavano entrambi. Mi parve più espansivo di una volta e ciò, dopo tanto distacco, era logico. Mi rinnovò l’invito a passare una vacanza con loro nella villa. Gli dissi che accettavo, a patto però di vivere per conto mio in un albergo e trovarmi con loro solo quando ne avessimo voglia. –Va bene, - disse Doro, ridendo. – Fa’ come vuoi. Non vogliamo mangiarti -. Poi per quasi un altr’anno non ebbi notizie e, venuta la stagione del mare, per caso mi trovai libero e senza una meta. Toccò allora a me scrivere se mi volevano. Mi rispose un telegramma di Doro: “Non muoverti. Vengo io.”

Capitolo 2
[…] Anni e anni prima che lui si sposasse, avevamo fatto, a piedi e col sacco, il giro di tutta la regione, noi soli, spensierati e pronti a tutto, tra le cascine, sotto le ville, lungo i torrenti, dormendo a volte nei fienili. E i discorsi che avevamo tenuto – a pensarci arrossivo, o mi struggevo quasi incredulo. Avevamo allora l’età che si ascolta parlare l’amico come se parlassimo noi, che si vive a due quella vita in comune che ancora oggi io, che sono scapolo, credo riescano a vivere certe coppie di sposi. […] Scendemmo guardandoci intorno, e mentre Doro che conosceva tutti entrava nell’Albergo della Stazione, io mi fermavo sulla piazza solitaria – tanto solitaria che guardai l’orologio sperando fosse già mezzodì. Non erano ancora le nove, e allora studiai con attenzione l’acciottolato fresco e le case basse, dalle persiane verdi, dai balconi fioriti di glicini e gerani. La villa che in passato era stata di Doro si trovava fuori del paese sullo sperone di una valle aperta alla pianura. Ci avevamo passato una notte durante la gita famosa, in un’antica stanza dalle sovrapporte a fiori, lasciando al mattino i letti sfatti e senza darci altro disturbo che richiudere il cancello. Il parco che la circondava, non avevo avuto il tempo di passeggiarlo. Doro era nato in quella casa – i suoi ci stavano tutto l’anno e c’erano morti – e sposandosi l’aveva venduta. Ero curioso di vedere la sua faccia davanti a quel cancello.
Ma quando uscimmo dall’albergo a passeggiare, Doro s’incamminò da tutt’altra parte. Traversammo la ferrata e discendemmo il corso del fiume. Era chiaro che si andava in cerca di un posto d’ombra come in città si va al caffè. – Credevo andassimo alla villa, - borbottai – Non siamo venuti apposta?
Doro si fermò, squadrandomi. – Che ti credi? Che io faccia il ritorno alla origini? Quello che importa ce l’ho nel sangue e nessuno me lo toglie. Sono qui per bere un po’ del mio vino e cantare una volta con chi so io. Mi prendo uno svago e basta.

Capitolo 4
Avevo temuto venendo al mare di dover trascorrere giornate formicolanti di sconosciuti, e serrar mani e ringraziare e intavolare discussioni con un lavoro da Sisifo. Invece, salvo le inevitabili serate in crocchio, Clelia e Doro vivevano con una certa calma. Per esempio, ogni sera cenavo alla villa, e gli amici giungevano soltanto con buio. Il nostro terzetto non mancava di cordialità, e per quanto tutti e tre nascondessimo dietro la fronte pensieri inquieti, discorrevamo di molte cose col cuore in mano.
Ebbi presto qualche mia avventura da raccontare – pettegolezzi della trattoria dove facevo colazione, pensieri bizzarri e casi strani, quei casi che il disordine della vita di mare favorisce. Quella sera che avevo sentito squillare tra le inferriate la prima sera ch’ero sceso di casa, già l’indomani mi si era fatta conoscere. Mi venne incontro sulla spiaggia un giovanotto arso di sole che mi saluto graziosamente con un cenno della mano e passò oltre. Lo riconobbi che era già passato. Niente più che un mio scolaro dell’anno prima, che un bel giorno senz’avvertire era mancato alla solita lezione nel mio studio, e non l’avevo veduto mai più. […]
Ma non si era mai soli. Tutta la spiaggia brulicava e vociava – per questo Clelia alla sabbia di tutti preferiva gli scogli, la pietra dura e sdrucciolevole. Nei momenti che si rialzava, scotendo i capelli intontita e ridente, ci chiedeva di che cosa avevamo parlato, guardava chi c’era. C’erano amiche, c’era Guido, c’era tutta la compagnia. Qualcuno usciva allora dall’acqua. Qualche altro c’entrava guardingo. Guido col suo accappatoio di spugna bianca arrivava con sempre nuove conoscenze che ai piedi dell’ombrellone congedava. E poi saliva sullo scoglio e canzonava Clelia, e non entrava mai in mare. [...]

Capitolo 7
La notte, quando rientravo, mi mettevo alla finestra a fumare. Uno s’illude di favorire in questo modo la meditazione, ma la verità è che fumando disperde i pensieri come nebbia, e tutt’al più fantastica, cosa molto diversa dal pensare. Le trovate, le scoperte, vengono invece inaspettate: a tavola, nuotando in mare, discorrendo di tutt’altro. Doro sapeva della mia abitudine d’incantarmi per un attimo nel vivo di una conversazione per inseguire con gli occhi un’idea imprevista. Faceva anche lui lo stesso, e in tempi passati avevamo molto camminato insieme, ciascuno rimuginando in silenzio. Ma ora i suoi silenzi – come i miei – mi parevano distratti, estraniati, insomma insoliti. Da non molti giorni ero al mare e mi pareva un secolo. Pure non era accaduto nulla. Ma la notte, rientrando, avevo il senso che tutta la giornata trascorsa – la banale giornata di spiaggia – attendesse da me chi sa quale sforzo di chiarezza perché mi ci potessi raccapezzare. [...]

Capitolo 10
[...] Berti mi chiamò l’indomani dalla strada. La nostra viuzza era ancora tutta in ombra. Mi gridò se non venivo in mare con lui. Tacque un poco, poi chiese se poteva salire. Entrò con un passo aggressivo e gli occhi lucidi e stanchi. – Ti sembra l’ora? – dissi. Aveva l’aria di non aver dormito, e me lo disse del resto quasi subito, con un tono casuale. Anzi, pareva vantarsene. – Venga in mare, professore, - insisté. – Non c’è nessuno.
Dovevo scrivere una lettera. – Professore, - mi disse dopo un certo silenzio, - basta far giorno della notte. Tutto diventa bello.
Levai gli occhi dal foglio. – I dispiaceri alla tua età sono molto leggeri.
Berti sorrise con una certa durezza. – Perché dovrei avere dispiaceri? – Guardava sotto sotto. – Credevo avessi litigato… - dissi.
- Con chi? – m’interruppe.
- Allora va bene, - borbottai.
- Venga in mare, professore, - disse Berti. – Il mare è grande.

Capitolo 11
[...] Ma né Clelia né Doro vennero alla spiaggia quel mattino. Gisella né gli altri non ne sapevano nulla. A mezzogiorno m’impazientii, e approfittando che parlavano di fare una gita in barca, ritornai a vestirmi, e salii alla villa. Per la strada, nessuno. Stavo accostando il cancello, quando sbucarono sulla ghiaia Doro e un signore anziano con panama e canna, che bel bello veniva verso la strada e ascoltava non so che, rispondendo con cenni del capo. Quando fummo soli, Doro mi guardò con occhi comicamente inquieti. – Che succede? – dissi. – Succede che Clelia è incinta.
Prima di rallegrarmi, aspettai che Doro me ne desse l’avvio. Risalimmo il vialetto verso gli scalini. Doro pareva incredulo e divertito. – Insomma, sei contento – gli dissi. – Voglio prima vedere come finisce, - brontolò. – E’ la prima volta che mi succede.
Clelia usciva allora dalla camera, e chiese chi c’era. Mi fece un sorriso, quasi con l’aria di scusarsi, e si portò il fazzoletto alla bocca. – Non le faccio schifo? – disse.
Poi discorremmo di quel dottore, che aveva molto parlato di responsabilità e voleva tornare con non so che strumenti per fare una diagnosi scientifica. – Che matto, - diceva Clelia.
- Macché, - sbottò Doro. – Oggi prendiamo il treno e andiamo a Genova. Ti deve visitare De Luca.
Clelia mi guardò, rassegnata. – Vede, - disse. – Comincia la paternità. Comanda lui.
Dissi che mi dispiaceva che dovesse interrompere il mare, ma che insomma era una bella cosa.
- E crede che a me non dispiaccia? – brontolò Clelia. Doro contava sulla dita. – Più o meno sarà…
- Smettila, - disse Clelia
Invece non presero il treno, ma l’automobile di Guido. Doro che mi accompagnò fino in paese, mi confidò di provare una certa ripugnanza all’idea di parlarne in giro, e che avrebbe preferito una lussazione o una frattura. Cianciava con molta volubilità, facendo scherzi di cose da nulla. – Sei più agitato di Clelia, - gli dissi. – Oh Clelia è già rassegnata, - ribatté Doro. – Mi fa rabbia, quant’è rassegnata.
- Tu non te l’aspettavi?
- E’ come giocare al lotto, - disse Doro. – Uno si è messa la bolletta in tasca e non ci pensa più.
Quel pomeriggio quando Guido fermò la macchina al cancello, io ero con Clelia, che ci salutavamo. La guardavo girare per le stanze e fare pacchi, e la cameriera correva su e giù. Di tanto in tanto Clelia emetteva un sospiro e veniva alla finestra dov’ero appoggiato, come una padrona di casa che fa il giro degli ospiti e ad uno fra gli altri riserva gli sfoghi della stanchezza e della noia.
- Contenta di tornare a Genova? – le dissi.
Con un sorriso distratto fece di sì col capo.
- A doro piacciono i viaggi improvvisi, - dissi – Speriamo che sia l’ultimo.
Neanche quest’allusione Clelia non la raccolse. Disse invece che in queste cose non si può giurare di niente; poi divenne rossa e se la cavò protestando: - Oh villano.
Le dissi che avrei lasciato anch’io la spiaggia. Tornavo a casa. – Mi dispiace, - disse Clelia. Anzi, le risposi, ero contento di avere trascorso con lei la sua ultima estate da ragazza. Per un attimo Clelia ridivenne quella dei giorni andati: si fermò col capo levato e disse piano: - E’ vero. Che sciocca. Si dev’essere molto annoiato, poverinio.
Partirono, a metà pomeriggio, con Guido che scherzava, ma siccome Clelia si mostrò subito svogliata, credo che smettesse. Mi dissero di aspettarli perché contavano di tornare entro qualche giorno: io li vidi allontanarsi con una certa tristezza. In fondo, mi spiaceva che Doro non mi avesse chiesto di fargli compagnia.
La mattina dopo, ero con Ginetta sulla spiaggia e, parlando un poco di Clelia, non sapevo più che cosa dirle, quando certi giovanotti vennero a portarmela via. Gironzolai tra gli ombrelloni. Intravidi la Nina, e voltai al largo. Mi aspettavo Berti, da un momento all’altro.
Invece, mentre tornavo sul viale, incontrai Guido. Aveva portato allora la macchina in rimessa. Mi disse che gli sposi si trattenevano a Genova. Il loro medico era assente e Clelia aveva un poco sofferto del viaggio. – E’ seccante, - concluse, - quest’anno scappano tutti.
Berti, al solito, si fece vivo in trattoria. Entrò come un’ombra, e seppi di averlo davanti al tavolino prima ancora di levar gli occhi. Mi parve tranquillo.
Dalla sua faccia svogliata e seccata avrei detto che sapeva della partenza. Invece mi chiese se quel mattino ero andato alla spiaggia. Scambiammo qualche parola, e parlando cercavo che cosa avrei dovuto dirgli. Gli chiesi quando tornava in città.
Fece un gesto di fastidio.
- Tornano tutti, - dissi.
Quando seppe di Clelia, giocherellò con la scatola dei cerini. Non gli avevo svelato il motivo della partenza; poi mi parve mortificato – mi balenò il pensiero che si ritenesse lui la causa, per l’incidente del ballo – e allora gli dissi che secondo i suoi desideri la signora aveva fatto la buona moglie e concepito un bambino. Berti mi guardò senza sorridere; poi sorrise senza motivo, posò la scatoletta e balbettò: - Me l’aspettavo.
- E’ seccante, - gli dissi, - che succedano di queste cose. Le signore come Clelia non dovrebbero mai cascarci.
Senza che m’accorgessi del passaggio, Berti divenne inconsolabile. Ricordo che tornammo insieme verso casa e io tacevo, e lui taceva e girava intorno gli occhi.
Tornerai a Torino? – gli dissi.
Ma lui voleva andare a Genova. Mi chiese in prestito i soldi del viaggio. Gli dissi se era folle. Mi rispose che avrebbe potuto mentire e chiedermeli per saldare un debito, ma che con me la sincerità era sprecata. Voleva semplicemente rivedere Clelia e salutarla.
Cosa credi? – esclamai, - che si ricordi di te?
Allora tacque un’altra volta. Io pensavo alla stranezza della cosa: avevo i soldi del viaggio e non lo facevo. Intanto giungemmo nel viottolo, e la vista dell’ulivo m’irritò. Cominciavo a capire che nulla è più inabitabile di un luogo dove si è stati felici. Capivo perché Doro un bel giorno aveva preso il treno per tornare fra le colline, e la mattina dopo era tornato al suo destino.
La stessa sera ci trovammo al caffè – c’erano tutti, anche Guido, anche la Nina al suo tavolino – e decisi Berti a tornare con me a Torino. Guido voleva portarci a ballare, era disposto a portare anche lui. Ma noi partimmo quella notte.

3. Pavese narratore realista?

Dalla lettera a Fernanda Pivano del 25 ottobre 1940, “Profilo di P.” (cit.)
“La sua tendenza fondamentale è di dare ai suoi atti un significato che ne trascenda l’effettiva portata; di fare dei suoi giorni una galleria di momenti inconfondibili e assoluti. Nasca di qua che, qualunque cosa dica o faccia, P. [Pavese] si sdoppia e mentre pare prendere parte al dramma umano, altro intende nel suo intimo e già si muove in una diversa atmosfera che traspare nelle sue azioni come intenzione simbolica.”

Da “Intervista alla radio”, 1950 (Saggi letterari, Einaudi 1968)
“Chiedo scusa ma, quando mi si descrive come uno che sarebbe passato dall’americanismo al neo-realismo polemico e poi addirittura al regionalismo nostrano, io confesso di non capire. [...] Scendiamo a più umili quote. Sarà forse chiaro adesso perché Pavese rifiuti l’etichetta di neo-realista, di regionalista e via dicendo. Mi spiego. Quando Pavese comincia un racconto, una favola, un libro, non gli accade mai di avere in mente un ambiente socialmente determinato, un personaggio o dei personaggi, una tesi. Quello che ha in mente è quasi sempre un ritmo indistinto, un gioco di eventi che, più che altro sono sensazioni e atmosfere. Il suo compito sta nell’afferrare e costruire questi eventi secondo un ritmo intellettuale che li trasformi in simboli di una data realtà. Nasce di qua il fatto, non mai abbastanza notato, che Pavese non si cura di «creare dei personaggi ». I personaggi sono per lui un mezzo, non un fine. I personaggi gli servono semplicemente a costruire delle favole intellettuali il cui tema è il ritmo di ciò che accade. I personaggi in questi racconti sono del tutto sommari, sono dei nomi e tipi, non altro: stanno sullo stesso piano di un albero, una casa, un temporale o di un’incursione aerea.
Pavese ritiene massimi narratori [...] scrittori che non mirano tanto al personaggio quanto al ritmo degli eventi o alla costruzione intellettualistico-simbolica della scena.”