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Inediti da - Predrag Matvejević



lunedì 27 novembre 2006 legge Gianni Sofri
Predrag Matvejević è un intellettuale nel senso più vero della parola, combattente per le idee. Nato a Mostar nel 1932, testimone e accusatore dei crimini di tutti i nazionalismi della ex Jugoslavia, per questo è stato considerato dissidente e perfino condannato dal tribunale di Zagabria. Docente di Letterature comparate, prima a Zagabria poi a Parigi, dal 1994 è in Italia. Il Presidente della Repubblica italiana gli ha conferito la cittadinanza per “la sua opera, che rappresenta il tramite fondamentale tra le tradizioni culturali dell’area balcanica con la civilità europea”.
Predrag Matvejević è una persona generosa. Ha regalato alla Bottega dell’Elefante e alla sua rivista Materiali dieci suoi scritti inediti sul Mediterraneo.
Quale migliore occasione, pubblicarli in un libretto come allegato a Materiali, per celebrare la duecentesima lettura della Bottega dell’Elefante. Un dono che germina un dono. E un intellettuale come Gianni Sofri che legge i testi del collega. E’ quel circolo virtuoso centrato sul testo che da sei anni la Bottega dell’Elefante porta avanti. 

CITTÀ MEDITERRANEE FRA IERI E OGGI


Ogni città, in una sua misura, vive dei propri ricordi. Le città mediterranee, probabilmente, più delle altre. In esse, il passato sempre fa concorrenza al presente. Il futuro si propone più a immagine del primo che del secondo. Su tutto il perimetro del “Mare Interno”, la rappresentazione della realtà si confonde facilmente con la realtà stessa.
Il discorso sulla città mediterranea si sviluppa prevalentemente in termini di storia e di geografia, di architettura o di urbanistica, senza esauritisi. Si nutre di evocazioni di diverso tipo o di reminiscenze, di approssimazioni. I modi “di approccio” e quelli “di raccontare” non pervengono a legarsi o ad unirsi. Riprendendo la maniera in cui Marco Polo avrebbe potuto descrivere al grande Kublai Khan le città incontrate nei suoi viaggi, Italo Calvino racconta “città invisibili”, e formula a questo proposito alcuni avvenimenti molto preziosi: “Non dobbiamo confondere la città stessa con il discorso che la descrive, per quanto esista un evidente rapporto tra l'una e l'altro”.
L’idea di un Mediterraneo costituito da molteplici rotte, marittime e terrestri, presuppone scali diversi: punti di partenza e di arrivo, approdi e porti, "una rete di città che si tengono per mano”, come dice lo storico Braudel. Sono luoghi che cambiano in continuazione, pur conservando i loro tratti più riconoscibili. Le trasformazioni fanno insorgere nostalgie. In tal senso, il discorso sulla città mediterranea si fa sentimentale. Ciò vale ugualmente per l'immaginario che l'accompagna. Alcuni specialisti sostengono che in area mediterranea le città non nascono come altrove - in quanto evoluzione di un villaggio - anzi, sono esse a originare villaggi tutt'intorno e a determinarne la funzione. Una nomenclatura piuttosto comune si compiace di evocare e di presentare ordinatamente diverse serie di elementi, di fenomeni o di caratteristiche riguardanti l'organizzazione o il funzionamento della polis o della politica: costruzioni e istituzioni, statuti e cerimonie, amministrazione e catasti, bandiere, blasoni e sigilli, piazze pubbliche, torri e fortezze, scalinate, “castelli in aria”.
Bisogna sapere distinguere, meglio di quanto non si faccia abitualmente, le città costiere nel senso comune del termine dalle città portuali vere e proprie. Nelle prime, i porti sono stati spesso costruiti per necessità, mentre nelle altre sono comparsi in modo assolutamente naturale. Gli uni restano quasi sempre pontili di imbarco e di sbarco o ancoraggi, gli altri diventano spazi particolari, talvolta dei mondi. Non è possibile immaginare il Mediterraneo senza quei porti. Sono città che “ci seguono dappertutto”, a quanto dice il poeta di Alessandria: ci inseguono persino nei sogni. "La città non possiede per sua natura quell'unità assoluta che alcuni le attribuiscono”. Questa considerazione, così premonitrice, ci proviene dall'antichità, formulata dallo “Stagirita”. Tre giorni dopo la presa di Babilonia, ricorda ancora Aristotele nella “Politica”, “un intero quartiere della città ignorava l'avvenimento”. Le città che hanno componenti troppo eterogenee o ripiegate su sé stesse, sono votate alla perdizione. Secondo un altro avvertimento, che figura nella “Repubblica” di Platone, “la città non dovrebbe mai estendersi oltre il limite in cui, pur essendosi ingrandita, conserva la sua unità”. Questi saggi consigli sono stati seguiti raramente. Le città mediterranee hanno avuto la loro evoluzione perdendo o ritrovando unità o coerenza nel passato o nel presente. Il loro splendore e, in modo altrettanto evidente, le loro eclissi ne portano cicatrici. Oggi esse condividono numerosi problemi con le città continentali, distanti dalle coste. Si tratta di questioni di conservazione o di gestione, di esiguità di spazio o di estensione eccessiva, di pianificazione del territorio e di salvaguardia ambientale, di costruzioni abusive o selvagge, di immigrazione e di rigetto, di comunicazione tra i cittadini, tra “vecchi abitanti” e “nuovi venuti”, dei mutati “diritti della città”. Alcuni di questi problemi, che dipendono da un ordine di cose più generale, si presentano in tutta l'area mediterranea, anche se di volta in volta in modo specifico. Le città più antiche sono caratterizzate da una complessa stratificazione: una certa verticalità piuttosto difficile da proteggere e da gestire. In esse le connessioni con uno o più centri storici si combinano con le relazioni tradizionali o nuove che legano la città al suo porto. Quanto all'orizzontalità urbana, essa rischia di perdere le proprie caratteristiche a forza di estendersi e di rendersi uniforme. In questo modo, una identità dell'essere (architetture, costumi, linguaggi) non riesce più a incontrare una identità del fare adeguata, indispensabile. In questo gioco di “forme” e “contenuti” male assortiti, la città si rifugia spesso nella sua memoria, per non tradire sé stessa. La maggior parte dei vecchi porti del Mediterraneo non ha più la stessa importanza che aveva una volta sui mappamondi. Alcuni si rassegnano ad essere soltanto “porti turistici”. Altri si ristrutturano secondo esigenze contingenti, poco rispettose delle loro peculiarità.
Sulla sponda meridionale, le “città petrolifere” non sono sorte da una maturazione del rapporto produzione/demografia, ma da una situazione congiunturale quasi aleatoria, inaspettata. Durante la stesura di questo testo, ho avuto occasione di venire a conoscenza, in punti diversi della costa magrebina, di neologismi quali “bazarizzazione” o “sukizzazione”. Più di un credente islamico si lamenta del fatto che nelle città moderne la medina non occupi più il posto che meriterebbe (nel Corano la parola medina è citata diciassette volte, per enfatizzare l'importanza dell'habitat sedentario rispetto al nomadismo). Certi testi di urbanistica, pubblicati con l'aiuto dei ricchi paesi petrolieri, denunciano il “dualismo” che si manifesta sotto forma di “modelli urbani ibridi, poco osservanti del codice islamico e della Shari’ah”, ed esigono “la salvaguardia del retaggio culturale dei paesi mussulmani”. Le relative trasgressioni, se è il caso di chiamarle così, non sono soltanto conseguenza dei misfatti del colonialismo: basterebbe, a sostegno di questa affermazione, una passeggiata per le vie di Tunisi o di Algeri, o soprattutto di Istanbul (Taksim Meydani) e persino di Tripoli. Abbiamo potuto sentire lamentele analoghe da parte di credenti di altre religioni, cristiani o ebrei: lo spazio consacrato è diminuito, rispetto al passato, tanto ad Atene che a Napoli, a Barcellona o a Dubrovnik. Si tratta in questo caso di una certa laicizzazione delle città che hanno visto in passato, o ancora incontrano ai nostri giorni, gli spettri del fanatismo o dell'intolleranza? Sembra probabile. Non dovremmo lamentarcene troppo. Da qualsiasi punto di vista, non si troveranno facilmente modelli urbani allo stato puro. “Sono gli uomini che costituiscono le città e non i muri soltanto o le navi senza passeggeri”, ricordava Tucidide, all'alba dell'età storica. Gli uomini di cui parlava si sono mescolati nel corso dei millenni. Nessuna “epurazione etnica” riuscirebbe più a separarli compiutamente gli uni dagli altri.
È possibile immaginare la città senza ricordare le città del Mediterraneo? Esse sono a tal punto impresse nella nostra memoria che qualsiasi degrado dovessero subire non basterebbe a cancellarle, e nemmeno a renderle sgradevoli.

(traduzione di Egi Volterrani)

RONTIERE E CONFINI

La questione antica e sempre nuova delle frontiere e dei confini riemerge in un momento decisivo della nostra storia europea: dieci Paesi provenienti dall'Altra Europa sono diventati membri dell’Unione e gli altri due (Bulgaria e Romani), forse tre (anche la Croazia) si preparano ad entrarci. Le frontiere devono ad un tempo spostarsi e comunque rimanere uguali a se stesse, sottoposte contemporaneamente a un controllo costante e rigoroso, per respingere coloro la cui presenza non è desiderata né benvenuta.
Le stesse persone che hanno vissuto, ancora ieri, tra frontiere bloccate, che dovevano superare con artifici e a volte pagando il prezzo della umiliazione, oggi si vedono chiamate a diventare i guardiani attenti di quelle barriere e a sorvegliarle rigorosamente. C’è un paradosso in questo ruolo. Non è difficile immaginare un polacco che impedisce a un russo o a un ucraino di passare attraverso il suo territorio. Ma come si comporterà un ungherese quando si presentasse davanti a lui un altro cittadino con la stessa nazionalità, che provenga dalla minoranza ungherese della Transilvania romena? O uno sloveno che, a una ventina di chilometri da Zagabria, debba fermare un croato con il quale in passato aveva condiviso una sorte comune nella ex Jugoslavia?
I vecchi particolarismi potrebbero facilmente ridisegnare le frontiere interne dell'Europa incoraggiati da ogni tipo di nazionalismo, di regionalismo, di localismo, di “devoluzionismo” e da altre tendenze simili che si manifestano con arroganza e alle quali ogni idea di convergenza o di sintesi rimane estranea. Si tratta di ripensare, di fronte a queste tendenze irrazionali verso la divisione e la separazione, ciò che si potrebbe chiamare una nuova architettura della frontiera o, perché no, una nuova etica del confine. La cultura avrebbe sicuramente da dire le sue parole, se non fosse così messa ai margini nella elaborazione del progetto europeo, chiamata in soccorso molto raramente o solo per liberarsi la coscienza.
Non sarebbe dunque inutile lasciare libere alcune idee che riguardano il tema e tentare di definirlo diversamente, confrontandolo con le consuetudini concrete che conosciamo, vecchie e nuove. Conviene prendere nuovamente in considerazione le diverse nozioni di permeabilità delle frontiere-confini, della loro accessibilità e della permissività, della fragilità, della “doganalità” e della “custodialità” in riguardo. Alcuni di questi termini sono da inventare o da ridefinire, e ciascuno merita una riflessione particolare.
In questo contesto mi viene alla mente un antico esempio che già Tacito evocava nell’introduzione della sua Germania: a fianco delle cosiddette frontiere naturali, come il Reno e il Danubio, o come alcune catene di montagne, si crea spesso una frontiera particolare imposta dalla paura reciproca. Mutuo metu diceva il vecchio storico, facendo una felice allitterazione. Questo sentimento è ben noto a una buona parte di noi esuli, in particolare a quelli umiliati e offesi, ?che dovevano viverlo in passato durante la Guerra fredda. È inutile oggi parlare ancora una volta delle cortine di ferro e dei muri simili a quello di Berlino.
I processi di globalizzazione e di mondializzazione - quando non consistono semplicemente nell'imporre “un nuovo ordine mondiale” - presuppongono un riesame della natura stessa della frontiera e del confine. È ben chiaro che una vera alleanza fra gli stati non può essere immaginata con delle frontiere rigide o poco permeabili. Il nostro pianeta si confronta, ogni giorno con più insistenza, con le richieste che vengono da un ordine umanista, morale, etico: la richiesta di diminuire se non di abolire i confini tra ricchi e poveri, tra uomini ben nutriti e altri affamati, tra istruiti e analfabeti.
I teorici e i protagonisti della globalizzazione sembrano dimenticare che la cultura europea aveva già conosciuto al suo interno vari movimenti a tendenza universale o, se preferiamo, mondialisti: il cosmopolitismo dei Lumi, l'ecumenismo in campo religioso, l'internazionalismo in politica, quello che non era compromesso dal comunismo di tipo staliniano. La cultura stessa dovrebbe ricordarlo a questi teorici, se non fosse scoraggiata come appare. Queste tendenze, anche se ai nostri giorni sono minimizzate, non potranno essere sostituite da una mondializzazione a buon mercato.
Mi fermo qui, e so bene che spesso si offre una immagine ingenua, a volte ridicola, proponendo una qualunque idea morale. La nostra proposta è molto più modesta: mettere in evidenza alcune contraddizioni nel momento in cui si crea una nuova architettura del Vecchio continente.

(traduzione di Giacomo Scotti)

CENNI SULLO SCONTRO DELLE CIVILTÀ


L'ideologia che serve come uno degli argomenti per la giustificazione della guerra in Iraq cerca spesso la sua legittimazione nella teoria di Samuel Huntington. Non meraviglia affatto che il suo libro “Lo scontro delle civiltà e la trasformazione dell'ordine mondiale” (The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order) sia stato accolto con entusiasmo sia dal Bush junior che, ancora prima di lui, da Milosevic e da Tudjman. Ci è difficile di metterci d'accordo con le conclusioni del suo libro, diventato in America una specie di rivelazione.
Sarebbe davvero “l'imperialismo il corollario inevitabile dell'universalismo”, come crede Huntingon? È possibile rovesciare completamente questo giudizio: la non realizzazione dei progetti universalistici di tipo illuminista ha causato distorsioni imperialiste di cui siamo oggi testimoni. In alcuni paesi ha privato la cultura della sua secolarità, della laicità, dei veri attributi di una cultura aperta e moderna.
Questa mancanza si può notare anche in una cultura religiosa che favorisce il clericalismo cristiano oppure il fondamentalismo islamico (naturalmente, sottintendo che si può essere a un tempo credente e laico). Il deficit di laicità nella cultura religiosa, oppure l'appropriazione e l'utilizzo della religione come ideologia, si sono dimostrati rovinosi. (Anche lo stalinismo abbondava di un repertorio concettuale che sembrava copiato da qualche antico Index ecclesiastico: “settari”, “rinnegati”, “eretici” ... ).
Sta qui il più grande errore di Samuel Huntington: non si tratta di uno scontro di culture in quanto tali, ma di culture alienate e trasformate in ideologie - esse operano e si scontrano non come vere culture, ma proprio come fatti ideologici.
Il pericolo è conosciuto già da tempo: una parte della cultura nazionale si è trasformata in vari tempi e in vari posti in ideologia della nazione. Non è solo un gioco di parole. Questo si è visto non solo nel medio evo, ma di nuovo durante i regimi fascisti in Europa tra le due guerre, in Germania, in Spagna e anche in Italia: una gran parte della cultura esaltava l'ideologia fascista, la alimentava e s'impregnava della sua essenza. Quindi, questo succedeva, non dimentichiamolo, anche nel seno delle più grandi culture europee.
Quello che abbiamo visto nell’Europa degli anni trenta, ora sta avvenendo in alcuni paesi islamici: non c'entra l'Islam come tale, ma la sua applicazione fanatica, la sua ideologizzazione.
Occorre ricordarsene quando sentiamo parlare dello “scontro di civiltà”. Ci può essere d'aiuto nel correggere simili ipotesi: non si stanno scontrando, lo ripeto, le acquisizioni della civiltà e della cultura come tali, ma le ideologie che le hanno alienate e deformate. Non è la stessa cosa. Altrimenti, sarebbe un assurdo: ogni tentativo di sviluppare culture svilupperebbe a un tempo la virtualità dei conflitti!
La teoria di Huntington ha offerto ai falconi attorno al Bush junior una base comoda, ma molto problematica e infatti fasulla. Purtroppo, egli non è l'unico che la sta abbracciando e propagandando.

(traduzione di Melita Richter)

IL MEDITERRANEO ALLE SOGLIE DEL NUOVO MILLENNIO
FRATTURE E CONVERGENZE


L’immagine che offre il Mediterraneo non è affatto rassicurante. La sua riva settentrionale presenta un ritardo rispetto al Nord Europa, e altrettanto la riva meridionale rispetto a quella europea. Tanto a Nord quanto a Sud, l’insieme del bacino si lega con difficoltà al continente. Non è davvero possibile considerare questo mare come un «insieme» senza tener conto delle fratture che lo dividono, dei conflitti che lo dilaniano : oggi in Palestina, ieri in Libano, a Cipro, nel Maghreb, nei Balcani, nell’ex-Jugoslavia, riflessi delle guerre più lontane, quelle in Afghanistan, quelle ancora più vicine - in Iraq e in Libano.
Il Mediterraneo conosce ben altri conflitti tra la costa e l’entroterra.
L’unione europea è compiuta, fino a qualche tempo fa, senza tenerne conto: è nata un’Europa separata dalla «culla dell’Europa». Come se una persona si potesse formare dopo essere stata privata della sua infanzia, della sua adolescenza. Le spiegazioni che se ne davano, banali o ripetitive, non riescono a convincere coloro ai quali sono dirette. Non ci credono neanche quelli che le propongono. I parametri con i quali al Nord si osservano il presente e l’avvenire del Mediterraneo non concordano con quelli del Sud. Le griglie di lettura sono diverse. La costa settentrionale del Mare Interno ha una percezione e una coscienza differenti da quelle della costa che sta di fronte. Ai nostri giorni le rive del Mediterraneo non hanno in comune che le loro insoddisfazioni. Il mare stesso assomiglia sempre di più a una frontiera che si estende dal Levante al Ponente per separare l’Europa dall’Africa e dall’Asia Minore.
Le decisioni relative alla sorte del Mediterraneo sono prese al di fuori di esso o senza di esso: ciò genera frustrazioni e fantasmi. Le manifestazioni di gioia davanti allo spettacolo del Mediterraneo si fanno contenute e fugaci. Le nostalgie si esprimono attraverso le arti e le lettere. Le frammentazioni prevalgono sulle convergenze. Si profila all’orizzonte, da qualche tempo, un pessimismo storico, un “crepuscolarismo” letterario.
Le coscienze mediterranee si allarmano e, ogni tanto, si organizzano. Le loro esigenze hanno suscitato, nel corso degli ultimi decenni, numerosi piani e programmi: le Carte di Atene, di Marsiglia e di Genova, il Piano d’Azione per il Mediterraneo (PAM) e il Piano Blu di Sophia-Antipolis che proietta l’avvenire del Mediterraneo «all’orizzonte del 2025», le Dichiarazioni di Napoli, Malta, Tunisi, Spalato, Palma di Maiorca, tra le tante, le Conferenze euro-mediterranee di Barcellona, Malta, Palermo, i Forum della società civile a Barcellona, Malta ed in ultimo a Napoli (con 1200 persone da tutti i paesi mediterranei). Simili sforzi, lodevoli e generosi nelle intenzioni, stimolati o sorretti da commissioni governative o da istituzioni internazionali, non hanno conseguito che risultati limitati.
A cosa serve ribadire, con rassegnazione o con esasperazione, le aggressioni che continua a subire il nostro mare? Nulla tuttavia ci autorizza a farle passare sotto silenzio: degrado ambientale, inquinamenti sordidi, iniziative selvagge, movimenti demografici mal controllati, corruzione nel senso letterale o figurato, mancanza di ordine e scarsità di disciplina, localismi, regionalismi, e quanti altri «ismi» ancora. Il Mediterraneo non è comunque il solo responsabile di questo stato di cose. Le sue migliori tradizioni (quelle che associano l’arte e l’arte di vivere!) si sono opposte invano. Le nozioni di scambio e di solidarietà, di coesione e di «partenariato» devono essere sottoposte a un esame critico. La sola paura dell’immigrazione proveniente dalla costa Sud non basta per determinare una politica ragionata.
Il Mediterraneo si presenta come uno stato di cose, non riesce a diventare un progetto. La costa Sud mantiene le sue riserve, dopo l’esperienza del colonialismo. Entrambe le rive furono molto più importanti sulle carte utilizzate dagli strateghi che non su quelle che dispiegano gli economisti.
Tutto è stato detto su questo «mare primario» diventato uno stretto di mare, sulla sua unità e sulla sua divisione, la sua omogeneità e la sua disparità: da tempo sappiamo che non è né “una realtà a sé stante» e neppure «una costante» : l’insieme mediterraneo è composto da molti sottoinsiemi che sfidano o rifiutano le idee unificatrici. Concezioni storiche o politiche si sostituiscono alle concezioni sociali o culturali, senza arrivare a coincidere o ad armonizzarsi. Le categorie di civiltà o le matrici di evoluzione al Nord e al Sud non si lasciano ridurre ai denominatori comuni. Gli approcci dalla fascia costiera e quelli proposti dall’entroterra si escludono o si contrappongono.
Il Mediterraneo ha affrontato la modernità in ritardo. Non ha conosciuto la laicità lungo tutti i suoi bordi. Per procedere a un esame critico di questi fatti, occorre prima di tutto liberarsi da una zavorra ingombrante. Ciascuna delle coste conosce le proprie contraddizioni, che non cessano di riflettersi sul resto del bacino e su altri spazi, talvolta lontani. La realizzazione di una convivenza in seno ai territori multietnici o plurinazionali, lì dove s’incrociano e si mescolano tra loro culture diverse e religioni differenti, conosce sotto i nostri occhi uno smacco crudele.
Non esiste una sola cultura mediterranea: ce ne sono molte in seno ad un solo Mediterraneo. Sono caratterizzate da tratti per certi versi simili e per altri differenti. Le somiglianze sono dovute alla prossimità di un mare comune e all’incontro sulle sue sponde di nazioni e di forme di espressione vicine. Le differenze sono segnate da fatti d’origine e di storia, di credenze e di costumi. Né le somiglianze né le differenze sono assolute o costanti: talvolta sono le prime a prevalere, talvolta le ultime.
Il resto è mitologia.
«Elaborare una cultura intermediterranea alternativa». Mettere in atto un progetto del genere non pare imminente; «condividere una visione differenziata» è meno ambizioso: senza essere sempre più facile da realizzare.
Tanto nei porti quanto al largo «le vecchie funi sommerse», che la poesia si propone di ritrovare e di riannodare, spesso sono state rotte o strappate dall’intolleranza o dall’ignoranza. Questo vasto anfiteatro per molto tempo ha visto sulla scena lo stesso repertorio, al punto che i gesti dei suoi attori sono talvolta noti e prevedibili. In compenso, il suo genio ha saputo in ogni epoca riaffermare la sua creatività a nessun’altra uguale. Occorre perciò ripensare le nozioni superate di periferia e di centro, gli antichi rapporti di distanza e di prossimità, i significati dei tagli e degli inglobamenti, le relazioni delle simmetrie a fronte delle asimmetrie. Non basta più osservare queste cose unicamente in una scala di proporzioni o sotto un aspetto dimensionale: possono essere considerate anche in termini di valori. Certe concezioni euclidee della geometria hanno bisogno di essere superate. Le forme di retorica e di narrazione, di politica e di dialettica, invenzioni del genio mediterraneo, sono state adoperate per troppo tempo e talvolta appaiono logore.
«Il Mediterraneo esiste al di là del nostro immaginario?» ci si domanda al Sud come al Nord, a Ponente come a Levante. Eppure esistono modi di essere e maniere di vivere comuni o avvicinabili, a dispetto delle scissioni e dei conflitti che vive o subisce questa parte del mondo.
Percepire il Mediterraneo partendo solamente dal suo passato rimane un’abitudine tenace, tanto sul litorale quanto nell’entroterra. La «patria dei miti» ha sofferto delle mitologie che essa stessa ha generato o che altri hanno nutrito. Questo spazio ricco di storia è stato vittima degli storicismi. La tendenza a confondere la rappresentazione della realtà con la realtà stessa si perpetua: l’immagine del Mediterraneo e il Mediterraneo reale non s’identificano affatto. Un’identità dell’essere, amplificandosi, eclissa o respinge un’identità del fare, mal definita. La retrospettiva continua ad avere la meglio sulla prospettiva. Ed è così che lo stesso pensiero rimane prigioniero degli stereotipi.

(traduzione di Giacomo Scotti)

L’EUROPA E “L’ALTRA EUROPA”



Confondere la civiltà europea con la civiltà universale è una tentazione ben nota in Europa. Dare ad una realtà concreta e contingente un significato quasi assoluto è un errore comune. Sarebbe più utile in quest’occasione discutere delle aspettative e delle attese di una parte dell’Europa nei confronti dell’altra. Occorre, forse, innanzitutto definire o chiarire alcuni concetti e termini.
Europa dell’Est è stata una designazione più politica e ideologica che geografica e culturale, imposta dalla Seconda guerra mondiale e dalla Guerra Fredda. Questo nome è diventato desueto, viene sostituito da un altro, altrettanto impreciso: Europa centrale e orientale. L’Europa centrale comprende anche paesi che – come l’Austria o la Svizzera – non sono stati assoggettati dai regimi «comunisti» dell’Est.
L’Altra Europa è anch’essa una nozione mal definita, forse di proposito. Che cos’è altro in questa parte dell’Europa e che cos’è europeo in questa alterità? Nessuno ha risposto a questa domanda, non so nemmeno se sia mai stata formulata. L’Europa nel suo insieme non è più ciò che era una volta. Anche quello che chiamavamo il Terzo Mondo è cambiato e alcuni parlano già di un Quarto Mondo.
Una parte dell’Altra Europa dei giorni nostri fa apparentemente parte del Terzo Mondo: resti dell’impero sovietico, vestigia dell’antica Russia, della Bielorussia o dell’Ucraina, gran parte della ex-Jugoslavia disgregata, i confini dei Balcani, della Bulgaria, dell’Albania o della Romania, fors’anche della Grecia o della Turchia. Dopo un rivolgimento tanto violento quanto inatteso, le nozioni di Europa occidentale e orientale sembrano finalmente corrispondere ai punti cardinali. Ci si potrebbe rallegrare di questo buon uso delle parole se le cose in sé si presentassero diversamente.
Se l’Altra Europa è una denominazione ambigua, la realtà cui si riferisce non lo è meno. Oggi questa realtà la possiamo scorgere com'è o come dovrebbe essere. La retorica si adatta a queste ambivalenze. La politica ne trae vantaggio. La retorica politica ne abusa.
Si tratta di pensare l’Europa prendendo in considerazione i valori della cultura e della civiltà che la caratterizzano. Evitare di adottare solo i progetti particolari, che talvolta nascondono piatti interessi politico-economici. Questo sembra essere di massima urgenza nel momento in cui l’Europa stessa crea la sua definizione e prepara, non senza difficoltà, la Costituzione dell’Unione europea. L’allargamento dell’Unione conferisce ad un tal compito una straordinaria rilevanza.
Ogni tentativo simile esordisce o si conclude con una domanda ad un tempo banale ed imprescindibile: «Quale Europa?» L’abbiamo sentita, tante volte, in diversi contesti, dall’Europa del carbone e dell’acciaio fino a quella di Maastricht, di Amsterdam, di Nizza e dell’euro. Forse è utile rievocare alcuni termini in cui quella domanda era posta e salvare dall’oblio certe idee dei nostri predecessori. Alcune di esse hanno conservato tutta la loro attualità: «L’Europa sarà seria o non sarà... Sarà più scientifica che letteraria, più intellettuale che artistica. Per molti di noi questa lezione sarà crudele». Così ci ammoniva Julien Benda nel suo Discorso alla nazione europea, scritto alla vigilia di una guerra che sarebbe stata europea prima di diventare mondiale. Potremmo modificare alcuni accenti di tali messe in guardia o apportarvi, nello stesso spirito, qualche aggiunta.
Sarebbe auspicabile che l’Europa odierna fosse meno eurocentrica di quella del passato, più aperta al cosiddetto Terzo Mondo dell’Europa colonialista, meno egoista dell’«Europa delle nazioni», più Europa dei cittadini e meno Europa degli stati che si sono fatti tante guerre fra loro. Una Europa più consapevole di se stessa e meno soggetta all’americanizzazione. Sarebbe utopistico aspettarsi che diventasse, in un futuro prevedibile, più culturale che commerciale, più cosmopolita che comunitaria, più comprensiva che arrogante, più accogliente che orgogliosa e, in fin dei conti, perché no, più socialista dal volto umano (nel senso che i dissidenti dell’ex Europa dell’Est, per esempio un Sacharov, davano a questo termine) e meno capitalista senza volto.



È legittimo chiedere quale sarebbe l’«altra Europa», che si trova di fronte a queste alternative. Nella maggior parte dei cosiddetti «paesi dell’Est», il post-comunismo non è ancora riuscito a «raggiungere» i regimi che si dicevano comunisti (come livello di vita e di produzione, scambi economici, sicurezza sociale, regime pensionistico, eccetera). Per citare solo un esempio: la Slovenia, uno dei nuovi stati partiti meglio, ha impiegato quasi otto anni per raggiungere la stessa Slovenia – la sua produttività dell’inizio degli anni novanta. Questa considerazione non ha lo scopo di riabilitare le pratiche ben conosciute di un socialismo che si è autoproclamato «reale». Le transizioni di questi paesi durano molto più a lungo del previsto. Riescono soltanto eccezionalmente a diventare vere trasformazioni. (Occorre distinguere meglio queste due nozioni: la transizione è basata su ipotesi, la trasformazione è un risultato).
Il cattivo odore dell’ancien régime ristagna ancora in molte zone del nostro continente e fuori di esso. Si tratta di una realtà che sembra già compiuta pur senza concludersi o raggiungere una forma accettabile. È una situazione difficile da sopportare e dalla quale non ci si riesce ad affrancare. Molti becchini si danno invano da fare, senza riuscire a sbarazzarsi delle spoglie. È un ruolo tutt’altro che gradevole.
Più di un regime proclama in modo ostentato la democrazia senza pervenire a fornirne un’apparenza appena credibile: tra passato e presente si determina uno iato, tra presente e avvenire si svolge l'ibrido incontro tra un auspicio di emancipazione e un residuo di assoggettamento. Da più di otto anni, io chiamo questo non-luogo ambiguo con il nome di «democratura».
Vi si fanno spartizioni senza che rimanga granché da spartire. Si è creduto di conquistare il presente e non si riesce nemmeno ad avere ragione del passato. Vi nascono certe libertà senza che si sappia sempre cosa farne, rischiando di abusarne. In questi paesi è stato necessario difendere un patrimonio nazionale – ed oggi bisogna, in molti casi, difendersi da quello stesso patrimonio. Altrettanto dicasi per la memoria: si doveva salvaguardarla – ed essa sembra adesso voler punire quelli stessi che l’avevano salvata.
So bene che non si possono generalizzare queste constatazioni un po’ forzate: ciò che vale per l’Albania, o per certe componenti dell’ex-Jugoslavia, non può essere applicato allo stesso titolo per la Bulgaria, la Romania o la Russia. La situazione bulgara, rumena o russa non è comparabile con quella dell’Ungheria, della Polonia o, soprattutto, con quella della Repubblica Ceca o della Slovenia. La Croazia si trova fra i due gruppi – dietro la Slovenia, prima della Serbia-Montenegro, di una Macedonia esaurita o della Bosnia esangue. Io le auguro un avvenire degno di essa.
Il ritorno al passato è soltanto una chimera, il ritorno del passato è una vera tragedia. Riprendere le forme più primitive del capitalismo selvaggio – che lo stesso capitalismo contemporaneo ha abbandonato – non può sostenere nessun tipo di ricostruzione né incoraggiare rinnovamenti. L’idolatria dell’«economia del mercato» dà scarsi risultati laddove manca lo stesso mercato e, qualche volta, fatalmente, la mercanzia!