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In sonno e in veglia Corpo celeste Angelici dolori - Anna Maria Ortese



lunedì 04 giugno 2007 legge Lisa Bentini
Dipinta come un “uccello schivo e spaurito”, Anna Maria Ortese si trovò spesso ai margini della scena letteraria del Novecento e non sempre per colpa della sua natura discreta. Molto è dipeso dalla disattenzione della critica, dalla difficoltà di collocare la scrittrice dentro una precisa corrente letteraria. Anna Maria Ortese, nella sua attitudine a lavorare sui margini dei generi letterari, con una produzione variegata e vastissima,  ha sempre preferito sostare in un luogo di passaggio tra la luce e l’ombra, come a dire in sonno e in veglia. La creaturalità del pensiero ortesiano, la riflessione sul senso del Luogo e del Tempo, la condanna dell’arroganza del genere umano, la scrittura come requiem del passato sono tutti temi di una forza e attualità sorprendenti, di cui oggi nuovi contributi critici si stanno accorgendo.  

Dove il tempo è un altro

All’inizio della prima guerra mondiale – il tempo in cui sono nata – le divisioni sociali presenti in Italia come in molte parti del mondo non erano, credo, così dolorose come oggi, né soprattutto erano evidenti. La mia famiglia, origine centro-meridionale, di modestissima condizione, quasi povera, nove persone in tutto – tra le quali sei bambini -, seppe certamente le angustie del vivere economico, ma almeno per quel che riguardava i bambini, non se ne accorse. Quindi, benché nata in condizioni assai disagiate, spesso tristi, e soprattutto in un grande vuoto di cultura e di sicurezza, io non me ne accorsi, e forse non ne soffersi, fino all’adolescenza. A questo punto, altri problemi s’inserirono nel contesto della mia vita, che ben presto divennero un solo problema: l’espressione. Il primo problema, la sopravvivenza – il problema, per così dire, generale, e che mi avrebbe accompagnata tutta la vita – accostò questo secondo e ugualmente forte problema, ora complicandolo, ora attenuandolo. In certi momenti, ho creduto perfino che il mio solo problema fosse rimasta l’espressione; poi ho dovuto ammettere che il primo problema restava,. E ora i due, come il famoso corvo di Poe, dalla soglia della mia vita non si muovono più. La mia vita è la loro casa.
Ma cos’è questo problema espressivo tanto forte da gareggiare con lo stesso problema della sopravvivenza, e questo per quaranta, cinquanta anni?
(…)
Non vorrei indulgere a un sentimento molto privato – e peggio ancora: compiaciuto – di ciò che intendo per espressione. E devo quindi riportare la parola espressione al suo valore d’intelligenza, più che di sentimento, di sistemazione logica delle cose più che di vanità del trovarsi, come uno specchio, in mezzo ad esse. Ho detto la parola cose: e questa parola, man mano che una curiosa facoltà ci presenta queste cose nella loro molteplicità e varietà e mutamenti senza fine, si colma di un senso, e significato, speciale che – per quando mi riguarda, e riguarda la mia esperienza – vorrei chiamare “stranezza”. Ecco, se dovessi definire tutto quanto mi circonda: le cose, nella loro infinità, o il mio sentimento intorno alle cose, e questo da mezzo secolo circa, io non potrei adoperare altra parola che questa: stranezza. E desiderio – anzi urgenza dolorosa – di rendere, nei miei scritti, il sentimento della stranezza.
All’adulto, e ai popoli molto colti, tutto il mondo è il mondo dell’ovvio, del luogo comune. L’uomo, perciò, applica i suoi cartellini col prezzo e, occorrendolo, le informazioni sulla merce, sull’uso, dovunque. Questo è un campo, questo è l’oceano, questo è un cavallo, questa è la propria madre, questa è la bandiera nazionale, questi sono due ragazzini. Ma per il fanciullo, e l’adolescente, e anche per un certo tipo di artista – un po’ meno di scrittore – non è così! Dovunque egli s’inoltri, tutto risplende di una luce senza origine. Ogni cosa che egli tocca - la bandiera, un cavallo, l’oceano, scotta e lo folgora di stupore. Egli capisce ciò che l’adulto non capisce più: il mondo è un corpo celeste, e tutte le cose, nel mondo e fuori, sono di materia celeste, e la loro natura, e il loro senso – tranne una folgorante dolcezza – sono insondabili. Ogni cosa che il ragazzo tocca o vede passare, lo fa piangere; chiede inutilmente alla ragione o ai superiori una spiegazione sul perché o il come di tali magnificenze; di solito i superiori (maestri e genitori compresi) non sono più informati e attenti di un calamaio. Il ragazzo è solo. Il suo approssimarsi – e poi la caduta, spesso uno scontro con la terra e il mondo cosiddetto reale – avviene così. E’ un’estasi, o un impatto. Avere in queste circostanze, mezzi espressivi, essere educati a usare questi mezzi, potrebbe voler dire essere forniti di un paraurti, o un paracadute. Significherebbe entrare nel mondo – del reale – per il verso giusto e proprio all’anima dell’uomo, che è il fatto creativo. Quando ciò non avviene, e il bambino entra nel mondo esclusivamente attraverso la proprietà di oggetti di mercato, in lui resta un’ansia, un vuoto, che spesso si fa amara insoddisfazione – sebbene egli abbia tutto – o ira. Perché nella sua educazione, o nascita al mondo, è mancato l’apporto della sua propria invenzione e creatività. Egli ha trovato tutto già fatto. E il tutto fatto- da altri – che lo distruggerà, come un muro vuoto, egli, da quando si accorgerà della propria amputazione fantastica, o creativa, vorrà distruggere. Così, ho sempre pensato che il problema massimo del mondo – e della sua pace, anche se relativa – sia avere dei bambini in grado di entrare nel mondo cosiddetto adulto creando, essi stessi, e non, invece, appropriandosi distruggendo. Creare è una forma di maternità: educa, rende felici e adulti in senso buono. Non creare è morire, e, prima, irrimediabilmente invecchiare.


(…)
Oltre alle cose e volti insondabili che erompono quotidianamente dal vivere, e la cui bellezza ed evanescenza desideravo appassionatamente fermare, mi ero accorta che esistevano alcune proprietà o cadute del vivere, la cui natura era altrettanto insondabile. Una di queste, per esempio, era la immensità e sonnolenza e pace dello spazio. Tale esperienza avevo fatto in Libia, tra i nove e i tredici anni, forse: come la natura, sabbia e cielo, conosca immobilità ed estensione, nell’immobilità, di sogno. Ma poi, varcando il mare per rientrare in Italia, durante un viaggio di due giorni, mi colpì in modo intenso il duplice moto risultante dalla nave che solca l’acqua azzurra, e dall’acqua azzurra che, pur non essendo più la medesima di un attimo prima, si presenta come la medesima. Il medesimo luogo, pensavo, non vuol dire dunque l’identico tempo e situazione. Questo doppio scorrere del meccanismo – vita e luogo nel meccanismo tempo – fu per me in ombra. La nave correva correva, e io sempre a guarda lo stesso mare, e intanto la situazione della nave era altra: in luogo apparentemente uguale ma diverso; e quello di prima, il luogo di ieri, era irrevocabilmente sparito. Così, le cose passavano! E irrevocabilmente, sembrava. Perciò, tutto quanto accadeva, se la sua parte seconda era il non esistere più, era cosa illusoria. Questa qualità del tempo, di formare le cose per poi cancellarle, agì in modo profondo sulla mia mente, insieme alle forme, e di continuo mi si proponeva come un enigma. Il tempo si consumava: che ne era delle forme espresse da ogni tempo?
Una di queste forme - per tornare al fatto che m’impedì di studiare ancora musica – era uno dei miei fratelli, che in verità conoscevo poco. Non aveva neppure lui voluto o potuto studiare, e da due anni era imbarcato su qualche nave. Ora, una sera di gennaio giunse la notizia che era morto, in un mare o un luogo lontano, e non sarebbe tornato più alla casa di Napoli e alla vita familiare.
L’effetto di questa notizia, sulla casa, fu dapprima una specie d’inferno, ma successivamente uno strano silenzio. Secondo me questo silenzio, che segue tutte le scomparse anche di piccoli animali amati, corrisponde a una specie di svenimento dell’anima. Un’amputazione è avvenuta: una parte dell’anima se n’è andata per sempre. E l’anima reagisce smettendo di ascoltare qualsiasi rumore o suono o voce della circostante natura o della stessa proprio vita. Questo silenzio è della stessa natura, credo, del grande e immoto AZUR dei cieli africani – o di altri estesi continenti – e in questo silenzio c’è lo stesso rombo silenzioso del mare che precipita dietro la nave. Dunque, oltre l’AZUR, o anima felice del mondo, ecco i suoi eventi massimi: tempo, lo scorrere eterno e lo svanire di tutto, ed ecco la risposta della natura o dell’anima: il tacere improvviso, il piombare in se stessa, della creatura colpita. Per cui è straordinariamente vera la raffigurazione che Dante dà di un’anima di colpo ferita, o privata di una parte di sé, quando dice di Cavalcante che, alla creduta morte del figlio, dopo aver gridato: “come?/dicesti elli ebbe?non viv’elli ancora?” ripiomba nell’arca ardente e non riappare mai più.
Questo silenzio, almeno per me che ero sempre sola (mia madre poteva comunicare nella fede cristiana, i miei fratelli avevano la scuola e mio padre l’ufficio) durò qualche mese, e non vedevo modi di uscirne. Alla fine un giorno – anzi una mattina - ,improvvisamente pensai che, se non altro, dato che ne morivo, potevo descriverlo. E mi misi al tavolino e scrissi una lunga poesia intitolata Manuele, in cui raccontavo, parlandone all’ombra del marinaio, questo silenzio. E questa fu la mia prima poesia; ma poiché non ho scritto - poi – molte poesie, ma soprattutto racconti, fu anche la mia prima prova scritta: rendere con la parola scritta, e un sentimento calmo – rendere in modo estatico - , qualcosa di atroce e soprattutto insondabile.
Questo fenomeno apocalittico (ma anche incantatore) del vivere, essendo tanto intenso, e sfuggente a qualsiasi prova o analisi di parte – essendo l’insondabile o inafferrabile stesso - non si può rendere che in un stato d’animo contrario, che indicherò come: l’ammirazione o contemplazione della sua immensità e (per noi) ferocia. L’uomo colpito prenda uno strumento musicale – in questo caso il verso – e cominci a trarne alcuni suoni calmi e sorridenti: in questa calma e questo sorriso soltanto egli potrà imprigionare l’orrore che ha subito. E’ il caso dello specchio. Solo una superficie gelida ed elegante – assolutamente immobile- potrà riprendere il moto scompigliato di un albero scosso dal vento, o il levarsi fresco di belva di un’onda verde del mare: Il mare non riflette il mare, né l’albero l’albero. Solo in qualcosa di natura profondamente diversa e contraria, la natura e l’animo tragico delle cose si riflettono. Questo è ciò che si dice qualità estetica. E’ la qualità dello specchio, che si oppone – e perciò la cattura - alla cosa specchiata. E se volete riprendere un mare in tempesta, o gli orrori di una guerra, siate calmi – e mettete tra voi e queste cose la distanza scaturita dal vostro stesso doloroso silenzio.


Anna Maria Ortese, In sonno e in veglia, Milano, Adelphi 1987

Piccolo drago (conversazione)

La sua esistenza, e purtroppo i suoi libri, riflettono un sentimento quasi continuo di “estraneità” e di “paura”. Da che cosa può essere derivato questo terrore sottile del vivere? Esperienza, oppure una “macchia” di natura?

Forse una macchia, vorrei dire una specie di smarrimento visivo (di un visivo interiore); che non consentiva di mettere a fuoco le cose, e soprattutto gli avvenimenti. All’inizio – parlo dell’inizio del vivere – era un vacillare e un confondersi continuo. Tutto era infinitamente più grande, più mutevole, più bizzarro di quanto io potessi capire. Non capivo neppure i rapporti tra le persone che mi stavano intorno: donne e bambini. E poi le cose! Tutte piene di messaggi indecifrabili, minacciosi, raramente lieti. Mi ricordo per esempio una delle prime sere della mia vita, in una casa quasi in campagna, molto povera. La finestra era aperta e si accostava un temporale. Si sentiva il vento. Venne un uomo (molto scuro) con un messaggio. Come mia madre (o mia nonna) lo apersero, entrarono subito nella stanza a prendere del denaro che era sul tavolo. Ma forse perché la porta aperta aveva formato una corrente, il vento, che era fuori improvvisamente vorticò per la stanza, e rapì letteralmente il denaro che era sul tavolo: un biglietto da dieci lire – più o meno non saprei. Questo biglietto era la Pigione. Lo rapì e lo portò, fuori dalla finestra, in un bosco che era dall’altra parte della via. Subito mia nonna (mia madre rimase con me), corse fuori, corse nel bosco a cercare queste preziose dieci lire. E intanto tuonava, cominciava a piovere, e mia madre pregava l’uomo con mille parole tenere e supplichevoli di volerci scusare: il vento aveva rubato la Pigione! L’uomo non ci credeva, minacciava. Non credo che mia nonna trovò più il denaro, perché pioveva sempre più forte, e il bosco era buio. Da un episodio come questo, minimo e fantastico, io dedussi qualcosa di terribile: fuori dalla casa, dalle già meravigliose mura delle stanze, c’erano potenze che esigevano una tassa (se volevamo vivere!) altrimenti guai! E c’erano il Bosco e il Vento, come malandrini, che rubavano il denaro nelle case, e lo nascondevano, per mettere la gente alla disperazione. Nacque l’idea di una dipendenza da cose formidabili che erano sempre fuori dalle mura domestiche. E questa idea – sebbene più chiara – la conservo tuttora, ed è un’idea malinconica. Non vado volentieri fuori casa.

Ma non è soltanto il denaro, penso, o la sua forza, il suo potere sulle cose piccole, che l’atterrisce, non è così? Non soltanto la paura del denaro eterno, che comanda su chi non ne ha – non soltanto questo è il motivo dell’inquietudine, nei suoi libri…

Infatti, non solo questo. Ho paura della forza. Ho paura delle armi, l’autorità, il diritto (delle armi e delle autorità): paura dei Romani antichi, ma soprattutto di San Michele. Anche per questo devo rifarmi a tempi lontani, la prima guerra. Mio padre era lontano, era come se non lo avessi mai conosciuto; appunto, alla guerra. In casa c’erano solo donne e bambini. Per mia natura (adesso credo: paura, timidezza), io non parlavo mai con nessuno. Tutte le figure mi apparivano terribilmente grandi; grandi le pareti, i mobili le finestre… Questo era penoso. Una notte feci un sogno. Mi trovavo, di giorno, nella stanzetta da pranzo, con i fratelli e la Nonna. C’era un gran silenzio. Il sole filtrava dalle persiane chiuse e illuminava la tavola senza tovaglia, con una sola bottiglia verde e nera nel centro. Io ero seduta nel mio seggiolone. Di
là, dietro la porta che metteva nella stanza della Nonna, si sente uno scricchiolio. La Nonna si alza, e va a vedere. Torna dopo un momento e dice, molto pallida e triste: “Di là c’è il Drago, e vuole uno di voi”. Il silenzio continuò. Forse uno dei miei fratelli piccoli piangeva o era adirato. Di colpo, io scesi dalla mia sedia, e mi diressi verso la stanza. Spinsi la porta. C’era una diffusa luce rossa dalle grandi pareti rivestite di carta rossa a fiori. Tutto il mobilio della stanza, un grande armadio di noce, attrasse la mia attenzione. Una delle ante, quella destra, era dischiusa, e qualcosa di verde brillava e si moveva nella fessura, come una gonna… Poi vidi la coda e le manine del Drago, che si preparava a scendere. Scese. Una specie di coccodrillo, col petto bianco, la bocca rossa, aperta, e occhi infinitamente affettuosi, benevoli… Sembrava un bambino, sembrava che mi conoscesse. E io pensavo: “Come può volermi mangiare?” Sempre guardandomi – ma facendo fatica dato il suo peso - la povera Bestia veniva avanti. Ed ecco che alla mia sinistra, sulla parete immensa, prese corpo una figura magnifica e ugualmente immensa, con gonnellino rosso, con elmo, con corazza e spada. Era l’Arcangelo Michele (di cui erano molte immagini in un ripostiglio della casa). Uscì quasi dal muro, allungò un braccio e mi consegnò la spada. Mi trovai in piedi sul collo della Bestia, armata – io alta appena qualche centimetro - e con un ordine dell’Angelo. La Bestia non aveva capito. Mi guardò, e un attimo dopo si rovesciò sul dorso. Un fiume rosso usciva dalla sua bocca, come fosse stoffa, ma gli occhi restavano dolci e calmi. Anzi, tutto l’oro del tramonto li sommerse, e da quell’oro - e dai fiori e la stoffa rossa che uscivano dalla sua bocca – veniva una voce meravigliosa, fievole: “Io ti volevo bene” diceva “volevo regalarti una cosa…E tu mi fai male…”e qui seguì un diminutivo del mio nome. Cercavo a terra la cosa che mi voleva regalare, la cercai con terrore e disperazione perché non la meritavo. Entrò la Nonna. L’arcangelo rientrò nel muro. Steso a terra, il Drago sbiadiva come una luce. Raccolsi allora la spada, piccola e rotta. Il sogno sparì. Una emozione intensa, sconosciuta viveva adesso nel mio cuore… Il dolore dato (era stato un grande dolore, io avevo ucciso) a un amico, un piccino, una creatura così buona. Avessi potuto piangere. Ma di questo non piansi mai. Solo mutai, dentro di me, nel senso che guardai il San Michele con orrore, e identificai l’Ordine Celeste (in breve: la Salvezza) con una spietatezza indicibile. D’allora, guardai sempre con cautela in tutti i mobili, nei luoghi calmi e scuri. Ogni volta che sentivo il gemito di una bestia, mi sentivo rimescolare. .. E non potei mai più pensare di essere “buona”, una creatura come loro… Avevo un peccato. Tutti gli uomini avevano un peccato e un debito immenso da pagare.

Anna Maria Ortese, Angelici dolori, Milano, Adelphi 2006

L’alone grigio

Tutto cominciò in modo da non destare sospetti. Sembrava una semplice triste stagione... Il mese precedente era stato bello, e fino all'uno, due maggio, fu così. Poi cambiò: una nuvola, nel pomeriggio, che però tornò il pomeriggio seguente; tre giorni dopo pioveva, non fitto, ma così da obbligare ciascuno a soprascarpe e ombrello, e ciascuno, guardando le proprie stanze così scurette, diceva afflitto: « Sembra tornato novembre ».
Sempre, in quella stagione, era stato così, ma ora – un mese era passato - novembre non se ne andava. C'erano state brevi apparizioni di sole, ma subito fuggite, e quando il sole spariva, tutti potevano vedere, quelli che alzavano il capo, un breve alone grigio intorno al fulgido disco.

Le ombre, degli uomini e delle case, sulla terra, poiché quel
disco era più fulgido del normale, apparivano più scure e nette: ma l'aria, come se al posto del sole fosse non so che sconosciuto astro, aveva un che di tenebre.
Tutto maggio piovve, e poi anche giugno. I fiori, sulle piante, erano di un colore intenso, il rosa era purpuree le foglie color malva degli alberi apparivano di un intenso smeraldo.
Vi erano eruzioni di vulcani un po’ dovunque, strane maree, mareggiate di un biancore intenso. La sera, davanti al video, eravamo tutti come affascinati.
Poi i giornali cominciarono a parlare in modo poco usuale, con umiltà,direi e così il radio giornale. Sembrava in questione Saturno. Altri smentivano.
Per quanto ne so, dal modo come vivevo, nella mia vecchia casa un po' misera, trascurata, era qualcosa che non mi riguardava. Debiti, lavori urgenti da finire, e il senso -non troppo bello - di una vita sbagliata, di un mondo sbagliato. Insomma, dei nuovi fatti non mi preoccupavo... Direi, anzi, che qualcosa, in me, li osservava con una curiosità, una attenzione non malevola.
Il 15 giugno venne su la signora Bianchi. Aveva il marito infermo da dicembre, era preoccupata, non per sé, per lui, mi disse... Molto, molto accorato... Dai giornali aveva saputo... intuiva tutto. Non avevo nulla da dire, parole di conforto, voglio dire; cercai di sorridere, le offersi del vino. Ne prese appena un'ombra:
«E quel che si dice... che torneranno? Sarà vero? Lei ci
crede? ».
«Non se la prenda, in questi casi occorre la calma! ».
Aveva gli occhi (grandi, verdi) pieni di umidore, di tremore, e anche di una commozione che mi riusciva nuova.
Essa andò via dal nostro caseggiato due giorni dopo: aveva ricevuto un telegramma. Si portò con sé il marito e le due figlie. Non la vidi più.
Altri inquilini, nello stabile, sloggiavano, chiamati da un telegramma, una lettera, una telefonata intercomunale; altri, invece, aprivano la porta a nuovi parenti... cioè, parenti che avevano dimenticati.
Non mi riusciva più di lavorare. Verso la fine di giugno giunse mia madre, e il dì successivo mio padre.
Non vi fu, a quanto ricordo, nessuna speciale emozione in questo ritorno dal mondo delle ombre. Forse per che essi non avevano affatto l'aspetto di ombre. Così li ricordavo nei giorni modesti della nostra vita: sani, non eccessivamente robusti, ma sani, non eccessivamente rigogliosi, ma vitali e completamente in sé, in abiti civili. Avevano borse nere, da poveri, con un po’ di biancheria povera, una spazzola, e così via. Io non chiesi loro dove erano stati, sapevo che non era possibile parlare di cose simili, né essi a me come avevo vissuto, che n’era stato della mia gioventù. Ma ci abbracciammo affettuosamente.
In quel tempo, tenevo con me in camera una Bibbia, e ogni tanto, quando quel pensiero fìsso, ornai, mi ossessionava, l'aprivo e cercavo un po' di conforto: forse era un errore, forse le cose non erano così gravi.
La sera, i miei sostavano un po' davanti al televisore, come fanciulli, nella cameretta in penombra. Servivo la cena, ma come bambini se ne dimenticavano. E scoprivo sempre, tra loro, occhiate timide, allusive, come di gente che sa, è al corrente di altre cose... Io credevo capire,non domandavo.
Intanto, i fenomeni, intorno, assumevano un'intensità sempre più inquietante, la popolazione era informata, qui e fuori. Stupiva il numero immenso di gente che tornava, e stupiva ancor più il sentimento affettuoso, di normale piacere e gioia, con cui era accolta. Si aggiungeva a questi ritorni, un altro fatto sottilmente terrificante: tutte le partenze erano cessate. I malati e i vecchi non se ne andavano più. Tutte le partenze erano sospese, cessate. Anche perciò i viveri scarseggiavano. Il latte, da un mese introvabile. Ora anche il pane. Furono immessi, sul mercato, immensi quantitativi di castagne, ed era curioso mangiarle, lesse o arrosto, come da bambini, in anni ormai persi.
Verso la fine di luglio le alluvioni, le frane, le eruzioni avevano ormai bloccato mezza terra, la luce era erogata solo in alcune zone dell'Europa centrale, Inghilterra e Francia al buio, Belgio e Olanda con sole candele, in America, in pieno giorno, si presentò un'aurora boreale, che illuminò tutto quell'immenso continente, dal Canada alla Virginia. A Washington, la Casa Bianca era sfarzosamente illuminata da torce: il presidente assassinato era tornato, in una carrozza chiusa che era rimasta tutta notte davanti al giardino. e si diceva che in quella carrozza
era anche Lincoln.
La nostra televisione, (funzionante ad aria), ci diede un’immagine di un’intensità incredibile, malgrado le righe e il tremolio continuo. K. aveva gli occhi pieni di lacrime, ime, e una mano alzata a coprire la nuca, come se ancora gli facesse male. Gridava qualcosa, tra le lacrime, guardando tutti con un'espressione interrogante, amabi-
e, terribile. Poi, non vi fu che la folla, immensa marea di teste. Passavano dei cantanti, delle bandiere. La carrozza di Lincoln fu infiorata... Ma Lincoln non uscì, o, forse, non lo vedemmo.
Il secondo giorno dopo questo fatto, lo schermo inquadrò turbe d'indigeni a cavallo. L'America ne era coperta. Urlavano vittoriosi. Molti scendevano da cavallo e s'inginocchiavano commossi, toccando più volte, con la fronte, il suolo della patria amata. Le città andavano scomparendo sotto la furia delle maree: solo a New York, l'acqua era alta decine e decine di torbidi metri verdi e bianchi, praticamente N.Y. non esisteva più. Il terzo giorno, l'Oceano fu pieno di legni all'aspetto cadenti, grigi, come palazzi disabitati; e non erano disabitati: gli spagnoli di Diaz, gli inglesi di Enrico, gli Olandesi, i Genovesi, tutti ritornavano.
Quell'Oceano, ne gettava fuori come la rete getta il pesce: a miriadi. E cercavano terra dove le maree non erano arrivate, e dove perciò era possibile sbarcare.
Il quarto giorno (mentre ciò accadeva in America), in Russia apparvero tutti gli Zar, in grande uniforme, con le Zarine al fianco, e si riunirono, negli ex palazzi reali, con le guardie rosse e gli antichi commissari del popolo.
In tutti gli altri continenti, era lo stesso caos, lo stesso sommovimento del tempo fisico e storico. Gente di età remote tornava con naturalezza, orde di barbari rallegrate da questo improvviso rimpatrio, invadevano le città musulmane, le indiane... Al Cairo, i Faraoni in gran gala sollevarono un'ondata di perplessità: già, in quelle terre bagnate dal Nilo, la gente aveva per ideale Roma o Londra, le eccentricità non entusiasmavano.
Comunque, anime liete e contente dovunque. Il tempo era annullato, la fatale paura che l'uomo si porta nel
sangue fin da bimbo, e credo che lo faccia tanto tremare
e gridare, che tutto passa e non torna, che una cascata
immensa è la vita, le cui acque mai più non risalgono, tale paura era annullata. Ora vi era certezza;e si poteva osservare una cosa buffa: nessuno aveva paura di essere giudicato: segno che l’umanità, in sostanza, era profondamente incolpevole.
Tornarono, per le vie di Londra, i grandi mostri degli
ultimi secoli, allampanati, scuri in viso, e si mescolavano
ai re, alle regine, ai grandi poeti... Cominciò a cadere
una pioggia di fango rossastro, pesante come piombo, e
buona parte della popolazione era bendata. A Parigi, i
grandi chansonnier rivivevano, davano spettacolo: in platea, miti, la regina decapitata, le duchesse in crinolina; accanto alle popolane, alle eroine. Dumas, un giorno, fece una piazzata: tutti e quattro i suoi cavalieri di Parigi, con il ragazzo di Guascogna avanti a tutti, attraversarono la città, diretti all'Etoile: volevano ridare al re il governo di Parigi.
I giornali erano pieni di titoli; presto, però, smisero di
uscire. Ricomparvero bandi, sui muri, editti, che raccomandavano la calma e invitavano gli uomini a confidare
in Dio.
Le fabbriche erano chiuse ormai da tre mesi. Tutti gli
operai eternamente al caffè, a ragionare. La notte, ormai, si rincasava presto.
Cominciò a mancare l'aria, la tv perciò diradò i suoi
programmi. Si pativa, e insieme c'era una grande quiete.
II 29 di settembre, il sole apparve circondato da due
aloni, uno verde uno nero, trafitti da solo due o tre raggi; ma splendidissimi.
Il 30, non si alzò all'orizzonte più di un palmo, e tutto
il giorno non fu che una lunga sera.
Il 1° di ottobre, ogni città vide il mare profilarsi all'orizzonte. La baldoria era finita, ora la terra si apriva.
Seguì un grande silenzio. Per due, tre giorni era sempre sera, e vasto infinito silenzio. Le piante si annerivano, e accartocciavano, come in un precoce inverno; gli uccelli tacevano.

Ho trascurato di notare, fin qui (forse perché i casi personali, in tali circostanze, non hanno alcun rilievo),. come il mio animo, al pari di quello di tanti che conoscevo fosse ritornato più che quieto. Tali fenomeni, io li ve vo ora come spettacolo. Dirò di più: tale spettacolo non m’interessava eccessivamente. Per una specie di deformazione spirituale, molto diffusa in quell'epoca, il mio animo continuava a essere interessato soprattutto dalle cose meschine di sempre: tanto per dirne una, come parlare al telefono, la cui bolletta, ultimamente, era stata assai alta. Insomma, non comprendevo.
Mi era accaduto, in secondo luogo, di avere un piccolo
diverbio, cosa da poco, ma che mi aveva turbata, con mia
madre. Infatti, essa mi aveva sempre raccomandato, fin
da quando ero fanciulla, di non volere, per carità, pettinarmi in modo complicato. Io, da fanciulla, avevo capelli
lunghi e neri, che pettinavo con la fila da un lato, e precisamente a destra. Ora non avevo più fila nè, soprattutto
capelli neri, mia madre mi guardava con occhio desolato
ed ecco che, una mattina (sempre sotto quel cielo plumbeo di sera) non si trattiene dal dirmi:
«Ah, che ne hai fatto dei tuoi capelli, figlia mia!».
Eravamo in bagno: io davanti allo specchio del lavabo, lei sulla soglia. Non potei trattenermi, e senza per questo girarmi, risposi con collera improvvisa: «Mamma, scusami, ma queste sono futilità! Tutto l’universo è perduto, e tu non lo vedi. Tu pensi ai miei capelli. Ma questo è perfino ridicolo».
Mio padre sentì, dal tinello dov’era, e venne, tutto pallido, alle spalle di mia madre;
«Che cosa vuoi dire con questo, Giulia, cara figlia!» chiese.
«Semplicemente quello che ho detto!” ma ero già pentita.
«Oh, noi non possiamo dirti… non possiamo» egli rispose come in un lamento. “Ma ora non dovresti offenderci…»
«Non offendo nessuno. Semplicemente rammento».
“Ma tu non rammenti tutto, ecco cosa. Non rammenti come, da bimba, eri chiusa e cattiva. E se non hai voluto studiare, che colpa noi ne avevamo?»
Era vero. Ma dopo tutto, anch0io che colpa avevo di essere così chiusa e cattiva? Forse si sceglie il proprio essere? Qualche fanciullo ha mai potuto scegliere il proprio essere?
«Lasciala stare, Giovanni.» Disse a questo punto, mestamente, mia madre. «Del resto, qualche colpa l’abbiamo avuta. Noi non eravamo molto responsabili, ti ricordi? A quel tempo. Noi non capivamo, l’immensa notte (disse proprio così) che agghiaccia il cuore dei figli!»
Ero commossa, benché non lo volessi dare a vedere. In
nel punto chiamarono al citofono: era la portinaia per
dirci che ritirassimo le piante dal terrazzo, se ci teneva-
mo: stavano bruciando.
Mentre mio padre rientrava in tinello a finire il suo povero caffè, io uscii sulla terrazza, e mia madre mi seguì.
Ma tracce d'incendio non ne scorsi, ed ebbi anzi, in quel
punto, la sensazione di un'enorme beffa, quasi un inganno dei sensi, di cui era vittima il mondo tutto. C'era, nell'aria, una luce grigia, ma tenera, niente affatto spettrale,
luce da settimana santa, e tutti i miei tre oleandri e l'albero di glicine, erano freschi e verdi.
«Ecco, si sono ripresi, Dio sia ringraziato» disse mia
madre accostandosi al glicine e accarezzandolo.
In quell'attimo, la vidi come in un'antica istantanea,
dimessa, grigia, e pure con un sorriso così acuto, dolce,
giovane. La contemplai. Essa non mi guardava.
«Mamma, non mi serbi rancore?» dissi.
«E come potrei...» disse quietamente.
« Io non ho più i bei capelli, ma tu mamma, li hai » dissi con un tremito nella voce. « Come spieghi questo? ».
«Nulla posso spiegarti, Giulia: ma non essere triste. Ecco cosa posso dirti: non essere triste... Ne ricambiare» aggiunse dopo un attimo d'incertezza «il male col male».
«Non lo farò... cercherò di non fare così, mamma, ti
assicuro».
Il mondo doveva finire all'alba del domani, almeno così assicuravano tutti. La sera precedente fu un gran
traffico: inquilini che si scambiavano scuse per non esser
si salutati per anni e anni; cameriere che restituivano
piangendo un fazzoletto rubato; bambini che telefonavano agli zii, ai nonni; amici che si riavvicinavano. Nella città era scesa la notte, l’ultima notte della terra.
La cattedrale, la vedevo dalla finestra, brillava con le mille cuspidi bianche.
Mia madre, che non amava stare senza far nulla, prese i suo lavoro d'uncinetto...
Mio padre si tuffò nella lettura di vecchi giornali. Io passai la notte in camera, a scrivere, vorticosamente, lettere su lettere: alla società dei telefoni, prima di tutto, poi ad Enti e amici vari che in varie occasioni mi avevano aiutato. Mi scusavo. Annotavo le cifre, per mostrare che on avevo dimenticato un solo denaro, riportavo somme. Di altro non mi curavo. Venne, nella stretta fessura della mia finestra, un primo chiarore; era una tenebra chiara, non una luce ancora oscura. E non si udiva un suono, un rumore.
«E’ fatta... ci siamo! » pensai.
Ho amato sempre e molto quel levarmi all'alba e correre in cucina a preparare il caffè. Anche quella mattina
mi affrettai. Ne presi una tazza subito, e due ne preparai
in un vassoietto per i miei vecchi amati. Ero contenta,
specie dopo quella lettera ai Telefoni, la coscienza tranquilla.
Andai in fondo al corridoio, bussai. Nessuna risposta. .....