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Il barone rampante - Italo Calvino



lunedì 11 giugno 2007 legge Alessandro Castellari
Calvino con il suo Barone ci pare che sottolinei proprio il momento in cui si impone la necessità di un maggiore perfezionamento degli strumenti letterari, di una più attenta e totale “letteralizzazione” dell’emozione artistica. Così contrariamente a quanto si dice, il Barone di Calvino non è tanto un esempio di serenità di scrittura, il risultato di un abbandono incantato e felice all’emozione poetica, quanto piuttosto il risultato di un progetto di violenza, il segno della consapevolezza che, per cogliere un sia pur piccolo brandello di realtà, è indispensabile abbandonare la posizione frontale, aggirarla, ricorrendo a tutta una serie di finzioni e di stratagemmi. La realtà non è immediatamente prendibile: il tentativo di afferrarla direttamente porta alle falsificazioni del Metello che non stringono alcun senso del reale, ma solo alcune sovrastrutture di esso, meccaniche e sorde.

Italo Calvino, Il Barone rampante, Milano, Garzanti (Gli Elefanti), maggio 1985, pp. 200-234.


XXI

Un giorno Cosimo guardava dal frassino. Brillò il sole, un raggio corse sul prato che da verde pisello diventò verde smeraldo. Laggiù nel nero del bosco di querce qualche fronda si mosse e ne balzò un cavallo. Il cavallo aveva in sella un cavaliere, nerovestito, con un mantello, no: una gonna; non era un cavaliere, era un'amazzone, correva a briglia sciolta ed era bionda.
A Cosimo cominciò a battere il cuore e lo prese la speranza che quell'amazzone si sarebbe avvicinata fino a poterla veder bene in viso, e che quel viso si sarebbe rivelato bellissimo. Ma oltre a quest'attesa del suo avvicinarsi e della sua bellezza c'era una terza attesa, un terzo ramo di speranza che s'intrecciava agli altri due ed era il desiderio che questa sempre più luminosa bellezza rispondesse a un bisogno di riconoscere un'impressione nota e quasi dimenticata, un ricordo di cui è rimasta solo una linea, un colore e si vorrebbe far riemergere tutto il resto o meglio ritrovarlo in qualcosa di presente.
E con quest'animo non vedeva l'ora che ella s'avvicinasse al margine del prato vicino a lui, dove torreggiavano i due pilastri dei leoni; ma quest'attesa cominciò a diventare dolorosa, perché s'era accorto che l'amazzone non tagliava il prato in linea retta verso i leoni, ma diagonalmente, cosicché sarebbe presto scomparsa di nuovo nel bosco.
Già stava per perderla di vista, quand'ella voltò bruscamente il cavallo e adesso tagliava il prato in un'altra diagonale che gliel'avrebbe portata certo un po' più vicina, ma l'avrebbe ugualmente fatta scomparire dalla parte opposta del prato.
In quel mentre Cosimo s'avvide con fastidio che dal bosco erano sbucati sul prato due cavalli marrone, montati da cavalieri, ma cercò di eliminare subito questo pensiero, decise che quei cavalieri non contavano nulla, bastava vedere come sbatacchiavano qua e là dietro a lei, certo non erano da tenere in nessuna considerazione, eppure, doveva ammettere, gli davano fastidio.
Ecco che l'amazzone, prima di scomparire dal prato, anche questa volta voltava il cavallo, ma lo voltava indietro, allontanandosi da Cosimo … No, ora il cavallo girava su se stesso e galoppava in qua, e la mossa pareva fatta apposta per disorientare i due cavalieri sbatacchioni, che difatti adesso se ne galoppavano lontano e non avevano ancora capito che lei correva in direzione opposta.
Ora ogni cosa andava veramente per il suo verso: l'amazzone galoppava nel sole, sempre più bella e sempre più rispondente a quella sete di ricordo di Cosimo, e l'unica cosa allarmante era il continuo zig-zag del suo percorso, che non lasciava prevedere nulla delle sue intenzioni. Nemmeno i due cavalieri capivano dove stesse andando, e cercavano di seguire le sue evoluzioni finendo per fare molta strada inutile, ma sempre con molta buona volontà e prestanza.
Ecco, in men che Cosimo s'aspettasse, la donna a cavallo era giunta al margine del prato vicino a lui, ora passava tra i due pilastri sormontati dai leoni quasi fossero stati messi per farle onore, e si voltava verso il prato e tutto quello che v'era al di là del prato con un largo gesto come d'addio, e galoppava avanti, passava sotto il frassino, e Cosimo ora l'aveva vista bene in viso e nella persona, eretta in sella, il viso di donna altera e insieme di fanciulla, la fronte felice di stare su quegli occhi, gli occhi felici di stare su quel viso, il naso la bocca il mento il collo ogni cosa di lei felice d'ogni altra cosa di lei, e tutto tutto tutto ricordava la ragazzina vista a dodici anni sull'altalena il primo giorno che passò sull'albero: Sofonisba Viola Violante di Ondariva.
Questa scoperta, ossia l'aver portato questa fin dal primo istante inconfessata scoperta al punto di poterla proclamare a se stesso, riempì Cosimo come d'una febbre. Volle gridare un richiamo, perché lei levasse lo sguardo sul frassino e lo vedesse, ma dalla gola gli uscì solo il verso della beccaccia e lei non si voltò.
Ora il cavallo bianco galoppava nel castagneto, e gli zoccoli battevano sui ricci sparsi a terra aprendoli e mostrando la scorza lignea e lucida del frutto. L'amazzone dirigeva il cavallo un po' in un verso un po' in un altro, e Cosimo ora la pensava già lontana e irraggiungibile, ora saltando d'albero in albero la rivedeva con sorpresa riapparire nella prospettiva dei tronchi, e in questo modo di muoversi dava sempre più fuoco al ricordo che fiammeggiava nella mente del Barone. Voleva farle giungere un appello, un segno della sua presenza, ma gli veniva alle labbra solo il fischio della pernice grigia e lei non gli prestava ascolto.
I due cavalieri che la seguivano, parevano capirne ancor meno le intenzioni e il percorso, e continuavano ad andare in direzioni sbagliate impigliandosi in roveti o infangandosi in pantani, mentre lei sfrecciava sicura e inafferrabile. Dava ogni tanto delle specie d'ordini o incitamenti ai cavalieri alzando il braccio col frustino o strappando il baccello d'un carrubo e lanciandolo, come a dire che bisognava andare in là. Subito i cavalieri si buttavano in quella direzione al galoppo per i prati e le ripe, ma lei s'era voltata da un'altra parte e non li guardava più.
«E’ lei! E’ lei!» pensava Cosimo sempre più infiammato di speranza e voleva gridare il suo nome ma dalle labbra non gli sortiva che un verso lungo e triste come quello del piviere.
Ora, avveniva che tutti questi andirivieni e inganni ai cavalieri e giochi si disponessero intorno ad una linea, che pur essendo irregolare e ondulata non escludeva una possibile intenzione. E indovinando quest'intenzione, e non reggendo più all'impresa impossibile di seguirla, Cosimo si disse: «Andrò in un posto che se è lei ci verrà. Anzi, non può essere qui che per andarci». E saltando per le sue vie, andò verso il vecchio parco abbandonato dei D'Ondariva.
In quell'ombra, in quell'aria piena d'aromi, in quel luogo dove le foglie e i legni avevano altro colore e altra sostanza, si sentì così preso dai ricordi della fanciullezza che quasi scordò l'amazzone, o se non la scordò si disse che poteva pure non esser lei e tanto già esser vera quest'attesa e speranza di lei che quasi era come se lei ci fosse.
Ma sentì un rumore. Era lo zoccolo del cavallo bianco sulla ghiaia. Veniva per il giardino non più di corsa, come se l'amazzone volesse guardare e riconoscere minutamente ogni cosa. Dei cavalieri sciocchi non si sentiva più alcun segno: doveva aver fatto perdere del tutto le sue tracce.
La vide: faceva il giro della vasca, del chioschetto, delle anfore. Guardava le piante divenute enormi, con pendenti radici aeree, le magnolie diventare un bosco. Ma non vedeva lui, lui che cercava di chiamarla col tubare dell'upupa, col trillo della pispola, coi suoni che si perdevano nel fitto cinguettio degli uccelli del giardino.
Era smontata di sella, andava a piedi conducendosi dietro il cavallo per le briglie. Giunse alla villa, lasciò il cavallo, entrò nel portico. Scoppiò a gridare: - Ortensia! Gaetano! Tarquinio! Qui c'è da dare il bianco, da riverniciare le persiane, da appendere gli arazzi! E voglio qui il tavolo, là la consolle, in mezzo la spinetta, e i quadri sono tutti da cambiar posto!
Cosimo s'accorse allora che quella casa che al suo sguardo distratto era parsa chiusa e disabitata come sempre, era invece adesso aperta, piena di persone, servitori che pulivano, rassettavano, davano aria, mettevano a posto mobili, sbattevano tappeti. Era Viola che ritornava, dunque, Viola che si ristabiliva a Ombrosa, che riprendeva possesso della villa da cui era partita bambina! E il batticuore di gioia in petto a Cosimo non era però molto dissimile da un batticuore di paura, perché essere lei tornata, averla sotto gli occhi così imprevedibile e fiera, poteva voler dire non averla mai più, nemmeno nel ricordo, nemmeno in quel segreto profumo di foglie e color della luce attraverso il verde, poteva voler dire che lui sarebbe stato obbligato a fuggirla e così fuggire anche la prima memori di lei fanciulla.
Con quest’alterno batticuore Cosimo la vedeva muoversi in mezzo alla servitù, facendo trasportare divani clavicembali cantoniere, e poi passare in fretta in giardino e rimontare a cavallo, rincorsa dallo stuolo della gente che attendeva ancora ordini, e adesso si rivolgeva ai giardinieri, dicendo come dovevano riordinare le aiole incolte e ridisporre nei viali la ghiaia portata via dalle piogge, e rimettere le sedie di vimini, l’altalena…
Dell’altalena indicò, con ampi gesti, il ramo dal quale era appesa una volta e doveva essere riappesa ora, e quanto lunghe dovevano essere le funi, e l’ampiezza della corsa, e così dicendo col gesto e lo sguardo andò fino all’albero di magnolia sul quale Cosimo una volta le era apparso. E sull’albero di magnolia, ecco, lo rivide.
Fu sorpresa. Molto. Non dicano. Certo, si riprese subito e fece la sufficiente, al suo solito modo, ma lì per lì fu molto sorpresa e le risero gli occhi e la bocca e un dente che aveva come quando era bambina.
- Tu! – e poi, cercando il tono di chi parla di una cosa naturale, ma non riuscendo a nascondere il suo compiaciuto interesse: - Ah, così sei rimasto qui da allora senza mai scendere?
Cosimo riuscì a trasformare quella voce che gli voleva uscire come un grido di passero, in un: - Sì, sono io, Viola, ti ricordi?
- Senza mai, proprio mai posare un piede in terra?
- Mai.
E lei, già come se si fosse concessa troppo: - Ah, vedi che sei riuscito? Non era dunque poi così difficile.
- Aspettavo il tuo ritorno …
- Benissimo: Ehi, voi, dove portate quella tenda! Lasciate tutto qui che veda io! – Tornò a guardare lui. Cosimo quel giorno era vestito da caccia: irsuto, col berretto di gatto, con lo schioppo.
- Sembri Robinson!
- L’hai letto? – disse subito lui, per farsi vedere al corrente.
Viola s’era già voltata: - Gaetano! Ampelio! Le foglie secche! C’è pieno di foglie secche! – E a lui: - Tra un’ora, in fondo al parco. Aspettami -. E corse via a dar ordini, a cavallo.
Cosimo si gettò nel folto: avrebbe voluto che fosse mille volte più folto, una valanga di foglie e rami e spini e caprifogli e capelveneri da affondarci e sprofondarci e solo dopo essercisi del tutto sommerso cominciare a capire se era felice o folle di paura.
Sul grande albero in fondo al parco, coi ginocchi stretti al ramo, guardava l’ora in un cipollone che era stato del nonno materno Generale Von Kurtewitz e si diceva: non verrà. Invece Donna Viola arrivò quasi puntuale, a cavallo; lo fermò sotto la pianta, senza nemmeno guardare in su; non aveva più il cappello né la giubba da amazzone; la blusa bianca bordata di pizzo sulla gonna nera era quasi monacale. Alzandosi sulle staffe porse una mano a lui sul ramo; lui l’aiutò; lei montando sulla sella raggiunse il ramo, poi sempre senza guardare lui, s’arrampicò rapida, cercò una forcella comoda, sedette. Cosimo s’accoccolò ai suoi piedi, e non poteva cominciare che così: - Sei ritornata?
Viola lo guardò ironica. Era bionda come da bambina.
- Come lo sai? - fece
E lui, senza capire lo scherzo: - T’ho visto in quel prato della bandita del Duca …
- La bandita è mia. Che si riempia d’ortiche! Sai Tutto? Di me, dico?
- No … Ho saputo solo ora che sei vedova …- Certo, sono vedova – si diede un colpo alla sottana nera, spiegandola, e prese a parlare fitto fitto: - Tu non sai mai niente. Stai lì sugli alberi tutto il giorno a ficcanasare negli affari altrui, e poi non sai niente. Ho sposato il vecchio Tolemaico perché m’hanno obbligata i miei, mi hanno obbligata. Dicevano che facevo la civetta e che non potevo stare senza un marito. Un anno, sono stata Duchessa Tolemaico, ed è stato l’anno più noioso della mia vita, anche se col vecchio non sono stata più d’una settimana. Non metterò mai più piede in nessuno dei loro castelli e ruderi e topaie, che si riempiano di serpi! D’ora in avanti me ne starò qui, dove stavo da bambina. Ci starò finché mi garba, si capisce, poi me ne andrò: sono vedova e posso fare quello che mi piace, finalmente. Ho fatto sempre quel che mi piace, a dire il vero: anche Tolemaico l’ho sposato perché m’andava di sposarlo, non è vero che m’abbiano obbligato a sposare lui, volevano che mi maritassi a tutti i costi e allora ho scelto il pretendente più decrepito che esistesse. «Così resterò vedova prima», ho detto e difatti ora lo sono.
Cosimo era lì mezzo stordito sotto quella valanga di notizie e d’affermazioni perentorie, e Viola era più lontana che mai: civetta, vedova e duchessa, faceva parte d’un mondo irraggiungibile e tutto quello che lui seppe dire fu: - E con chi era che facevi la civetta?
E lei: - Ecco. Sei geloso. Guarda che non ti permetterò mai di essere geloso.
Cosimo ebbe uno scatto proprio da geloso provocato al litigio, ma poi subito pensò: «Come? Geloso? Ma perché ammette che io possa esser geloso di lei? Perché dice: “non ti permetterò mai”? E’ come dire che pensa che noi …».
Allora, rosso in viso, commosso, aveva voglia di dirle di chiederle, di sentire, invece fu lei a domandargli, secca: - Dimmi ora tu: cos’hai fatto?
- Oh, ne ho fatte di cose, - prese a dire lui, - sono andato a caccia, anche cinghiali, ma soprattutto volpi lepri faine e poi si capisce tordi e merli; poi i pirati, sono scesi i pirati turchi, è stata una gran battaglia, mio zio è morto; e ho letto molti libri, per me e per un mio amico, un brigante impiccato; e ho tutta l’Enciclopedia di Diderot e gli ho anche scritto e m’ha risposto, da Parigi; e ho fatto tanti lavori, ho potato, ho salvato un bosco dagli incendi …
- … E mi amerai sempre, assolutamente, sopra ogni cosa, e sapresti fare qualsiasi cosa per me?
A quest’uscita di lei, Cosimo, sbigottito disse: - Sì …
- Sei un uomo che è vissuto sugli alberi solo per me, per imparare ad amarmi …
- Sì … Sì …
- Baciami.
La premette contro il tronco, la baciò. Alzando il viso si accorse della bellezza di lei come se non l’avesse vista prima. – Ma di’: come sei bella …
- Per te , - e si sbottonò la blusa bianca. Il petto era giovane e coi bottoni di rosa, Cosimo arrivò a sfiorarlo appena, Viola guizzò via per i rami che pareva volasse, lui le rampava dietro e aveva in viso quella gonna.
- Ma dove mi stai portando? – diceva Viola come fosse lui a condurla, con lei che se lo portava dietro.
- Di qua, - fece Cosimo e prese lui a guidarla, e a ogni passaggio di ramo la prendeva per mano o per la vita e le insegnava i passi.
- Di qua, - e andavano su certi olivi, protesi da una ripida erta, e dalla vetta d’uno d’essi il mare che finora scorgevano solo frammento per frammento tra foglie e rami come frantumato, adesso tutt’a un tratto lo scopersero calmo e limpido e vasto come il cielo. L’orizzonte s’apriva largo e alto e l’azzurro era teso e sgombro senza una vela e ci si contavano le increspature appena accennate delle onde. Solo un lievissimo risucchio, come un sospiro, correva per i sassi della riva.
Con gli occhi mezzo abbagliati, Cosimo e Viola ridiscesero nell’ombra verde-cupa del fogliame. – Di qua.
In un noce, sulla sella del tronco, c’era un incavo a conca, la ferita d’un antico lavoro d’ascia, e là era uno dei rifugi di Cosimo. C’era stesa una pelle di cinghiale, e intorno posati una fiasca, qualche arnese, una ciotola.
Viola si buttò sul cinghiale. – Ci hai portato altre donne?
Lui esitò. E Viola: - Se non ce ne hai portate sei un uomo da nulla.
- Sì … Qualcuna …
Si prese uno schiaffo in faccia a piena palma. – Così m’aspettavi?
Cosimo si passava la mano sulla guancia rossa e non sapeva cosa dire; ma lei già pareva tornata ben disposta: - E com’erano?
- Non come te, Viola, non come te …
- Cosa sai di come sono io, eh, cosa sai?
S’era fatta dolce, e Cosimo a questi passaggi repentini non finiva di stupirsi. Le venne vicino. Viola era d’oro e miele.
- Di’ …
- Di’ …
Si conobbero. Lui conobbe lei e se stesso, perché in verità non s’era mai saputo. E lei conobbe lui e se stessa, perché pur essendosi saputa sempre, mai si era potuta riconoscere così.


XXII

Il primo loro pellegrinaggio fu a quell’albero che in un’incisione profonda nella scorza, già tanto vecchia e deformata che non pareva più opera di mano umana, portava scritto a grosse lettere: Cosimo, Viola e – più sotto – Ottimo Massimo.
- Quassù? Chi è stato? Quando?
- Io: allora.
Viola era commossa.
- E questo cosa vuol dire? – e indicava le parole: Ottimo Massimo.
- Il mio cane. Cioè il tuo. Il bassotto.
- Turcaret?
- Ottimo Massimo, io l’ho chiamato così.
- Turcaret! Quanto avevo pianto, quando partendo m’ero accorta che non l’avevano caricato in carrozza…Oh, di non vedere più te non m’importava, ma ero disperata di non avere più il bassotto!
- Se non era per lui non t’avrei ritrovata! È lui che ha fiutato nel vento che eri vicina, e non ha avuto pace finché non t’ha cercata…
- L’ho riconosciuto subito, appena l’ho visto arrivare al padiglione, tutto trafelato…Gli altri dicevano: «E questo donde salta fuori?». Io mi son chinata a osservarlo, il colore, le macchie. «Ma questo è Turcaret! Il bassotto che avevo da bambina a Ombrosa!».
Cosimo rideva. Lei improvvisamente torse il naso. – Ottimo Massimo…Che brutto nome? Dove vai a pescare dei nomi così brutti – E Cosimo s’oscurò subito in volto.
Per Ottimo Massimo ora invece la felicità non aveva ombre. Il suo vecchio cuore di cane diviso tra due padroni aveva finalmente pace, dopo aver faticato giorni e giorni per attirare la Marchesa verso i confini della bandita, al frassino dove era appostato Cosimo. L’aveva tirata per la sottana, o le era fuggito portando via un oggetto, correndo verso il prato per farsi inseguire, e lei: - Ma cosa vuoi? Dove mi trascini? Turcaret! Smettila! Ma che cane dispettoso ho ritrovato! – Ma già la vista del bassotto aveva smosso nella sua memoria i ricordi dell’infanzia, la nostalgia d’Ombrosa. E subito aveva preparato il trasloco dal padiglione ducale per tornare alla vecchia villa dalle strane piante.
Era tornata, Viola. Per Cosimo era cominciata la stagione più bella, e anche per lei, che batteva le campagne sul suo cavallo bianco e appena avvistava il Barone tra fronde e cielo si levava di sella, rampava per i tronchi obliqui e i rami, presto divenuta esperta quasi al pari di lui, e lo raggiungeva dappertutto.
- Oh Viola, io non so più, io m’arrampicherei non so dove…
- A me, - diceva Viola, piano, e lui era come matto.
L’amore era per lei esercizio eroico: il piacere si mescolava a prova d’ardimento e generosità e dedizione e tensione di tutte le facoltà dell’animo. Il loro mondo erano gli alberi i più intricati e attorti e impervii.
- Là! – esclamava indicando un’alta inforcatura di rami, e insieme si slanciavano per raggiungerla e cominciava tra loro una gara d’acrobazie che culminava in nuovi abbracci. S’amavano sospesi sul vuoto, puntellandosi o aggrappandosi ai rami, lei gettandosi su di lui quasi volando.
L’ostinazione amorosa di Viola s’incontrava con quella di Cosimo, e talora si scontrava. Cosimo rifuggiva dagli indugi, dalle mollezze, dalle perversità raffinate: nulla che non fosse l’amore naturale gli piaceva. Le virtù repubblicane erano nell’aria: si preparavano epoche severe e licenziose a un tempo. Cosimo, amante insaziabile, era uno stoico, un asceta, un puritano. Sempre in cerca della felicità amorosa, restava pur sempre nemico della voluttà. Giungeva a diffidare del bacio, della carezza, della lusinga verbale, di ogni cosa che offuscasse o pretendesse di sostituirsi alla salute della natura. Era Viola, ad avergliene scoperto la bellezza; e con lei mai conobbe la tristezza dopo l’amore, predicata dai teologi; anzi, su questo argomento scrisse una lettera filosofica al Rousseau che, forse turbato, non rispose.
Ma Viola era anche una donna raffinata, capricciosa, viziata di sangue e d’animo cattolica. L’amore di Cosimo le colmava i sensi, ma ne lasciava insoddisfatte le fantasie. Da ciò, screzi e ombrosi risentimenti. Ma duravano poco, tanto varia era la loro vita e il mondo intorno.
Stanchi, cercavano i loro rifugi nascosti sugli alberi dalla chioma più folta: amache che avvolgevano i loro corpi come in una foglia accartocciata, o padiglioni pensili, con tendaggi che volavano al vento, o giacigli di piume. In questi apparecchi s’esplicava il genio di Donna Viola: dovunque si trovasse la Marchesa aveva il dono di creare attorno a sé agio, lusso e una complicata comodità; complicata a vedersi, ma che lei otteneva con miracolosa facilità, perché ogni cosa che lei voleva doveva immediatamente vederla compiuta a tutti i costi.
Su queste loro alcove aeree si posavano a cantare i pettirossi e di tra le tende entravano farfalle vanesse a coppia, inseguendosi. Nei pomeriggi d’estate, quando il sonno coglieva i due amanti vicini, entrava uno scoiattolo, cercando qualcosa da rodere, e carezzava i loro visi con la coda piumata, o addentava un alluce. Chiusero con più cautela le tende, allora: ma una famiglia di ghiri si mise a rodere il soffitto del padiglione e piombò loro addosso.
Era il tempo in cui andavano scoprendosi, raccontandosi le loro vite, interrogandosi.
- E ti sentivi solo?
- Mi mancavi tu.
- Ma solo rispetto al resto del mondo?
- No. Perché? Avevo sempre qualcosa da fare con altra gente: ho colto frutta, ho potato, ho studiato filosofia con l’Abate, mi sono battuto coi pirati. Non è così per tutti?
- Tu solo sei così, perciò ti amo.
Ma il Barone non aveva ancora ben capito cos’era che Viola accettava di lui e cosa no. Alle volte bastava un nonnulla, una parola o un accento di lui a far prorompere l’ira della Marchesa.
Lui per esempio: - Con Gian dei Brughi leggevo romanzi, col Cavaliere facevo progetti idraulici…
- E con me?...
- Con te faccio l’amore. Come la potatura, la frutta…
Lei taceva, immobile. Subito Cosimo s’accorgeva d’aver scatenato la sua ira: gli occhi le erano improvvisamente diventati di ghiaccio.
- Perché, cosa c’è, Viola, cos’ho detto?
Lei era distante come non lo vedesse né sentisse, a cento miglia da lui, marmorea in viso.
- Ma no, Viola, cosa c’è, perché, senti…
Viola s’alzava ed agile, senza bisogno di aiuto, si metteva a scendere dall’albero.
Cosimo non aveva ancora capito qual era stato il suo errore, non era riuscito ancora a pensarci, forse preferiva non pensarci affatto, non capirlo, per proclamare meglio la sua innocenza: - Ma no, non m’avrai capito, Viola, senti…
La seguiva fin sul palco più basso: - Viola, non te ne andare, non così, Viola…
Lei ora parlava, ma al cavallo, che aveva raggiunto e slegava; montava in sella e via.
Cosimo cominciava a disperarsi, a saltare da un albero all’altro. – No, Viola, dimmi, Viola!
Lei era galoppata via. Lui per i rami l’inseguiva: - Ti supplico, Viola, io ti amo! – ma non la vedeva più. Si buttava sui rami incerti, con balzi rischiosi. – Viola! Viola!
Quand’era ormai sicuro d’averla persa, e non poteva frenare i singhiozzi, eccola che ripassava al trotto, senza levar lo sguardo.
- Guarda, guarda, Viola, cosa faccio! – e prendeva a dar testate contro un tronco, a capo nudo (che aveva, per la verità, durissimo).
Lei nemmeno lo guardava. Era già lontana.
Cosimo aspettava che tornasse, a zig-zag tra gli alberi. – Viola! Sono disperato! – e si buttava riverso nel vuoto, a testa in giù, tenendosi con le gambe a un ramo e tempestandosi di pugni capo e viso. Oppure si metteva a spezzar rami con furia distruttrice, e un olmo frondoso in pochi istanti era ridotto nudo e sguernito come fosse passata la grandine.
Mai però minacciò di uccidersi, anzi, non minacciò mai nulla, i ricatti del sentimento non erano da lui. Quel che si sentiva di fare lo faceva e mentre già lo faceva l’annunciava, non prima.
A un certo punto Donna Viola, imprevedilmente com’era entrata nell’ira, ne usciva. Di tutte le follie di Cosimo che pareva non l’avessero sfiorata, una repentinamente l’accendeva di pietà e d’amore. – No, Cosimo, caro, aspettami! – e saltava di sella, e si precipitava ad arrampicarsi per un tronco, e le braccia di lui dall’alto erano pronte a sollevarla.
L’amore riprendeva con una furia pari a quella del litigio. Era difatti la stessa cosa, ma Cosimo non ne capiva niente.
- Perché mi fai soffrire?
- Perché ti amo.
Ora era lui ad arrabbiarsi: - No, non mi ami! Chi ama vuole la felicità, non il dolore.
- Chi ama vuole solo l’amore, anche a costo del dolore.
- Mi fai soffrire apposta, allora.
- Sì, per vedere se mi ami.
- La filosofia del Barone si rifiutava d’andar oltre. – Il dolore è uno stato negativo dell’anima.
- L’amore è tutto.
- Il dolore va sempre combattuto.
- L’amore non si rifiuta a nulla.
- Certe cose non le ammetterò mai.
- Sì che le ammetti, perché mi ami e soffri.


Così come le disperazioni, erano clamorose in Cosimo le esplosioni di gioia incontenibile. Talora la sua felicità arrivava a un punto ch’egli doveva staccarsi dall’amante e andar saltando e gridando e proclamando le meraviglie della sua dama.
- Yo quiero the most wonderful puellam de toto el mundo!
Quelli che stavano seduti sulle panchine d’Ombrosa, sfaccendati e vecchi marinai, ormai avevano preso l’abitudine a queste sue rapide apparizioni. Ecco che lo si scorgeva venire a salti per i lecci, declamare:
- Zu dir, zu dir, gunàika,
Vo cercando il mio ben,
En la isla de Jamaica,
Du soir jusqu’au matin!

oppure:

- Il y a un prè where the grass grows toda de oro
Take me away, take me away, che io ci moro!

e scompariva.
Il suo studio delle lingue classiche e moderne, per quanto poco approfondito, gli permetteva d’abbandonarsi a questa clamorosa predicazione dei suoi sentimenti, e più il suo animo era scosso da un’intensa emozione, più il suo linguaggio si faceva oscuro. Si ricorda una volta che, festeggiandosi il Patrono, la gente d’Ombrosa era radunata nella piazza e c’erano l’albero della cuccagna e i festoni e lo stendardo. Il Barone comparve in cima a un platano e con uno di quei salti di cui solo la sua agilità acrobatica era capace, saltò sull’albero della cuccagna, s’arrampicò fino alla cima, gridò: - Que viva die schöne Venus posteriòr! – si lasciò scivolare giù per il palo insaponato fin quasi a terra, s’arrestò, risalì ratto in cima, strappò dal trofeo una rosea e tonda forma di cacio e con un altro balzo dei suoi rivolò sul platano e fuggì, lasciando sbalorditi gli Ombrosotti.


Nulla quanto queste esuberanze rendevano felice la Marchesa; e la muovevano a ricambiargliele in manifestazioni d’amore altrettanto rapinose. Gli Ombrosotti, quando la vedevano galoppare a briglia sciolta, il viso quasi immerso nella criniera bianca del cavallo, sapevano che correva a un convegno col Barone. Anche nell’andare a cavallo ella esprimeva una forza amorosa, ma qui Cosimo non poteva più seguirla; e la passione equestre di lei, sebbene egli molto l’ammirasse, però era per lui anche una segreta ragione di gelosia e di rancore, perché vedeva Viola dominare un mondo più vasto del suo e capiva che non avrebbe mai potuto averla solo per sé, chiuderla nei confini del suo regno. La Marchesa, da parte sua, forse soffriva di non poter essere insieme amante e amazzone: la prendeva a volte un indistinto bisogno che l’amore di lei e Cosimo fosse un amore a cavallo, e correre sugli alberi non le bastava più, avrebbe voluto correrci al galoppo in sella al suo destriero.
E in realtà il cavallo a forza di correre per quel terreno di salite e dirupi era diventato rampante come un capriolo, e Viola ora lo spingeva di rincorsa contro certi alberi, per esempio vecchi olivi dal tronco sbilenco. Il cavallo arrivava talvolta sino alla prima forcella di rami, ed ella prese l’abitudine di legarlo non più a terra, ma là sull’olivo. Smontava e lo lasciava a brucare foglie e ramoscelli.
Cosicché, quando un pettegolo passando per l’oliveto e levando occhi curiosi vide lassù il Barone e la Marchesa abbracciati e poi andò a raccontarlo ed aggiunse: - E il cavallo bianco era anche lui in cima a un ramo! – fu preso per fantastico e non creduto da nessuno. Per quella volta ancora il segreto degli amanti fu salvo.


XXIII

Il fatto che ora ho narrato prova che gli Ombrosotti, com’erano stati prodighi di pettegolezzi sulla precedente vita galante di mio fratello, così ora, di fronte a questa passione che si scatenava si può dire sopra le loro teste, mantenavano un rispettoso riserbo, come di fronte a qualcosa più grande di loro. Non che la condotta della Marchesa non fosse riprovata: ma più per i suoi aspetti esteriori, come quel galoppare a rotta di collo (- Chissà poi dove andrà, così di furia? – si dicevano, pur sapendo bene che andava ai convegni con Cosimo) o quel mobilio che metteva in cima agli alberi. C’era già un’aria di considerare tutto come una moda dei nobili, una di quelle tante stravaganze (- Tutti sugli alberi, adesso: donne, uomini. Non ne avranno più da inventare?-); insomma stavano venendo dei tempi magari più tolleranti, ma più ipocriti.
Sui lecci della piazza il Barone si faceva vedere ormai a grandi intervalli, ed era segno che lei era partita. Perché Viola stava talvolta lontana per dei mesi, a curare i suoi beni sparsi in tutta Europa, ma queste partenze corrispondevano sempre a momenti in cui i loro rapporti evavano subito delle scosse e la Marchesa s’era offesa con Cosimo per il suo non capire quel che lei voleva fargli capire dell’amore. Non che Viola partisse offesa con lui: riuscivano sempre a far la pace prima, ma in lui restava il sospetto che a quel viaggio si fosse decisa per stanchezza di lui, perché lui non riusciva a trattenerla, forse si stava ormai staccando da lui, forse un’occasione del viaggio o una pausa di riflessione l’avrebbero decisa a non tornare. Così mio fratello viveva in ansia. Da una parte cercava di riprendere la sua vita abituale di prima d’incontrarla, di rimettersi ad andare a caccia e a pesca, e seguire i lavori agricoli, i suoi studi, le gradassate in piazza, come non avesse mai fatto altro (persisteva in lui il testardo orgoglio giovanile di chi non vuole ammettere di subire influenze altrui), e insieme si compiaceva di quanto quell’amore gli dava, d’alacrità, di fierezza; ma d’altra parte s’accorgeva che tante cose non gli importavano più, che senza Viola la vita non gli prendeva più sapore, che il suo pensiero correva sempre a lei. Più cercava, fuori dal turbine della presenza di Viola, di ripadroneggiare le passioni e i piaceri in una saggia economia dell’animo, più sentiva il vuoto da lei lasciato o la febbre d’attenderla....