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Dell’Historia dell’ultima Guerra tra’ Venetiani, e i Turchi,e I sogni di Parnaso - Girolamo Brusoni



lunedì 28 maggio 2007 leggono Umberto Bortolani e Francesco Franchi
Girolamo Brusoni (1614-1689), erudito e poligrafo veneto, romanziere, poeta, storico, polemista, frate certosino che getta la tonaca alle ortiche e la riprende per liberarsene ancora, libertino, seduttore e protofemminista, rampollo di una famiglia nobiliare decaduta di cui mantiene le nostalgie, uomo dall'ego espanso.
Anagrammando il proprio nome e cognome inventa il personaggio di Urbano Glisomiro, cavaliere coraggioso e dottissimo, esempio di ogni virtù virile e nobiliare, ricco di un catalogo mozartiano di sedotte e devote, liberatore di monache e maestro spadaccino, protagonista di una trilogia romanzesca (La gondola a tre remi, Il carrozzino alla moda, La peota smarrita) intrecciata di avventure galanti, disquisizioni morali, temi letterari e politici, che ha per oggetto la vita sociale di un gruppo di nobili veneziani attraverso le ville e il dominio della Serenissima.
Onesto scrittore di storia, ingiustamente trascurato dai secoli successivi, che pure ne hanno saccheggiato le opere e le tematiche. Scrittore del Barocco, ma anti-barocco, anticipa temi del razionalismo illuminista e della società libertina. Oggetto privilegiato di pochi ma appassionati studiosi, su di lui è stato tenuto un convegno internazionale a Rovigo nel 1999.


ANTOLOGIA BRUSONIANA
I
La presa della Gran Sultana


da

Gerolamo BRUSONI, Dell’Historia dell’ultima Guerra tra’ Venetiani, e i Turchi; Venezia, Curti, 1673

Antefatto, misfatto e postfatto: nell’anno 1644 c’è pace tra Veneziani e Turchi; le due grandi potenze mediterranee si sono accordate per proteggersi reciprocamente dai pirati cristiani e mussulmani, che continuamente attaccano i rispettivi convogli commerciali; Venezia non appoggerà né accoglierà i pirati cristiani (e tali sono, per i Turchi, i toscani Cavalieri di Santo Stefano, che hanno base a Livorno, i Cavalieri di Malta, i corsari inglesi e olandesi, gli spagnoli etc.), e il Sultano (“il Gran Signore”) non appoggerà né accoglierà né proteggerà i pirati barbareschi, che dalle coste di Marocco, Algeria, Libia e Tunisia attaccano le coste cristiane; soprattutto, non si darà rifugio, né rifornimenti, né commercio di prede a vantaggio dei pirati; ma Maltesi e Barbareschi non riconoscono questo trattato, e continuano gli attacchi. I Cavalieri di Malta hanno per scopo la caccia ai mussulmani, di qualunque appartenenza: le loro sei Galee ogni anno vanno alle “ripresaglie”, cioè escono in mare in caccia di navi mussulmane; in base al trattato, Venezia non li rifornisce, né li accoglie nei suoi porti, e tantomeno ne acquista il bottino; quando i Maltesi catturano la “Gran Sultana”, nave d’alto bordo che porta alla Mecca il Kislar Agà (“Capo delle Ragazze”) Genlis, vecchio eunuco nero custode dell’harem imperiale, con una concubina e un figlio del Sultano, si impadroniscono di una favolosa ricchezza e di prede di valore, compresi bellisimi cavalli; la tempesta obbliga i Maltesi ad attraccare alla costa sud dell’isola di Candia (Creta), possedimento veneziano; lì sbarcano i cavalli turchi e li vendono ai Cretesi. Il governatore veneziano (“i publici Rappresentanti”) fa fucilare gli ufficiali incaricati di respingere i pirati, che non hanno proibito lo sbarco ai Maltesi, ma l’ira del Gran Signore non si placa: fingendo di attaccare Malta, la sua poderosa flotta aggredisce invece Candia, per togliere di mezzo l’ultimo possesso cristiano nei suoi mari (“l’Antemurale”): i Veneziani resisteranno per venticinque anni, ci saranno molte decine di migliaia di morti, infinite battaglie e assedi; alla fine (1669) un trattato di pace consegnerà l’isola (veneziana dal 1200) ai Turchi, tranne qualche fortezza.

Libro I


Perché d’una Guerra la più memorabile di questo secolo non sono state divulgate al Mondo, che le prime, e le ultime fazioni succedute ne’ Regni di Dalmatia, e di Candia, e poche altre Relazioni di fatti d’armi sul Mare; che hanno più tosto accesa, che estinta la sete degli huomini vaghi d’apprendere il corso continuato di così grandi emergenti,
abbiamo intrapreso di satisfare al desiderio di molti, raccogliendo con ordinato racconto le più importanti notizie di successi di tanto grido, e di tanto rilievo alla Christianità:
sicuri, che se cediamo a tutti gli altri Scrittori nella sufficienza, non cederemo ad alcuno nella Ingenuità; non scrivendo noi con altro fine, che di proprio trattenimento, a beneficio de’ Posteri:
I quali per somigliante racconto, e dall’altrui buona, o cattiva condotta, e da i colpi della Divina providenza, sopra l’orgoglio de’ Principi, e sopra le insanie de’ popoli potranno apprendere a proprio ammaestramento nuove massime, ed esempli di Christiana politica; vedendo, come in uno specchio quanto sieno sempre amare le radici, e caduche le foglie della prosperità degli Empij; e quanto certi, e gloriosi i frutti della Virtù, benché travagliata, ed oppressa da continui contrasti, e perigli.

Navigando nell’anno 1644 alle solite ripresaglie de’ Legni Turcheschi le Galee di Malta ne’ Mari di Levante sotto il comando del Generale Gabrielle di Chambres Boisbodrant; dopo l’inutile corseggiamento di trentatre giorni incontrarono sul fine di Settembre nel Mar Carpathio due Vascelli Turchi con una squadra di sette Saiche di conserva:
sovra un de’ quali ricco di tre milioni di valsente navigava Genlis Agà verso la Mecca con una Donna, e un figlio del Gran Signore Ibrahino;
a pretesto di divozione alla sepoltura di Mahometto, dove portava quasi tutti i Voti della Corte Ottomana;
ma veramente per sottrarsi a qualche vanìa Turchesca, e godersi riposatamente quell’oro, che aveva saputo accumulare nel servigio di cinque Imperadori, mentre allevato dall’Avolo, accarezzato dal Padre, e ben veduto da’ Fratelli d’Ibrahino, godeva allora in carica di Chislar Agà, cioè Governatore del Serraglio delle Donne la di lui confidenza, e stima.
Ma perché allora appunto succedono agli huomini le disgrazie, che pensano di fuggirle; mentre anela a mettere in sicuro la vita, e le fortune dalla sospetta barbarie di Ibrahino, venne a perder infelicemente ogni cosa in un punto solo.
Scoperti adunque, e investiti questi Vascelli da’ Maltesi, il minore agevolmente si rese all’empito loro, e trapassato dalle Cannonate, andò a fondo; ma l’altro, che era una Gran Sultana montata di trenta Cannoni, postosi con egual risoluzione a quella de’ Cavalieri in offenderlo, alla difesa contra gli attacchi di tre Galee, uccise, e rovesciò in mare, e sovra i legni loro gli assalitori; che furono però costretti d’allargarsi dall’abbordo con grave danno: in fino a che, tornata dalla caccia, e presa d’alcune Saiche la Capitana con le altre Galee, e riunitesi tutte in un corpo, l’investirono nuovamente, montandovi sopra da quattrocento Christiani; molti de’ quali vi rimasero uccisi; toccando pure la medesima disgrazia al Generale colpito di moschetata, mentre dalla sua Galea gl’innanimava a starsi fermi su la Nave, come fecero con mirabile intrepidezza.
Onde i Turchi già morto l’Agà Genlis, e il Capitano del Vascello con la metà de’ loro compagni, si ridussero con le Donne e i fanciulli sotto coperta, ed esposta bandiera bianca s’arresero a’ Vincitori:
I quali sgombrato immantenente il Vascello da’ cadaveri, e divisi i prigionieri tra le Galee: il diedero a sacco a’ soldati, che vi fecero un ricchissimo bottino di gioie, e supelletili di gran valore, oltre a ventiquattro cavalli delle più belle razze della Turchia.
Dopo che fattovi salir sopra per Comandanti i Cavallieri Verdilla, e Feuillada con cento soldati, e numero sufficiente di marinari, lo spedirono verso Malta; ma trovandosi maltrattato dalle Cannonate, giunto a vista della Sicilia affondossi.
Ben vi giunsero felicemente le Galee sul principio di Novembre, benché sbattute anch’esse da fiera tempesta di mare, conducendo seco fra gli altri prigioni la Donna e’l figlio di Ibrahino:
Che poi cresciuto, e abbracciata la Cattolica Fede vive tuttavia col nome di Fra Dominico Ottomano nella Religione Dominicana.

Vittoria, e presa veramente funesta; perché non solamente perdè la Religione di Malta in somigliante conflitto col Generale delle Galee molti Cavalieri, e Comandanti qualificati, e buon numero di soldati, e di Marinari; ma tirò sovra la Christianità quella crudel guerra, che con tanto sangue di tutte le più chiare Nazioni d’Europa l’ha spogliata del più forte Antemurale nell’Oriente contra le impressioni barbariche.
Tanto è pur vero, che da picciole scintille di casi fortuiti nascano sovente altissimi incendij di guerra, e che non si possa mai stuccicare il Vespaio nelle offese d’una gran Potenza senza riportarne ponture gravissime, e mortali.

Pervenuta adunque a Costantinopoli la sinistra fama di così gran perdita accresciuta da circostanze gravissime, o per incontri di fortuna, o per malvagità d’homini perversi; che avendo i Maltesi sbattuti dopo la battaglia dalle burrasche maritime approdato ad alcuni scogli di Candia (essendo stati da’ publici Rappresentanti tenuti lontani da i porti dell’Isola) avessero quivi fatto ritratto de’ Cavalli, e d’altre prede con quegli Abitanti; risvegliossi nel’animo di Ibrahino un furore indicibile, esclamando, che fossero stati vinti sul Mare i suoi Legni, che in Candia se ne fossero celebrate le feste: Che in somma i Maltesi gli avevano rapito gli schiavi, e le robe, e i Cretensi macchiato la dignità, e la riputatione.
Il Grande Agà suo Maestro, e Predicante veduta l’opportunità d’eccitarlo a quello, ch’egli sommamente desiderava, il persuase d’accelerare, ma d’occultare insieme i risentimenti; affermando; che i Veneziani gli avessero rotto la fede, non solamente accettando i suoi nemici in casa; ma entrando a parte della preda, e facendone festa. Essere venuto il tempo di vendicare in un colpo solo tutte le offese fatte alla Maestà Ottomana, e d’assicurare l’Imperio dalle continue molestie degli Infedeli. Ogni dilazione essere dannosa mentre non vedendosi oggimai le Insegne Reali sul Mare, che a pompa, né sentendosi, che per saluto di pace i tuoni delle sue artiglierie, pareva, che l’Imperio Ottomano si fosse scordato della sua potenza formidabile a tutta la terra.


II

Il Paradiso del Letterato barocco


da

Gerolamo BRUSONI, I Sogni di Parnaso; s.n.t.

Come in un delirio di Borges, in questo testo scritto dopo il 1651 il letterato Brusoni, in veste di Filiterno, suo alter-ego e personaggio protagonista di molti racconti, incontra in un sogno, e personificata nella Dama francese che ne era la protagonista, una sua opera narrativa perduta e mai pubblicata, la “Ginevra”, che lo rimprovera per l’abbandono, ma poi lo conduce in visita al Parnaso, descritto come il paesaggio veneto rinascimentale, e soprattutto lo porta davanti al palazzo del Cavalier Marino, il più osannato poeta del Barocco, che il Brusoni invece critica e disprezza per i suoi plagi, le sue eccentricità e le sue deformazioni stilistiche; nel paradiso dei letterati, comunque, gli Autori e le Opere (quasi abitassero un tridimensionale Dizionario Bompiani) vivono e si parlano, si raccontano reciprocamente fatti e impressioni, talvolta si amano.


Fantasia Prima

M’aveva mortalmente trafitto il cuore la spietata novella della morte dell’immortale Pietro Michiele mio cordialissimo Amico; onde trapassata senza riposo quasi tutta la notte nell’amaritudine del mio cordoglio, allora appunto, che l’Alba incominciava a biancheggiare su le cime de’ Monti, parve, che una soave ombra di Lete divenuta pietosa del mio rammarico mi conciliasse una languida quiete negli occhi.
Ed ecco apparirmi nel primo sogno le mura, che sembravano d’oro finissimo d’una vasta Città, fuor della quale fra il tumulto e’l concorso di popolo innumerabile usciva una Dama vestita a bruno solamente assistita da un venerabile Vecchio, che la servia di Bracciere, e accompagnata da una graziosa Fanciulla in portamento di Cameriera.
Io benché immerso anche dormendo nell’apprensione del mio dolore, e nella novità di quella insolita vista; girati nondimeno gli occhi nel volto della Donzella, e ravvisatala per Clotilde Damigella Francese; riconobbi anche per essa Ginevra Contessa di ... la sua Padrona; benché portasse la candida faccia velata d’un velo negro. Tratto per tanto dall’empito d’un’amor d’allegrezza misto d’un’amarissimo ribrezzo di cordoglio mi cacciai nella calca del Popolo, e pervenuto in faccia della Contessa, esalata quasi l’anima in un sospiro pietosamente gridai. Ah Madamigella; aveste credutoa chi v’amava più della luce degli occhi suoi.
Percossa la Contessa da queste voci diede un tremito improviso in tutta la sua bella Persona, e alzati gli occhi, che teneva modestamente avvallati gli fissò nel mio volto, e dopo un dolce errore riconosciutomi; stracciato, non che disciolto il Velo, che la copriva, e lasciatosi uscir dagli occhi bellissimi un’improvisa pioggia di lagrime; voleva parlare, ma non potè, voleva abbracciarmi, ma non potè, voleva darmi almeno la mano, ma non potè; poichè ingroppatosele il cuore ripiegò la dolcissima testa disvenuta in un sembiante mestissimo nelle braccia di Clotilde accorsa a sostenerla: ed io restai di ghiaccio.
Quinci ritornata a poco a poco in se stessa, e ripigliato con la voce lo spiritello smarrito prese languidamente a dirmi. Che volto è cotesto, Filiterno? Qual portamento? Siete Voi forse ancora venuto nel Mondo de’ Morti? Ma dove avete lasciati i contrasegni della vostra affezione, della vostra gentilezza, della vostra fede? Avete voi forse col portamento cangiato costumi? E dove eravate tutto cortesia, lealtà ed amore siete diventato un discortese, un’ingrato, un disleale? ... e ... immemore del mio amore m’avete tradita.
Arebbe detto d’avvantaggio, se un nuovo nembo d’amarissimo pianto non le avesse soffocate le parole in bocca. Onde io più di lei addolorato, benché non potessi pur disfogare con una lagrima sola la piena amarissima del mio cordoglio; sospirando risposi.
Piacesse al Cielo, mia Signora, che tutti v’avessero tradita, come Filiterno, che e voi vivereste ancora sopra la Terra; e io non averei pianto inconsolabilmente il fiore della vostra età, e della vostra bellezza da cruda falce di morte intempestivamente reciso. Né perché mi vediate travisato d’insolito portamento, ho io però cangiato maniera di Vita, e di costumi; ma sono e sarò sempre qual nacqui, qual fui nudrito, e qual sono vivuto. ... Né so già vedere in che possiate accusarmi di mancamento verso la gentile vostra Persona, se non sia forse mancamento l’avervi amata in vita come l’anima propria, e pianta dopo la morte come se avessi perduta l’anima propria.
Qui la Contessa tratto dal profondo del cuore un risonante sospiro, e posata sul mio braccio destro la sua mano sinistra disse. Sì, Filiterno carissimo, che mi tradiste quando assassinaste Voi stesso. Che se voi non mi aveste abbandonata io non averei presa l’infausta risoluzione di tornare in Francia a trovarvi la morte. Pure siasi stata, o vostra elezione, o forza del Fato ... non potrete già negarmi d’aver almeno mancato alla fede amorosa, e Cavalleresca; mentre avete permesso, che il Tempo, e la Fortuna trionfino della mia reputazione e della mia Innocenza.
E perché dunque non avete pubblicate le vostre, e le mie lettere? Perché lasciaste sepolte nell’obblio quelle Opere, che dedicaste al mio nome e al merito della nostra amicizia?
E ciò dicendo eramo già camminando trapassati dalla strada comune in una amenissima pianura irrigata da un placidissimo fiumicello, attorno il quale in proporzionate distanze s’ergevano alcuni palagj di magnifica Architettura, a quella sembianza appunto che si veggono su per le rive de’ fiumi, che nobilitano le campagne del terrestre Paradiso del Dominio Veneziano.
Ond’io trovatomi in quella cara libertà, baciata riverentemente la bella mano, che onorava il mio braccio de’ suoi favori; non senza qualche innocente artificietto ripresi a dire.
Ben si pare, gentil Signora, che se bene avete cangiata la misera stanza della Terra con la beata abitazione dei Campi Elisi, non abbiate però dimenticata la vezzosa maniera de’ vostri lamenti, de’ quali non meno dei vostri discorsi erano sempre piene le vostre lettere. ... se non abbia sodisfatto ancora al debito della mia osservanza verso la nobile vostra Persona; incolpatene non la mia fede, e’l mio amore, ma la perfidia e l’iniquità d’un’infame assassino, il quale avendomi con l’armi di Giuda sceleratamente assassinato nella vita, e nell’opere fu cagione, che si smarrissero, né mai più abbia potuto ricuperarle, e le vostre, e le mie lettere; e quelle opere insieme, che aveva destinate all’immortalità del vostro Nome. ...
Questo non sollieva punto il dolor mio, né ristora i miei danni, disse la Contessa. Le mie Lettere sono perdute, le vostre Opere smarrite, la mia Innocenza oppressa, e la vostra riputazione pregiudicata. Onde se nel medesimo tempo, che al vostro mondo, trapassai in Parnaso, non mi fossi, non se per mala, o per buona sorte incontrata in Ferrante Pallavicino, che ci veniva, per la medesima strada, e dal medesimo paese (avendo egli lasciata la testa sovra un palco in Avignone, ed io perduta la Vita sotto il pugnale del barbaro mio Marito in Lione) non averei pur trovato questo picciolo sollievo alle mie disgrazie di vedermi assicurata anche dopo una ingiusta morte la dovuta immortalità all’innocenza della mia vita. Ma l’aver esso testificato ad Apollo d’aver veduto vostre opere dedicate al mio nome con un breve Racconto de’ miei infortunij, sul credito acquistato dalla vostra Fuggitiva capitata in Parnaso in varie Lingue, e su l’aspettazione fatta dal medesimo Ferrante d’altre più maturate composizioni; m’hà la Maestà Sua permesso d’abitarvi in compagnia della medesima Fuggitiva.
Volea io ridere, e piangere a un tratto a così fatta buffoneria di sentirmi trasportato sognando in un paese incognito alla Natura, e solamente fantasticato dalle chimere de’ Poeti; e di provare nel medesimo tempo nella conversazione d’un Fantasma volante il verissimo cordoglio delle dolorose mie perdite. ...
E in questo dire eramo appunto arrivati al principio d’una bellissima strada spalleggiata di mirti e d’allori, in faccia della quale s’ergeva con maestosa apparenza il Villeresco Palagio di quell’eccellente Poeta, , tutto fabbricato di Sonetti, Madrigali, Canzonette e Idillij boscarecci; ond’io rapito da così vaga veduta, scordatomi affatto di sognare, incominciai a credere d’essere affatto disumanato.
E parevami appunto di veder vivi, e spiranti in quella maravigliosa facciata gli Dij, i Semidei, le Ninfe, e i Pastori celebrati dalla Marinesca Sampogna, che a guisa di pomposo trofeo pendeva nell’entrata maggiore di quella rustica Abitazione.
Ma poscia fattici più da vicino, avendo gittati gli occhi per varie parti di quella deliziosissima prospettiva; venni osservando, che quel mirabile edificio fosse stato in diversi luoghi rattoppato assai trivialmente; e quel che mi parve più strano, fu il discoprirvi alcuni finestroni così smisurati, che sembravano maggiori delle sale medesime, non che de’ gabinetti; tutto che venissero da diversi frascheggiamenti di fiori, e d’erbe assai convenevolmente inghirlandati, e semichiusi.
Chiestane pertanto la cagione alla Contessa, ella mi disse. Questo è avvenuto al Cavallier Marino per essere troppo millantatore, e parabolano; poiché essendosi più volte gloriosamente vantato, che le sue composizioni Poetiche sieno tutte invenzioni del proprio Ingegno, trattene due sole Canzonette trasportate da Ovidio; Ovidio appunto, Stazio, Claudiano, Properzio, Ausonio, Luciano, Apuleio, Eliodoro, Bernardo e Torquato Tassi, il Poliziano, il Caro, il Pontano, il Cavallier Guarino, Garzilasso e Lopes di Vega, Boscan dell’Alguna, Ronsardo, e Monsù di Bertas, con un’infinità d’altri Scrittori Greci, Latini, Toscani, Spagnuoli, e Francesi raccolti dall’industria pedantesca ne’ Florilegij, e nelle scelte di varie lingue; e quello, che fa vergogna a raccontarlo, fino gli sporchi Autori del Buovo d’Antona, dell’Altobello, della Spagna, e di simili altre sporcizie Poetiche l’han querelato appresso i Censori delle buone Lettere di pubblico, e notorio latrocinio, ripetendo le cose proprie con tanta rabbia, e risoluzione, che non contenti d’avergli fracassata la Lira, e mandatagli a sacco la Galeria, gli hanno deturpata tutta questa bellissima Abitazione levandone a pezzi le più belle curiosità, che l’adornavano; onde non vi resta quasi altro di Marinesco, che l’infrascamento delle parole impastricciate d’iperboli, e di traslati ridicoli e sgangherati ... la mercatanzia de’ borzacchini Spagnuoli, co’ quali aveva empiuto di coreggie tutto Parnaso. ...
Era tanto il gusto, che io traeva da questo ragionamento della Contessa, (che ella oltre alla natural grazia, e affettuosità delle Dame Francesi, rendeva più grazioso, e più dolce col vezzo d’intoppar d’ora in ora in qualche parola Italiana, che riuscendole difficile da pronunziare, le faceva scoccar dalle labbra rosate un risetto dolcissimo, ed amoroso) che se avesse continuato a ragionare un secolo intiero, non averei giammai osato d’interromperla. ...

III

Dame venete, Damigelle fantasma, belle Contadine


da

Girolamo BRUSONI, Il Carrozzino alla Moda – Trattenimento Estivo; Venezia, Mortali, 1667, pp. 7-15, 24-26


Andava Panfilo lungo le rive del Sile in traccia dell’aure fresche; quando sul calar della sera sentito lo strepito d’una Carrozza, che gli risuonava alle spalle, piegò dalla strada maestra verso uno stretto Viale, che tra mezo alcuni pergolati di viti sporgevano sovra un’altra strada, per la quale poteva ricondursi quasi occultamente al palagio, dove abitava. Ma prima ch’egli arrivasse a capo di quel sentiero, pervenuta su la prima imboccatura la Carrozza, avendo Glisomiro gittati gli occhj in quella parte, e riconosciutolo al portamento, e alla sua lunga e distesa capellatura; gridò al Cocchiere, che si fermasse, e saltato di Carrozza gli corse dietro chiamandolo a nome. Panfilo all’udir la voce di Glisomiro, dato un tremito di gioia voltossi ad aspettarlo; e poi gittategli al suo arrivo le braccia al collo, disse ... donde venite? E dove andate a quest’hora? Già che il Caso m’ha portata inaspettatamente la consolazione della vostra presenza, non vorrete lasciarmela godere per due, o tre giorni almeno?
Per me, disse Glisomiro, starei con Panfilo un secolo intiero; ma Laureta è qui: e la barca ci aspetta alla Fossetta per tornare a Venezia.
Sorrise Panfilo e disse. Sarò più fortunato, che non pensava. Spero, che quando ella saprà, che qui si trovino tanti suoi servidori, quanti vi sono, non le dispiacerà d’averci favoriti (quando più non possa) almeno questa notte della sua presenza.
Detto questo voleva Panfilo tornare verso la Carrozza per complire con la Dama, e invitarla per quella sera ad alloggiare nella sua Casa; quando sovragiunti per la strada deretana in quella parte Domitilla, Giustina e Guglielmo crebbero la confusione di quell’incontro con le solite allegrezze, e maraviglie femminili. Che cessata con gli scambievoli complimenti, fu la prima Giustina, che inteso trovarsi Laureta in Carrozza sulla strada maestra, data la mano a Glisomiro corresse più tosto, che camminasse per invitarla, e fermarla.
Laureta riconosciuti da lontano gli Amici, smontò prestamente di Carrozza per abbracciar le Dame, e complire co’ Cavallieri. Il che fatto, e dopo qualche cortese ripulsa, accettato l’invito, si stradarono tutti insieme verso la Casa di Panfilo ... entrarono tutti nel sottoportico; e passata Laureta con le Dame nel loro appartamento, si rimase Glisomiro co’ Cavallieri, ed entrato in una camera a terreno, ... E che? disse ... Dura tuttavia l’antica superstizione che in questa Camera vadano la notte errando, e gemendo funeste larve, facendo ancora diversi oltraggi a quelli che s’assicurassero di riposarvi anche di giorno?
Maissì, disse Panfilo, e a questa sola cagione penso d’abbandonar questa casa, che per altro sommamente mi piace, quando oltre all’amenità di questo sito, la comodità di potervi venire fin con la gondola senza usar l’incomodo della Carrozza riesce molto gradita alla Signora Madre, e a Domitilla.
Sorrise Glisomiro e disse. Io penso, che sia una merissima vanità questa opinione, e mi piace a questo proposito di raccontarvi uno scherzo, che qui m’avvenne allora che per l’amicizia, che nudriva col suo antico Padrone, che sia in Cielo, veniva seco talvolta a passarvi qualche giorno dell’estate.
Un giorno adunque mentre ci stavamo desinando ... si venne a discorso sovra questa medesima Vanità, e s’udirono le più graziose novelle del Mondo, affaticandosi ciascuno, o per vana opinione, o per vera credenza di raccontar molte cose, o d’antichissimo tempo avanti udite, o di presente vedute anzi sognate dagli Abitanti, e dagli Ospiti di questa Casa.
Io, non se per verso di gioventù innamorata, o per qualche opinione, che allora nutrissi intorno a questi racconti, me ne risi; e terminato il desinare: mentre tutti gli altri Cavallieri si ritrassero a dormire in altre Camare, qui ne venni, e rimaso solo stetti buona pezza scrivendo ... infino a che afflitto dal doppio caldo e dell’estate, e d’amore mi gittai sul letto semivestito per tracciare un momento di riposo.
E aveva appena ricevute negli occhj le dolcezze di Lete, che sentij lusingarmi il volto, e l’udito il tocco, e la voce come di Donna. Svegliatomi con gli occhi gravi dalla prima oppressione del sonno, e voluto esalare un sospiro, mi sentii chiusa la bocca da un bacio. Onde risensatomi con furia, mi vidi sopra con la faccia sfavillante d’amore e di Vergogna una Fanciulla bellissima, la quale senza punto spaventarsi di così fatto incontro, mossa la vaga bocca in un dolce sorrisetto, disse, Signor Glisomiro: Scusatemi, e nascondetemi in fino a sera; perché sentendo strepito nel sottoportico, non posso più uscir di qui senza essere veduta.
Io allora; e chi v’ha tratta in questo luogo a quest’hora? Abbassò gli occhj la Fanciulla, e tacque. Poi finalmente importunata dalle mie richieste disse; Amore. Io sono Doralice Figlia di Francesca, che averete forse sentito nominare da Angelica, essendo anch’io stata allevata qualche anno in quella casa: dove ho avuto fortuna di vedervi più volte, e d’ascoltare, benché non mi vedeste, i vostri ragionamenti, con la medesima Angelica, e con altre Dame, e donde sono stata levata da’ miei Parenti, perché mi vogliono maritare in un mercatante assai buon Giovine, e ricco, ma che non mi piace; perché sono innamorata di Voi, e più tosto voglio vivere da povera Gentildonna con un Cavalliere, che ricca Mercantantessa con quel fusto. Avendovi però veduto queste sere addietro passare co’ Signori di questa casa davanti la mia abitazione (perché mio Padre ancora tiene qui appresso un poderetto) m’ho messo in testa di venirvi a trovare; perché sapendo per relazione d’Angelica, e per le vostre parole, che siete un Cavalliere molto cortese, e fedele con le Donne, spero che mi consolerete del vostro amore, o sposandomi, o trovando almeno invenzione, perché io non diventi moglie d’un Mercante, essendo anch’io nata di nobilissimo sangue al mio paese, benché la Fortuna abbia condotto in queste parti la mia Famiglia con sorte indegna della mia nascita.
Di quello, che dopo questa comparsa m’incontrasse con Doralice, o per Doralice, e di quello, che avvenisse di sua persona non vi caglia di sapere, come di materia antica, e de’ primi anni della mia gioventù. Basta, che così fatte larve vennero a trovarmi di giorno (non so poi se di notte) in questa Camera, dove tutti gli altri sognano spettri, e fantasme, orrori, e strepiti, oltraggi, e burle.

[…]

Astolfo : dove si tratta di bellezza, non entrano punto in considerazione la nobiltà della nascita, le ricchezze, le dignità, e gli altri doni della Fortuna: ma la conveniente proporzion delle membra, e de’ colori; dono singolare della Natura; e può così bene esser Regina della beltà una povera Contadinella, come la maggior Principessa d’Europa. E io per me credo, che si troverebbono molte Regine, non che infinite Dame qualificate, che si contenterrebono di possere la metà della bellezza, della grazia, e della gentilezza d’alcune povere Contadinelle, che essendo il Signor Glisomiro l’anno passato in una Villa del Padovano, venivano le feste a danzare nel cortile di quella Casa.
In quanto alla grazia, e alla beltà, disse Cateruzza, non v’ha dubbio, che tanta parte ne possa possedere una infelice contadinella, quanto una Dama d’alto sangue. Ma non so già come possa entrare la gentilezza fra Villani.
E pure, rispose Astolfo ... io conosco povere Contadinelle così avvenenti, e graziose, che in lor paragone riuscirebbono zotiche, e rozze molte delle più nobili Cittadine. E per tacere d’altre vidi fra le accennate Donzelle di Villa una Fanciulla di quattordici anni, oltre all’essere bellissima di volto, e leggiadrissima di persona; di tratto, di maniere, e di parole così gentili che non nata, e allevata povera contadina; ma pareva uscita d’alto sangue e nudrita nell’arti nobili delle case illustri. E quello, che è più da stimarsi così guardinga nel custodire la propria onestà, che avendole io un giorno toccate semplicemente le spalle per acconciarle il velo slegatosele danzando; me ne accusò appresso il Signor Glisomiro protestandogli che non sarebbe mai più capitata nella sua Casa, se non avesse proibito a’ suoi servidori il darle fastidio.
Così bella e gentil Contadina, disse Guglielmo, si poteva chiamar Dama di Villa. Ma in verità io ho veduto nelle ville di questo felicissimo paese, Contadinelle di sì bell’aria, di tanta avvenenza, e così leggiadramente vestite, che in molte Città, per le quali sono passato, farebbono parere diformi, sgraziate, e sconcie Villane le Cittadine più qualificate.
Non mi maraviglio adunque, disse Giustina, che Glisomiro si trattenga così volentieri in Contado, mentre vi trova così graziosi e amabili passatempi. E veramente ora ch’ei torna di villa egli ha il color della faccia così candido, e spiritoso, che pare appunto un giglio de’ campi, dove trattenendosi nella Città, porta sempre il viso tinto d’un colore, che degenera in pallidezza.
Questo nasce, disse Astolfo, dalla qualità dell’aria, che nelle ville essendo libera, aperta, e naturale rallegra gli spiriti, purifica il sangue, e mantiene i corpi ben disposti, dove l’aria della Città sforzata, grave, e compressa affanna l’anelito, altera le vene, e disolve le membra.
Nasce ancora, soggiunse Guglielmo, dalla diversità de’ trattamenti, poiché consumando i Cavallieri in villa giorni ne’ diporti delle caccie, e in altri piacevoli essercizi, e dormendo sonni non interrotti da pensieri Cittadineschi, con la contentezza del cuore abbelliscono la pelle del viso; dove nella Città i Ridotti, i Teatri, le Academie, gli amici, e i nemici, i disdegni, e gli amori, distraggono loro la mente, e travolgono la maniera del vivere in guisa, che d’ora in ora se ne risentono; e cascano infermi.
Sarebbe dunque meglio per Glisomiro (soggiunse Laureta) ch’egli stasse continuamente in Villa. E io per me ancora ne sentirei grandissimo gusto, amando la libertà della vita villeresca, dove non regnano le vanità de’ complimenti, e delle convenienze, che ci tengono nella Città sì fattament’assediati, che non abbiamo sovent’un’hora del giorno da spendere a nostro piacere. ... Esilij ... sono ... le Città, nelle quali vennero dalle proprie ingiustizie relegati gli huomini, che la vera Patria loro è la campagna, nella quale furono creati da Dio.