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Il vento e il remo. Letture omeriche - Andrea Brunetti





lunedì 14 gennaio 2008 legge Giovanna Miani
Sono raccolte in questo libro le letture omeriche che Andrea Brunetti aveva pubblicato, e stava ancora pubblicando, sulla rivista milanese «Il piccolo Hans», dal 1988 al 1994.
Bisognava come cavarglieli, gli articoli – e spesso scriveva appena sei pagine (ma così dense) quando gliene si chiedevano venti. Troppo più importante era la ricerca, che non la pubblicazione, e così a questa non pensava come a qualcosa che lo potesse davvero riguardare. L’ultima risorsa per vincere questa discrezione era di fargli capire che sarebbe stato scortese, a non dare «quel» pezzo, e allora cedeva.
Allo stesso modo accetterebbe ora questa raccolta in volume che gli amici hanno preparato in sua memoria. (Paolo Bollini)

ANDREA BRUNETTI, Il vento e il remo. Letture omeriche, Vallecchi Editore, Firenze 1994.



LA TELA DI OMERO (pp. 15-24)

Rileggere Omero, rileggerlo dopo alcuni anni, mi ha dato la sensazione di un ritmo particolare che avevo dimenticato, cadenzato dalle formule e dalle digressioni, che si può ben dire costituiscano l’ossatura e non il corollario dei poemi. Gli epiteti degli eroi e degli dei, il venire dell’aurora, le parole alate, sono la naturale guida della narrazione, il suono più autentico dell’opera di Omero. Non è facile però, nella sterminata bibliografia omerica, sentir parlare di tutto questo da un punto di vista semplicemente letterario: troppo spesso ci si sente prigionieri della questione dell’autore, delle varianti non accettate, dei problemi linguistici o comunque specialistici che frenano così spesso la ricerca estetico-letteraria o che sviano il discorso per portarlo su tutt’altri binari.
Bisogna risalire alla Poetica di Aristotele per trovare accenni di questo tipo: quando lo Stagirita confronta lo stile dell’epopea con quello della tragedia, afferma che la prima «è molto propensa naturalmente ad espandere la dimensione» perché l’uditore viene piacevolmente distratto dall’inserimento nella trama di «episodi svariati». Egli stesso nota che capita anche a noi, quando raccontiamo qualcosa, di fare aggiunte al nostro racconto «per riuscire più graditi».
[...] possiamo affermare a ragione che tutta l’epica sia costituita da una costante ripetizione, da un ritmo letterario di uscite continue dall’episodio narrato [...]
In questo contesto, in questo narrato così incalzante e insieme così lento (visto che trova il tempo di tante divagazioni) trovano posto alcune forme verbali proprie del dialetto ionico usate in tutta la letteratura greca soltanto da Omero e da Erodoto. Sono i cosiddetti «preteriti iterativi», quei verbi cioè che esprimono un’azione ripetuta e continuata nel passato.
[...] nell’ottavo canto dell’Odissea, quando Ulisse si presenta nell’assemblea dei nobili Feaci, curiosi di conoscere il personaggio venuto dal mare, l’eroe esalta la sua superiorità tra i mortali, ma, non volendo apparire uno sbruffone, subito aggiunge: «Con gli eroi antichi non vorrei mai misurarmi: né di certo con Eracle né con Eurito Ecalieo: i quali gareggiavano (e}ri/zeskon) con l’arco insieme agli dei»: il verbo «gareggiare» è un preterito iterativo.
[...] Penelope racconta i suoi vent’anni di attesa dicendo: «Di giorno tessevo (u{fai/neskon) la grande tela e di notte la disfacevo (a}llu/eskon)» [...]
Il ventiduesimo canto dell’Iliade racconta l’uccisione di Ettore: è il canto centrale del poema, che mostra l’esasperazione e l’eccesso di ogni passione: l’ira di Achille non trova soddisfazione neppure nello strazio del corpo dell’avversario, [...]. È un libro incalzante, che poco concede alle consuete digressioni, tutto incentrato sul racconto realistico della paura, della crudeltà e della vendetta.
Eppure, anche all’interno di questo canto, esistono due brevissimi momenti di pausa, della durata di pochi versi: una scena del tutto diversa, quasi idilliaca e fuori dal tempo, si presenta al lettore: Ettore terrorizzato cerca di sfuggire al Pelide che lo insegue «come un nibbio sui monti», e raggiunge due fontane, alle sorgenti del fiume Scamandro. Qui il poeta aggiunge:

E intorno ci son lavatoi ricchi d’acqua,
belli, di pietra, dove le vesti vivaci
lavavan (plu/neskon) le spose dei Teucri e le belle figliuole
un tempo, in pace, prima che i figli degli Achei giungessero.

In questo passo «lavavano» è espresso con un iterativo. Si potrebbe semplicemente pensare che lo sia perché esprime un gesto abituale, ripetitivo, e che la scelta è giustificata da questo fatto.
Sarebbe la spiegazione più semplice, ma non sufficiente, a mio parere, nella logica del linguaggio omerico.
Il canto si conclude con il lungo threnos di Andromaca, disperata per l’avvenire proprio e del figlio Astianatte: questi infatti, cacciato dagli amici, che gli rimprovereranno la morte del padre, ritornerà in pianto da lei, lui che:

...prima sulle ginocchia del babbo
midollo solo mangiava (e!deske) ...
dormiva (eu$deske) nel letto, cullato dalla nutrice,
in una morbida cuna, col cuore pieno di gioia.

Anche qui «mangiava» e «dormiva» sono espressi con iterativi, ma questi verbi non rappresentano più azioni ripetibili: come il «lavavano» delle donne troiane, sono qualcosa che non potrà più essere, e che è pensato dal narratore come rimpianto, dolore e nostalgia: [...]

Che cosa dunque rappresentavano, nella letteratura epica, i preteriti iterativi? Di certo possiamo dire soltanto che appartenevano agli excursus e non al racconto principale [...] e che a volte non esprimono altro che una semplice azione che si prolunga nel tempo.
Ma c’è un’altra ipotesi su questi verbi che vorrei azzardare, non comprovata da alcuno scolio, ma solo dall’uso che viene fatto nei due poemi: i preteriti non costituirebbero più il fondamento grammaticale della frase, al pari di ogni altro verbo, ma sarebbero un segnale di un secondo livello del racconto, che sembra nascondere un modo di narrare differente, perso con l’oralità dell’epos e rimasto soltanto in pochi sporadici episodi. Questo racconto secondario e senza tempo darebbe forma concreta a quel valore del verbo, l’aspetto, che in seguito ha dovuto segnare il passo (anche se, in greco, meno che in altre lingue antiche, come il latino) in favore del tempo propriamente detto. Se nel dialetto omerico ogni tempo ha spesso una radice tematica proprio per sottolineare il valore aspettuale, i preteriti iterativi non sarebbero altro che un’ulteriore specificazione dell’aspetto, privi di qualsiasi valenza temporale, usati solo ed esclusivamente per raccontare il superfluo, il resto del racconto, ciò che non è essenziale, ma che proprio per questo costituisce, in Omero, l’essenza stessa, e con essa il piacere, del testo.

LA DOPPIA ODISSEA: IL VENTO E IL REMO (pp. 25-43)

Per introduzione

1.1. Non è stato facile iniziare questa ricerca. [...]
Partivo avendo in mente l’importanza di due elementi dell’Odissea che normalmente vengono trascurati o quantomeno non ritenuti essenziali.
Il primo è che Ulisse all’inizio del suo viaggio non sembra puntare direttamente su Itaca, ma si ferma spesso e volentieri ad esplorare isole sconosciute trattenendosi in esse senza nessuna fretta, ansioso soltanto di procurarsi nuovi guadagni e nuove conoscenze.
Il secondo elemento è ancora più strano: il suo viaggio si può dividere in due parti ben distinte, la prima in cui l’eroe affronta pericoli e avventure nuove e sconosciute, la seconda in cui egli non fa altro che seguire i consigli e cercar di superare le prove che la maga Circe nel canto dodicesimo e l’indovino Tiresia nell’undicesimo gli hanno profetizzato, senza avere più iniziative personali o desideri di nuove avventure. [...].
Quello dunque che andavo cercando era un indizio testuale che, all’interno della narrazione del viaggio, facesse capire al lettore che le cose erano cambiate, che non era più il protagonista ad operare, a scegliere le sue mete, ma che tutto era già prestabilito in partenza [...].

Gli scopi del viaggio

2.1. La prima parte del racconto di Odisseo ai Feaci, che occupa il nono e il decimo libro dell’Odissea, riguarda come è noto gli approdi dai Ciconi, dai mangiatori di loto, dai Ciclopi, da Eolo, dai Lestrigoni e infine da Circe. Che cosa accomuna tutte queste avventure [...]? Abbiamo detto che il suo viaggio obbedisce ai criteri della curiosità, del cimento e del guadagno. Questi termini sono espressi dai verbi punqa/nomai, peira/w e dal sostantivo ke/rdoj. Ogni volta infatti che approda in un’isola nuova, sono sempre presenti all’inizio dell’esplorazione una, quando non due, di queste finalità.

2.2. È noto che il racconto del viaggio che lo ha portato dalla rocca di Troia all’isola dei Feaci viene fatto da Ulisse stesso al re Alcinoo e alla sua corte [...]. Tutte le avventure per le quali noi continuiamo a ricordarlo sono dunque informazioni di prima mano, e differiscono in qualche modo dallo stile così dilatato del resto del poema, che risponde al modo di narrare tipico dell’epica: perdersi e dilungarsi in episodi secondari non funzionali al filo del racconto, i famosi «episodi svariati» di cui parla Aristotele nella sua Poetica.
[...]

2.3. La prima tappa del viaggio è all’insegna della vendetta, e possiamo ritenerla quasi un’appendice della guerra appena vinta: per questo le sue caratteristiche narrative differiscono in parte da quelle che seguono: dapprima il vento avvicina le navi di Odisseo ai Ciconi, poi questi vengono vinti (erano alleati dei Troiani nella guerra), poi i compagni si fermano a mangiare e a bere, poi sopraffatti dai Ciconi ritornati in forze fuggono sulle navi e vengono assaliti da una tempesta mandata da Zeus.
Seconda tappa: i Lotofagi: si fermano a mangiare e a bere, poi si informano sugli abitanti del luogo e dopo l’episodio partono remando. I Ciclopi: l’abbondante caccia e il vino permettono loro di mangiare e bere, poi la nave di Ulisse parte per esplorare; e quando arriva alla grotta di Polifemo vuole rimanere ad attenderlo per avere doni ospitali (guadagno). Quando ripartono se ne vanno remando.
Il guadagno è ancora presente nell’episodio di Eolo, dal quale parte la prima volta con vento favorevole, la seconda, dopo l’apertura dell’otre dei venti da parte dei compagni, riparte remando, dopo aver mangiato e bevuto.
Dai Lestrigoni Ulisse si arrampica su una roccia per esplorare, poi manda i compagni a informarsi, infine fugge, sull’unica nave rimasta, remando.
Nell’isola di Circe, ultima tappa di questa sezione del viaggio, è presente il mangiare e il bere, e l’esplorazione sia personale che dei compagni.

Il remo e il vento

3.1. [...] Numerosi aggettivi accompagnano il nome di Ulisse [...]. Ma ce ne sono due che appartengono solo a lui [...]: l’uno lo segnala come uomo dai molti travagli, l’altro come astuto o dalle molte capacità: è polu/mhtij, che appare molto spesso, sia all’interno dell’Iliade che dell’Odissea.
Questo termine variamente tradotto [...] deriva dal termine mh~tij, che significa saggezza, abilità [...]: indica in sostanza una mente capace di affrontare le situazioni più disparate e difficili, per mezzo di una logica pronta a risolvere ogni problema.

3.2. Quando Ulisse arriva sull’isola di Eea, dove abita Circe, [...] fa una rivelazione sconvolgente ai suoi compagni [...]:

Sentite le mie parole, benché angosciati, compagni:
o cari, qui non sappiamo dov’è la tenebra e dove l’aurora,
o dove il Sole, che gli uomini illumina, cala sotto la terra,
o dove risale; cerchiamo dunque al più presto
se c’è ancora un mezzo; ma io credo di no.

Il termine che Rosa Calzecchi traduce con «mezzo» è appunto mh~tij: Odisseo ha dunque perso in quel momento la virtù che lo caratterizza: lui polu/mhtij in quel momento non riesce a trovarne neppure una, e possiamo anticipare che per tutto il resto della narrazione ad Alcinoo la sua capacità di risolvere le situazioni sarà del tutto assente. Che cosa gli fa perdere la logica? Il fatto di trovarsi in un’isola posta ai confini dell’oriente, dove non è più possibile orizzontarsi: per un uomo di mare non c’è pericolo maggiore e più spaventoso.
[...]

3.3. Queste osservazioni sul cambiamento, sulla svolta che l’approdo nell’isola di Circe imprime al viaggio di Ulisse, è avvalorata da molti riscontri all’interno del testo [...].
Abbiamo visto come nella prima parte del racconto di Odisseo era descritto l’arrivo in ogni isola: il pasto, il riposo, l’esplorazione. Ora invece si aggiunge un nuovo elemento [...]: nell’oltretomba viene fatto un sacrificio, così pure alla partenza dall’isola di Eea; quando arrivano nell’isola Trinachía viene fatto un solenne giuramento di non nutrirsi con le vacche del Sole; e sempre nell’isola Ulisse prega gli dei perché gli indichino il modo per partire; gli stessi compagni, prima di compiere il sacrilegio, cibandosi con i buoi sacri al dio Sole, fanno sacre ecatombi.
[...] questo affidarsi alla volontà degli dei segna un’enorme diversità di comportamento in Odisseo: la perdita della mh~tij fa sì che ogni sua azione sia determinata dalla pietas, dall’obbedienza cioè ai voleri divini. [...]

3.4. Il secondo elemento, abbastanza stupefacente, è che solo nella seconda parte del viaggio Ulisse affronta le prove che gli sono imposte dagli dei nell’ottica del ritorno a Itaca. Nel nono e nel decimo canto infatti [...] di Itaca non si parla mai, e le avventure che vengono affrontate sono causate da una volontà tutta umana di conoscenza, di guadagno e di cimento [...].
Ora invece queste avventure sono affrontate solo per necessità [...] e questo viene affermato da Circe [...]:

... se pensi al ritorno,
in Itaca, pur soffrendo dolori, potrete arrivare

e, per contrarium, da Euriloco, nell’isola Trinachía [...]:

Se torneremo a Itaca, alla terra dei padri,
subito al Sole Iperíone un ricco tempio
faremo...
Se invece...
la nave ci vuole distruggere...
preferisco d’un colpo aprire all’onda la bocca, e morire
che languire qui a lungo in una terra deserta!

Si sono dunque invertite le parti, e Ulisse, che prima incitava i compagni ad affrontare nuovi pericoli, fa ora da moderatore: è colui che pensa prima di tutto al ritorno [...], mentre Euriloco, che nell’isola di Circe lo supplicava di partire al più presto, è ora pronto ad affrontare l’ira degli dei.

3.5. L’ultimo elemento che contraddistingue la diversità tra le due parti del viaggio narrato è a mio parere il più importante e indicativo dal punto di vista testuale. C’è una precisa formula che ritorna ad ogni sosta volontaria e ad ogni partenza frettolosa: «battevano il mare schiumoso coi remi». [...] e ciò viene a sottolineare la personale iniziativa di Ulisse, che agisce in modo autonomo [...].
Di tutt’altra specie sono invece le partenze dopo la perdita della mh~tij: tutto è determinato dalla volontà degli dei e il segno di questo cambiamento è dato dal vento, che regola la navigazione sia in modo positivo (il vento di Circe, quello di Eolo, quello di Zeus per farli partire dalla Trinachía, quello di Calipso per volere del concilio degli dei) sia in modo negativo (la tempesta in Trinachía, quella di Poseidone al suo ritorno da Calipso).

3.7. [...] Se dunque l’autore dell’Odissea voleva presentarci un Odisseo pius, pur nella sua intraprendenza [...], dobbiamo chiederci quale era la sua intenzione e perché questo modello non ha avuto nessuna influenza sulla tradizione classica.
Penso che si possa cercare di spiegare questa mancata interpretazione indagando su alcuni aspetti del rapporto tra epica scritta e tradizione orale.



L’autore e il narratore

4.1. [...] lo scopo della mia ricerca è soltanto quello di trovare una ragione a quelle diverse «visioni» del protagonista che emergono dal suo racconto alla corte di Alcinoo: ho voluto, in breve, partire dal testo e rimanere sempre all’interno del testo stesso.

4.2. Un primo aspetto fondamentale delle peripezie di Ulisse nel contesto del poema è che sono raccontate da lui in prima persona. È questo un fatto del tutto nuovo e unico sia nell’Odissea sia nell’Iliade, dove i racconti in prima persona non sono mai funzionali alla trama del poema, ma rispondono invece alla logica dell’«allargamento», degli «episodi svariati» cui accennavo in 2.2. [...] Solo ad Ulisse è lasciata la narrazione diretta, in prima persona, senza interventi da parte dell’autore.
Questo dato è la vera novità dell’Odissea: essa non è soltanto una trascrizione di un canto tramandato, ma una vera e propria elaborazione, che ha in sé il germe e lo spirito di quello che noi oggi chiamiamo «romanzo»: i fatti non si succedono cronologicamente, ma sono narrati secondo una tecnica raffinata, che si serve dell’hysteron-proteron non per recuperare fatti che possono spiegare il presente, ma strutturalmente, come tecnica stessa del racconto; e che ha un doppio narratore, e quindi diversi punti di vista; [...]

4.3. [...] Penso che, come ogni scrittore, anche Omero non abbia potuto sottrarsi alla necessità di avere davanti a sé un lettore modello, fosse questo un colono della Ionia o un membro di una qualsiasi corte della madrepatria. [...]
L’autore sapeva che la sua opera riassumeva vicende note, ma diversamente narrate, e voleva riportarle in un testo scritto che inglobasse sia l’eroe mitico, spesso selvaggio e istintivo, sia il nuovo abitante della città, dedito al commercio e alle nuove regole della vita sociale.
[...] Per questo Ulisse appare nell’Odissea sotto due aspetti [...]: il suo rapporto con gli uomini rimane sospettoso e egocentrico – basti pensare alle bugie che racconta ad Atena, senza riconoscerla, appena arrivato ad Itaca, o a quelle pronte per Nausicaa nel canto sesto – ma egli capisce che nulla può contro gli dei immortali: la sua pietas quindi potrebbe essere dettata dalla convenienza, ma l’autore questo non ce lo dice: preferisce invece farci pensare che no c’è uomo che possa agire contro la volontà degli dei, e se questo uomo è intelligente deve adattarsi al loro volere, [...]. Si servirà dunque di ogni espediente per poter riuscire, accetterà la tempesta e il vento, ma in mancanza di questo si darà da fare col remo per poter arrivare alla meta. Per questo gli dei, che capiscono il suo carattere perché sono greci anche loro, possono rimproverarlo in questo modo:

Impudente, fecondo inventore, mai sazio di frodi, non vuoi
neppur ora, in patria, lasciar da parte le astuzie,
e i racconti bugiardi, che ti son cari fin dalle fasce.
Via, non parliamone più, perché ben conosciamo
le astuzie entrambi: tu sei il migliore fra tutti i mortali
per consiglio e parola, e io fra tutti gli dèi
sono famosa per saggezza e accortezza...

Questo diceva Atena appena l’eroe era arrivato ad Itaca, ma prima, mentre ancora lo ascoltava:

... rise la dea Atena occhio azzurro,
lo carezzò con la mano.


ULISSE E IL VIAGGIO IMMOBILE(pp. 45-61)

Nell’undicesimo canto dell’Odissea leggiamo la profezia di Tiresia [...]. Possiamo riconoscervi tre temi: innanzi tutto l’indovino tebano parla del ritorno dell’eroe [...]. Poi Tiresia parla del secondo viaggio di Ulisse, dopo l’arrivo a Itaca e la strage dei Proci, mentre l’ultimo argomento è la morte di Ulisse. [...]:

E quando, nelle tue case, i pretendenti li hai sterminati,
con l’inganno o a fronte con l’aguzzo bronzo,
prendi allora il maneggevole remo e va’
finché arrivi da uomini che non sanno
del mare, che non mangiano cibi conditi col sale,
che non conoscono navi dalle gote purpuree
né i maneggevoli remi che sono per le navi le ali.
E ti dirò un segno chiarissimo, non potrà sfuggirti.
Quando un altro viandante, incontrandoti,
dirà che tu hai un ventilabro sull’illustre spalla,
allora, confitto a terra il maneggevole remo
e offerti bei sacrifici a Poseidone signore,
un ariete, un toro e un verro che monta le scrofe,
torna a casa e sacrifica sacre ecatombi
agli dei immortali che hanno il vasto cielo,
a tutti con ordine. Per te la morte verrà
fuori dal mare (e}x), così serenamente da coglierti
consunto da splendente vecchiezza: intorno avrai
popoli ricchi. Questo senza errore ti annunzio.

Queste due ultime parti, più brevi e oscure della precedente, non avranno apparentemente compimento nel poema e saranno trattate più diffusamente in miti e in poemi paralleli, quali la Telegonia, che parla del figlio di Ulisse e Circe, fino ai racconti tardo antichi medievali, come quello celeberrimo di Dante nel canto ventiseiesimo dell’Inferno.
Questo lavoro nasce da una ricerca su queste due ultime profezie, con l’intento di dimostrare che già nel tredicesimo canto del poema omerico esiste se non un componimento, almeno un accenno di «soluzione» a questi due avvenimenti [...].

La profezia della morte e il sonno di Ulisse

Tutti coloro che si occupano del sonno nell’Odissea si soffermano su due momenti particolari e tragici [...]: il primo [...] quando, dopo il dono dell’otre dei venti da parte di Eolo, l’eroe si addormenta stremato e i compagni invidiosi, già in vista di Itaca, aprono il sacco [...].
Il secondo è [...]nell’isola Trinachía, quando il sonno di Ulisse permette il sacrificio dei buoi del Sole e la conseguente vendetta da parte del dio. In entrambi i casi è un sonno foriero di disgrazie [...].
[...] il sonno gli è nemico, e mai Ulisse ad esso si abbandona volentieri, ma ne è di volta in volta «vinto», o gli si abbandona «per forza» o «nolente». [...]
Solo alla fine delle sue peregrinazioni cambia totalmente atteggiamento: quando si trova a Scheria, dopo aver ricevuto dal re Alcinoo la promessa di essere riportato in patria, non sospetta dei suoi ospiti, pur essendo solo e pur senza conoscerli a dovere, ma si fida di loro a tal punto che «a lui parve gradito sdraiarsi».
È questo un cambiamento essenziale nella vicenda dell’eroe: mai in precedenza il dormire gli era sembrato gradevole, e questo stato di mancanza di paura, di piacere fiducioso del sonno [...] si ripresenta quando è sulla nave dei Feaci: ci dice l’autore

a lui cadeva sulle palpebre un sonno profondo,
continuo, dolcissimo, assai somigliante alla morte.

È strano, ma in entrambi i poemi omerici questa similitudine, divenuta topica nelle letterature posteriori, si presenta solo in questo passo, e questo indica a mio parere che l’autore non intendeva quello che noi possiamo intendere leggendo questo passo, ma un’espressione dal significato molto più letterale: Ulisse, al ritorno in patria, è in una condizione «in tutto simile alla morte» (qana/twi a!gcista e}oikw/j). Pochi versi dopo, Omero descrive lo sbarco dei Feaci sull’isola d’Itaca: essi non svegliano Ulisse, ma

con il telo di lino e con la coperta splendente
lo deposero sopra la sabbia, vinto dal sonno;
levarono poi le ricchezze che gli illustri Feaci gli diedero
quando partì, grazie alla magnanima Atena.

[...] perché Ulisse si addormenta e non si sveglia se non molto più tardi, quando i Feaci sono già partiti? [...] Evidentemente il clima creato dalla narrazione è del tutto particolare: sia gli oggetti che la descrizione stessa della grotta, sulla quale torneremo più tardi, fanno infatti pensare ad un clima ctonio. I doni di Arete n.d.c., il miele che le api depositano dentro ai crateri di pietra, i manti di porpora, che secondo Omero sono costitutivi dei funerali solenni, sono, più o meno, gli stessi oggetti che l’eroe porta a Persefone nel suo viaggio nell’Ade: miele, [...] vino, acqua, farina. Ci sono dunque, a mio parere, elementi sufficienti per ritenere che questa sia una prefigurazione della morte dell’eroe, [...].

La profezia del viaggio e l’antro delle ninfe

La profezia di Tiresia rimane [...] un vero e proprio spartiacque all’interno del poema. Il suo compito era [...] soprattutto quello di dividere gli avvenimenti tra quelli e}ni/ po/ntwi e quelli e}x a{lo/j, sul mare e lontano dal mare.

Infine tornerei all’esempio della diligenza [...] parlando di narrazione «stroboscopica»: il flusso narrativo sembra condurla prima avanti (viaggio – liberazione da Calipso – Telemachia nel primo canto) poi indietro (Telemachia – liberazione viaggio nei canti dal secondo al dodicesimo) poi ancora indietro (morte – viaggio – vendetta nel tredicesimo canto) poi di nuovo avanti (vendetta – secondo viaggio – morte nei canti dal quattordicesimo al ventiquattresimo). Questa discrasia tra i fatti e la loro anticipazione ricorda le operazioni del lavoro del telaio. Infatti il movimento che fa progredire la tela è un continuo avanzare ed arretrare della spola, che svela a poco a poco il disegno della trama pur attraverso un lavoro che sembra contraddittorio: è lo stesso procedimento che usa Omero, per mostrarci a un tempo il suo modo di procedere e lo splendido risultato della sua tessitura.


TRA I GIARDINI DI OMERO (pp. 71-88)

«Una parte di paesaggio che consiste di un albero o di più alberi, di un prato, di acqua che scorre o zampilla e dove si può ascoltare il canto degli uccelli e soffia un leggero alito di vento [...]». È questa una delle infinite definizioni del locus amœnus nei manuali di retorica, specificamente quella di Heinrich Lausberg.
Questo topos, che ha attraversato tutte le letterature occidentali e ha addirittura costituito da solo veri e propri generi letterari, prende la sua origine come è logico da Omero, col quale «inizia la trasfigurazione occidentale del mondo, della terra e dell’uomo».
[...]
È questo uno dei debiti innumerevoli che la poesia occidentale deve all’inconsapevole Omero, dal quale, attraverso Teocrito e Virgilio, hanno attinto, all’interno della poesia italiana, autori come Petrarca, Ariosto, Tasso, Marino fino a Leopardi [...]. La maggior parte delle descrizioni del locus amœnus corrispondono [...] a paesaggi dove predomina una terminologia vaga (boschetto, selva, fonte, erba, ...) [...]. [...] non altrettanto si può dire invece per la poesia omerica, nella quale sono presenti termini specifici [...].

[...]
Nell’Iliade le piante vengono rappresentate fondamentalmente sotto due aspetti: all’interno della fabula sono portate come esempi per indicare la morte di un eroe o la sua resistenza e forza di fronte alle avversità, da un punto di vista invece figurale rappresentano metonimie per indicare le armi e il materiale di cui sono costituite. [...]


La morte degli eroi

È molto frequente che la morte degli eroi [...] venga descritta come la caduta di un albero alto e forte: così accade quando Aiace Telamonio uccide il figlio di Antemione, Simoesio: colpito dalla lancia egli

piombò nella polvere, in terra come un pioppo
cresciuto nell’umido prato di grande palude,
liscio, e i rami in cima gli spuntano;
[...]
ed esso giace a seccare lungo la riva del fiume.

[...] L’albero caduto, inoltre, è per lo più associato alla polvere della terra (ko/nij) e questo particolare, come vedremo, non è certo privo di importanza.


Le armi

La metonimia delle armi è usata con molta frequenza: il faggio o il frassino designano quasi sempre le lance usate dagli eroi, arma principe delle battaglie e dei duelli iliadici: [...]. Tutto il poema è attraversato da morti per opera di faggi e frassini o da ulivi che fanno da manico alle asce da guerra.

Le similitudini

È questo l’uso più frequente delle piante all’interno del poema e la varietà delle stesse è vastissima: si va dalle querce e dai pini trascinati dalla piena di un torrente, per indicare la furia di Aiace nella pianura, ai tronchi che sono bruciati nella foresta dal fuoco alimentato dal vento, per indicare la strage di Troiani ad opera di Agamennone [...], al papavero che piega la testa per le piogge primaverili, per indicare la morte di Gorgizione figlio di Priamo colpito da Teucro.

I sepolcri

L’ultimo aspetto sotto il quale Omero ci presenta le piante del poema di Troia è in qualche modo la sintesi di tutti gli altri finora illustrati: alberi e piante appaiono [...] per la loro vera natura nei passi che riguardano la sepoltura o i sepolcri stessi: «Bruciavano gli olmi, i salici, i tamerischi» [...] «bruciava il loto e il giunco e la menta, / che intorno alle belle correnti del fiume abbondavano»: [...].

Da questo panorama ilidiaco dunque il ruolo delle piante è legato pienamente alla morte, [...]. Sono veramente rari i momenti di «vita» della natura, e quando ci sono, essi appartengono ad una natura ideale, al mondo degli dei e non degli uomini: è il caso, ad esempio, di quella scena umoristica che permette ad Era di ingannare il marito in favore degli Achei: Zeus, accecato d’amore per lei, la invita a stendersi e a darsi all’amore [...]:


Sotto di loro la terra divina produsse erba tenera,
e loto rugiadoso e croco e giacinto
morbido e folto, che della terra di sotto era schermo:
su questa si stesero, si coprirono di una nuvola
bella, d’oro: gocciava rugiada lucente.

I paesaggi e la natura descritti nell’Odissea sono invece di tutt’altro tipo: [...] è singolare ad esempio che mentre nell’Iliade sono le piante morte o quelle appena sradicate a rappresentare le armi, nell’Odissea due piante vive e magiche costituiscano potenti armi di difesa, l’una contro la realtà del mondo circostante (il loto che viene offerto ai compagni d’Ulisse nell’isola dei Lotofagi) e l’altra contro gli incantesimi della maga Circe (l’erba moly offerta da Hermes nell’isola di Eea).
[...] non è quindi una presentazione di un locus amoenus quella che importa ad Omero, ma quella di mondi dove il naturale paesaggio del lettore o dell’uditore greco viene completamente ribaltato [...]. Questo stupisce non solo il lettore, ma anche il protagonista, che racconta questi paesaggi avendo bene in mente quello della sua isola, dove «non esistono né larghe piste né prato». [...] potremmo dire che le descrizioni di Omero e di Ulisse nel suo racconto sono plasmate per descrivere tutto ciò che ad Itaca non c’è, o ancora meglio tutto quello che il protagonista vorrebbe che ci fosse [...].
C’è quindi nel corso del poema un rapporto inversamente proporzionale tra la bellezza, la visione idilliaca e l’abbondanza dei mondi degli dei e la lontananza dell’eroe [...]: quei mondi lontani [...] sono per il poeta dell’Odissea il segno chiaro di ciò che Ulisse vuole perdere per poter fare ritorno ad Itaca petrosa, e man mano che col suo racconto si avvicina ad Itaca i paesaggi sono più razionali e «civili», più simili insomma ai suoi: basta questo per suggerirci che lo strano, il favoloso e il magico sono nel mondo di Omero valori «negativi» che non tentano mai l’eroe protagonista: ne può fruire, può restare anche sette anni tra queste delizie, ma senza mai scordare l’isola, la moglie, il figlio che sono non tanto i suoi affetti, ma i suoi veri possessi che per nessuna ragione vuole perdere.
[...]
L’eroe che ha attraversato la natura morta e sterile dell’assedio di Troia, che ha conosciuto le delizie di un mondo diverso, vicino agli dei e a una natura immortale, che ha attraversato il mondo dei morti vuole in realtà tornare a contare le sue poche piante, di cui andava fiero già da bambino, nella sua isola, che deve riconquistare e ripossedere: la scrittura di Omero in questo è estremamente chiara e non ammette equivoci: non sono la bellezza, la rarità o la disposizione di alberi e piante a rendere felice il re di Itaca, ma il loro possesso, per poterne elencare, assieme al padre, il nome e il numero.

IL CANTO DELLE SIRENE (pp. 89-96)

1. Vi sono due figure, nella letteratura greca, che hanno un particolare rapporto con il dolore, e che rappresentano chi lo procura e chi lo lenisce. Entrambe hanno in comune il fatto di esprimersi attraverso il canto e la poesia, cosicché la letteratura diventa un mezzo per procurare la sofferenza o per farla cessare.
Questi personaggi sono le Sirene ed Orfeo. Quest’ultimo, personaggio leggendario dell’epica antica e delle religioni misteriche, ammansisce le fiere, dà gioia all’uomo [...].
Le Sirene invece perseguono attraverso la poesia lo scopo contrario: la loro è opera ammaliatrice, che attrae l’uomo per procurargli sofferenza e morte. [...]
«Sedute sul prato», dice Circe ad Ulisse, «col canto armonioso stregano l’uomo».
Questi due archetipi del bene e del male che operano attraverso la poesia si affrontano, durante il viaggio degli Argonauti, e Orfeo ha la meglio, coprendo la voce delle Sirene con la sua voce e la sua cetra.
Così racconta questa contesa Apollonio Rodio:

[Le Sirene]
mandavano l’incantevole voce, e quelli già stavano
per gettare a terra le gomene, se il figlio di Eagro,
il tracio Orfeo, non avesse teso nelle sue mani
la cetra bistonica, e intanto un canto vivace,
con rapido ritmo, in modo che le loro orecchie
rimbombassero di quel rumore, e la cetra
ebbe la meglio sulla voce delle fanciulle.

Dunque molto varia è la funzione del canto poetico nella letteratura antica: [...].
Ma c’è un’altra differenza tra queste due funzioni del canto poetico: la prima è impersonata da un uomo, che pur nella grande contiguità fra il divino e l’umano nel mondo epico, è tuttavia persona che soffre, che ama la sua sposa, che si adira con gli dei, [...]; le Sirene sono invece creature immutabili e divine, che agiscono per l’unico scopo di affermare la loro supremazia sui naviganti e l’ineluttabilità del loro castigo. Il loro canto utilizza la sua funzione «positiva», cioè la bellezza e la grazia, per ottenere la distruzione e la sofferenza.

Perché è tanto importante questo passo della vittoria di Orfeo sulle Sirene? Perché all’interno di quella continua lotta tra l’uomo e il dio che riempie la letteratura delle origini, ci mostra l’unica vittoria dell’uomo su una divinità usando le sue stesse armi.
[...] Protagonista di questo episodio è la poesia [...].

2. Mi è sembrato di ritrovare i termini di questa contesa delle origini, senza tuttavia vederla mai citata e neppure accennata, in un’opera contemporanea di una studiosa di letteratura americana che esamina il rapporto dell’uomo col dolore fisico.
La sofferenza del corpo di Elaine Scarry è un libro strano e anomalo per molti aspetti, perché non è un saggio sistematico, non appartiene a una disciplina soltanto (antropologia, filosofia, critica storica) ma le attraversa un po’ tutte senza porsi problemi di sistematica. Potrei definire l’argomento di questo saggio come un De rerum natura all’americana, perché esamina la natura delle cose [...] nel loro rapporto con l’uomo, classificandole secondo la loro capacità di procurare o lenire il dolore. Questo aspetto delle cose agisce per l’autrice come gli atomi per Lucrezio, [...].
Il volume si divide in due parti ben distinte, l’una dedicata alla distruzione del mondo (la tortura e la guerra), e l’altra alla sua costruzione (il rapporto dolore / immaginazione, la struttura della fede e quella dell’artefatto), e offre quindi in modo immediato la sua chiave di lettura: il dolore è il motore del comportamento dell’uomo, e questi agisce distruggendo quando vuole procurarlo, immaginando e creando, invece, quando vuole allontanarlo da sé.
[...]
Nel corso dell’opera, però, sembra che il discorso puramente verbale e linguistico scompaia del tutto o sia alquanto attenuato: esso è invece sotteso a tutto il libro come unico filo conduttore: la creazione e la distruzione degli oggetti sono in realtà in stretto rapporto col linguaggio, e l’immaginazione, che per l’autrice è l’unico elemento che può aiutare a ricreare in positivo e a lenire il dolore, ridona all’uomo quella facoltà che durante la sofferenza egli perde completamente: la capacità di esprimersi verbalmente.
La struttura della fede [...] è affrontata attraverso una lettura parallela tra due testi fondamentali nella storia dell’Occidente, la Bibbia e Il Capitale.
Come infatti le Sacre Scritture sono «narrazioni relative agli oggetti creati che fanno sì che il più importante di loro, cioè Dio, possa descrivere la struttura della stessa creazione» [...] così Il Capitale «è un complesso ripercorrere un sentiero lungo il quale la reciprocità della produzione umana ha smarrito la possibilità di ritrovare le proprie origini umane».
L’uomo è quindi stato sviato da una sua originaria capacità di creare e di produrre, o delegando a un Dio creato l’intera creazione, o perdendo il senso della creazione stessa attraverso i meccanismi della produzione capitalistica.
E Orfeo? Non è altro che l’uomo che, attraverso le proprie capacità [...] recupera nei confronti del Dio la propria autonomia creatrice, e ciò facendo automaticamente viene a negare che ci possa essere una voce al di fuori dell’uomo capace di lenire il dolore e di far cessare la sofferenza.
[...]

L’INFINITO (pp. 109-110)

La rappresentazione di questo idillio è ambientata, come si sa, sul monte Tabor, vicino a Recanati, ma contrariamente a quanto si è sempre pensato, questo è il solo particolare naturalistico di questa lirica. Tutto il resto è assolutamente metaforico, e non indica come sembra una meditazione che parte dalla natura, ma una meditazione che parte dalla lettura. Infatti basta sostituire o meglio pensare che il termine siepe sia una metafora e tutta la prospettiva dell’idillio cambia completamente.
Certo, noi sappiamo ormai troppe cose dell’Infinito per convincerci di un’interpretazione di questo tipo, ma se lo prendessimo come un testo antico, sconosciuto, [...] potremmo senza nessuna forzatura azzardare una interpretazione del tutto nuova. Proviamo a riscriverlo in questa chiave: sul colle, dove il poeta si trova, egli sta leggendo: la siepe è infatti un libro che gli impedisce, proprio perché lo ha davanti agli occhi, «il guardo dell’ultimo orizzonte». Ed egli vede dentro al libro, mirandolo cioè, tutto ciò che in seguito descrive: «interminati spazi», «sovrumani silenzi», «profondissima quiete» sono ciò che il suo pensiero si costruisce (il fingere latino) mentre è occupato nella lettura, e questa astrazione quasi lo spaventa, questa capacità di isolarsi dal resto del mondo a diretto contatto con una nuova natura data dal libro stesso.