logo dell'associazione

logo dell'associazione
Il sole dei morenti - Jean Claude IzzoPDFStampaE-mail
 
sabato 05 gennaio 2008 legge Ester Speroni
La consuetudine alla lettura assume diverso significato nei vari momenti dell’esistenza. Per Isa la lettura ha sicuramente avuto grande valore nel periodo della sua formazione culturale e, successivamente, nella sua vita con Paolo ha rappresentato un costante legame che li univa in uno stretto vincolo intellettuale. Erano entrambi così convinti del valore formativo di questa pratica da dare vita alla Bottega dell’Elefante, in cui la lettura pubblica significa costume civile e democratico. Più avanti, nell’amaro periodo delle malattie, lèggere aveva assunto per Isa un valore "terapeutico", un vero e proprio balsamo per l’anima. Appassionata lettrice, negli ultimi tempi divorava libri e tra gli ultimi quelli di Jean-Claude Izzo. Aveva scoperto questo autore con la trilogia marsigliese, una serie di noire. L’ultimo romanzo da lei letto è stato "Il sole dei morenti" ricco di emozioni forti.


Jean Claude Izzo, Il sole dei morenti, E/O 2004, trad. F. Doriguzzi
Prologo
L'inverno Titì se lo portava dentro. In quell’istante, gli sembrò perfino che il freddo fosse più pungente nel suo corpo che fuori, per strada.
Forse per questo non batteva più i denti, aveva pensato. Ormai non era che un unico blocco di ghiaccio, come l'acqua nei canaletti lungo i marciapiedi.
Un’insegna luminosa sopra la porta di una farmacia indicava la temperatura: 8° sotto zero. E l’ora: 20, 01.
Riparandosi a malapena in un androne, dalle 19,30 in poi Titì era stato a guardare i minuti sfilare. Poi l'aria gelida gli aveva annebbiato la vista.
Si era reso conto che il furgoncino bianco dei Restaurants du ceur non sarebbe più passato, e che era inutile continuare ad aspettarlo. Qualunque pezzente di Parigi conosceva il percorso a menadito: Nation - République - Invalides - Porte d'Orléans.
Ma da Hotel de Ville non ci passava mai quella macchina di merda, mai. E invece lui era proprio lì, in place de l'Hotel de Ville.
«E vaffanculo!» imprecò fra sé. «Titì, stai andando davvero fuori di testa!».
Ritornò con lo sguardo all'insegna luminosa, ma non riusciva a metterla a fuoco.
«Beh, ho capito. Non è il caso di sbraitare tanto, coglione che non sei altro!» si disse. Sì, stava uscendo di testa, ogni giorno un po' di più.
Anche Rico gliel'aveva detto, sin dai primi freddi. E di andare a farsi curare all'ospedale. Ma all'ospedale Titì non ci voleva andare.
« Va a finire che crepi» aveva detto Rico.
«E allora? L'ospedale è come morire. Ci entri in piedi ed esci lungo disteso. Ci andresti tu? Eh, ci andresti?».
«Vaffanculo, Titì».
«Vacci tu, cazzo!».
Da allora Titì non parlava più. Non solo a Rico. A nessuno. O quasi. Non gli succedeva quasi più di parlare. Non ne aveva più la forza.
Davanti a lui il semaforo diventò rosso per la seconda volta. «Inverno di merda» borbottò, tanto per trovare il coraggio di attraversare. A sentire le ossa sgretolarsi come stalattiti si era fatto prendere dalla paura.
Eppure per imboccare l'entrata del metrò doveva attraversare la strada.
Quella sera la sua ultima possibilità era raggiungere Rico e gli altri alla stazione del metrò di Ménilmontant.
Di sicuro si chiedevano dove fosse finito per tutto il giorno. Magari avevano qualcosa da mangiare. E un po' di vino. È il vino che tiene caldo più a lungo. Meglio del caffè, del latte, della cioccolata e di tutte quelle porcate.
Una bella sorsata di vino, una cicca, e al da farsi per la notte ci avrebbe pensato più tardi. Bastava arrivare prima che tutti fossero schizzati nei loro nascondigli o nei loro asili notturni. E soprattutto bastava che Rico fosse ancora lì. Rico era amico suo, da due anni.
Titì fece un passo, poi due. Con prudenza. Camminava facendo scivolare i piedi sull'asfalto ghiacciaio.
Fermo al semaforo, un tipo in macchina - di certo divertito dalla sua andatura impacciata - l'abbagliò con i fari, dando un colpo di acceleratore.
«Brutto figlio di puttana!» balbettò Titì senza voltarsi verso l'auto per paura di scivolare, di cadere, di spezzarsi.
S'infilò nel metrò tutto soddisfatto. Ma fu stupito di non ricevere come al solito il caldo umido in piena faccia. Riprese a tremare. Si strinse nel cappotto e si sedette.
«Ce l'avete una cicca?» chiese a una giovane coppia.
Ma forse aveva parlato a voce troppo bassa. O forse non aveva parlato affatto, solo dentro di sé. La coppia continuò a camminare lungo il binario senza nemmeno rivolgergli uno sguardo. Li guardò baciarsi, e ridere.
Finalmente arrivò un treno.
«Ma dove cazzo eri finito?» gli chiese Dédé.
Dei sei compagni di Ménilmontant rimaneva solo Dédé.
«Rico ti ha aspettato finora. È andato a cercarti al dormitorio. Anch'io stavo per tagliare la corda».
Titì scrollò la testa. Non riusciva a dire nemmeno una parola.
«Titì, tutto bene?».
Con la mano, Titì fece segno di mangiare.
«Fame» credette di essere riuscito a dire.
«Non ho niente, Titì. Non ho niente! Nemmeno un goccio da bere».
Gli occhi di TItì si spensero. Le palpebre gli si chiusero. La testa gli crollò sul petto. Prendere la coincidenza a Belleville l'aveva spossato. Aveva rischiato di cadere più volte per le scale.
«Oh, Titì! Porca puttana, sei sicuro che va tutto bene?».
Titì fece un cenno affermativo.
«Devo andarmene, Titì. Tieni...».
Dédé tirò fuori dalla tasca una sigaretta ammaccata, la lisciò fra le dita, l'accese e la fece scivolare fra le labbra di Titì. A occhi socchiusi, Titì aspirò lentamente il fumo, chinando la testa. Il suo modo per ringraziare.
«Glielo vado a dire a quelli lassù che sei ancora qui, eh Titì? Non preoccuparti, vedrai che vengono».
Dédé gli diede una pacca amichevole sulla spalla, poi scomparve sotto il cartello: "Coincidenza: Nation Porte Dauphine".
La banchina era deserta. Titì continuò a fumare, sigaretta fra le labbra, occhi socchiusi. La testa gli ricadde un 'altra volta sul petto.
L'arrivo di un treno lo fece sobbalzare. Scese un po' di gente, soprattutto dalle carrozze centrali, ma nessuno fece caso a lui. Titì aspirò l'ultima boccata, poi gettò il mozzicone. Tremava sempre di più.
Si alzò a fatica, trascinandosi fino alla fine del binario. Sgusciò dietro la fila di sedili di plastica, si sdraiò su un fianco, il viso verso il muro, poi si tirò il bavero del cappotto sulla testa e chiuse gli occhi.
L'inverno che aveva dentro se lo portò via.
………………

Il giorno in cui Rico e Titì si conobbero era la vigilia delle feste pasquali. Dietro di loro la coda si era allungata di una trentina di donne e uomini. La porta della parrocchia, ancora chiusa, impediva di ritirare il buono per il pasto.
Dopo più di un' ora, don Xavier era finalmente uscito a dare una spiegazione. La sala sarebbe rimasta chiusa il giovedì e il venerdì santo. «Per quelli che credono in Gesù Cristo» aveva iniziato, «e so bene che non è così per tutti i presenti, ma non importa, è necessario ricordare che nostro Signore è morto per noi in questo week-end di Pasqua».
Avevano tutti chinato il capo dicendosi: e vada per la predica pasquale.
Dopo essersi schiarito la voce, il parroco aveva ripreso: «Né oggi né domani serviremo da mangiare. Noi, i cristiani, celebriamo l'ultima cena che Gesù fece con gli apostoli ... ». «Ma guarda! Lui mangia per l'ultima volta e noi un cazzo!» aveva borbottato Titì.
«Amen, fratello, e stringiti bene la cintura» aveva risposto Rico scherzando.
Si erano guardati e poi, senza aspettare la fine di quello sproloquio, erano andati via. Alla ricerca di un'altra sbobba.
«In rue Serrurier» aveva proposto Rico.
«Troppa gente. E poi per stasera è troppo lontano».
«Allora rue de l'Orillon ... ».
«Porca puttana! Vuoi scherzare? Lì ci becchiamo la diarrea. Sono sei anni che sto per strada e mi ricordo di tutti i posti dove mi sono beccato qualcosa. Finché posso evito. No, tentiamo alla Trinité. Non è un tre stelle ma è abbondante. E pieno di studentesse carine. Minigonne appena sotto il culo, vedessi, roba da mandar giù pure la sbobba!».
Erano scoppiati a ridere e da allora non si erano più lasciati
«Come fanno ?» gli aveva chiesto una volta Titì fissando una brunetta carina che andava su e giù lungo il binario aspettando il metrò. Indossava una minigonna sotto il cappotto sbottonato.
«Come fanno cosa?»
«Ad avercela quasi scoperta senza farsela gelare»
«Si vede che l’idea di eccitarsi gliela tiene calda» aveva scherzato Rico.
.
Titì e Rico non si raccontarono mai come, un giorno, si fossero ritrovati in mezzo alla strada. Sapevano che i loro itinerari, malgrado qualche differenza, erano simili. E allora, fumandosi una cicca, preferivano parlare di tutto e di niente. Soprattutto Titì. Per Rico, Titì doveva essere stato professore o maestro. Qualcosa del genere. Aveva letto tantissimi libri e nelle loro discussioni vi faceva spesso allusione.
Nessuno dei due aveva più alcun dubbio la loro strada non era più una strada: Soltanto una palude in cui sprofondavano ogni giorno di più. Irrimediabilmente. A questo si erano ridotti. Impotenti a vivere.
………..

A un certo punto lui si era trovato un lavoro da fattorino per un commerciante di videocassette porno. Le consegnava a domicilio nei quartieri alti di Parigi. Una vita……
Una vita che assomigliava alla vita normale degli altri, quelli che s'incrociano per strada. Non come prima, quando viveva con Sophie, ma abbastanza normale per credere che, alla fin fine, avrebbe potuto rifarsi una vita. Ricominciare.
Un giorno gli fregarono il motorino. Il padrone rifiutò di dargliene un altro.
«Arrangiati. Niente motorino, niente lavoro. io non pago nessun motorino a degli stronzi come te. Il prossimo che assumo deve avere il suo mezzo di locomozione. Condizione indispensabile. Tu, o te ne trovi uno entro domani, o ti togli dai piedi ... ».
Era testardo Rico. E non trovò più lavoro. Vivere con l'ASSEDIC, il sussidio di disoccupazione, diventava difficile.
Il tempo passò. Un anno. Rico diede fondo agli ASSEDIC trascinandosi di bar in bar. E finì anche la pazienza di Malika.Una sera, rincasando, piuttosto sbronzo come al solito, trovò l'appartamento vuoto. Malika se n'era andata portandosi via quasi tutto. Non gli aveva lasciato nemmeno due parole. «Beh» si era detto soltanto, «non è mica la fine del mondo!». Ed era sceso di nuovo a bere in place Blanche.
Rico tenne l'appartamento. Gli affitti non pagati si accumulavano. Lettere raccomandate. Notifiche dell'ufficiale giudiziario. Alla vigilia dello sfratto tagliò la corda portandosi via solo dei vestiti e qualche cianfrusaglia che si rivelò ben presto inutile. Quel poco che .Malika aveva lasciato l'aveva venduto già da tempo. Compreso quello che apparteneva al padrone di casa. Il frigorifero e la piastra elettrica dell' angolo cottura

Era fine maggio. C'era già odore di primavera nell'aria. Rico dormì all'aperto in Square Henri IV. Quel primo mattino lo visse come un mattino di felicità. Di libertà. Andava verso l'ignoto.
Dopo quegli anni penosi con Malika si scopriva senza catene.
Iniziava un'altra vita, zaino in spalla, come un turista a Parigi. Fece fuori sessanta franchi per una splendida colazione in place du Chatelet con succo di frutta, caffè, croissant, pane burro e marmellata. Uscendo dal bar si disse che non sarebbe stata poi così dura la vita in strada. Si sentiva benissimo, no? La città era tutta sua.
Quando Titì gli aveva raccontato la storia dei beatnik, Rico aveva pensato a quel primo mattino, senza dire niente. On the road again: sì, capirai, che bella cazzata! E per sempre! Sei mesi più tardi non c'erano più dubbi su quel per sempre. Si rese conto che tutto quello che si era portato via non gli serviva assolutamente a niente. L’essenziale - buone scarpe, coltello, taglia-unghie, sacco a pelo - l'aveva trascurato, talmente era convinto che quella situazione non sarebbe durata.
E poi c'erano i ricordi.
«Tutte cazzate» aveva detto Titì. «Ti tiri dietro lettere, foto. Buone solo per farti piangere e buttarti giù di morale. Quando tagli i ponti, li devi tagliare davvero. Tocca scegliere».
Aveva buttato via tutto. Le lettere di Sophie, le loro foto insieme. Aveva tenuto solo una fotografia di Julien. Una foto tessera. Poteva dimenticare tutto, tranne suo figlio.
Marsiglia. In quel brutto sonno, agitato e doloroso, erano venute a galla delle immagini di Marsiglia. Prima lentamente. Poi a fiotti. Vie, piazze, bar. E il mare, le spiagge, la roccia bianca ...
Ricordi che gli venivano in mente come cartoline postali spedite dal passato. Come se finalmente il. passato avesse ritrovato il suo indirizzo e gli rispedisse tutta la posta non recapitata in quindici anni. il ricordo di Marsiglia. Tenero ricordo di Marsiglia.
«Ti amo, Léa». «Anch'io ti amo». Léa. L‘immagine di lei lo sorprese all'alba, quando si riaddormentò dopo essersi scolato la bottiglia di vodka. Nostalgia di una felicità perduta. Impressione che, forse, scegliendo di sposare Sophie invece di Léa, aveva sbagliato tutto nella vita………



Non aveva mangiato niente dalla sera prima. Aveva provato ma non gli andava giù niente. Neppure un biscotto. Un nodo gli chiudeva lo stomaco. Troppa pena. Troppa tristezza. Si era messo a dieta liquida. Birra e vino. E qualche caffè.
Erano sempre andati d'accordo loro due. Senza dubbio perché, anche se non esistevano più agli occhi della società, non si rassegnavano ad accettare qualunque cosa. Non come Jeannot, Fred e Lulù. Bastava vedere come s'ingozzavano per capire. Per questo era morto Titì. Perché la sua dignità gli impediva di cadere più in basso.. Rico si era spesso ripetuto che Titì avrebbe voluto conoscerlo prima. Averlo avuto come amico. Titì non l'avrebbe mai abbandonato. Non come gli altri, nei quali aveva creduto per anni, e che quando lui aveva incominciato a essere nei guai se 1'erano squagliata. 
Vincent, Philippe, Robert. Ed Éric.
Éric. Il suo vecchio compagno di liceo con cui ne aveva fatte di tutti i colori. Il suo testimone di nozze, che non gli aveva nemmeno fatto una telefonata quando Sophie se n'era andata.
Vincent, Philippe, Robert: Rico li aveva cancellati dalla memoria. Definitivamente. Ma Éric no. Non era disposto a perdonarlo.
Eppure avrebbe dovuto capirlo che Éric era così.
Da tempo. Faceva parte della logica delle cose. Éric stava dalla parte della bella vita. Da quella parte del mondo in cui denaro fa rima con famiglia e felicità. Il laboratorio d'analisi che aveva ereditato dal padre funzionava bene. Era circondato da una buona equipe. Non faceva un cazzo e alla fine del mese intascava un bel po' di soldi, soldoni che reinvestiva giudiziosamente e che fruttavano bene.

Rico aveva ancora in mente una discussione tra lui ed Éric, una sera al ristorante.
«Sono stufo di tutte queste stupidaggini umanitarie!». Éric si era innervosito. «Lo sai meglio di me che tutti quei tipi per strada sono solo degli stronzi. Dei segaioli. Se volessero lavorare davvero ... ».
«C'è la crisi, Éric. Ma tu non vuoi vedere niente, non vuoi sapere niente. Si licenzia anche da noi». «Ah, no!» aveva urlato Annie, la moglie di Éric. «Non vi metterete mica a parlare di politica adesso! Basta già la televisione ... ».
«Hai ragione, cara. Ciò non toglie che se si rispedissero a casa tutti i negri e gli arabi, si farebbe un po' di posto per i francesi che sono nella merda». «Éric non ha tutti i torti» interruppe Sophie. «Comunque, il vero problema è: cosa si fa per le feste? Andiamo alle Antille o a sciare?».
Ritornando a casa, Rico aveva litigato con Sophie.
Non perché avesse dato ragione a Éric, se ne fotteva altamente di quello che pensava, ma perché - e lei lo sapeva benissimo -la loro situazione finanziaria era piuttosto difficile.
Dopo la nascita di Julien, Sophie si era messa in aspettativa. Era impiegata in banca. Il ruolo di una donna, aveva decretato, è di occuparsi dei figli e della loro educazione.
Non per niente veniva dalla Vandea. Ma, una volta che Julien incominciò ad andare a scuola, decise di non riprendere il lavoro. Sarebbe rimasta a casa, come Annie.
Rico si era messo a lavorare sodo. Era sempre più spesso in viaggio. Guadagnava sempre di più, certo. Ma nonostante tutto era difficile reggere lo stesso tenore di vita di Éric e Annie. Tanto più che gran parte dei soldi finivano nel mutuo della splendida villa acquistata a Rothéneuf, vicino a Saint-Malo.

Un pomeriggio, sulla panchina di square des Batignolles, Rico si era lasciato andare e aveva raccontato tutto questo a Titì. Aveva il magone. Erano i primi giorni di scuola e lui con Julien non "c'era". Ogni anno stava male, a quell'epoca. Peggio che a Natale. La messa di mezzanotte, il cenone in famiglia, l'albero,i regali, tutto quell'armamentario fariseo da gente perbene.
«Perché vuoi venire?» aveva risposto Sophie quando le aveva telefonato. «Siamo in grado di vivere senza di te, per fortuna».
Al momento del divorzio - un anno dopo la partenza di Sophie, perché lui aveva fatto di tutto per ritardare la procedura - Rico non aveva nemmeno ottenuto il diritto di visita. Alcolizzato e violento. L’avvocato di Sophie era riuscito a farlo credere alla giudice incaricata della loro pratica, per giustificare l'abbandono del tetto coniugale da parte della sua cliente. Tutte le mogli dei suoi amici erano state pienamente d'accordo. Annie per prima. E’ vero che una volta l'aveva chiamata «brutta troia bacchettona». Ma quella sera non era ubriaco. Era soltanto incazzato. E ferito.
Commosso dal racconto di Rico, anche Titì si era lasciato un po' andare, per la prima volta. E in quel momento Rico aveva capito che cosa li univa. Avevano creduto tutti e due nella stessa cosa. Avevano sognato l'amore, una famiglia vera, una buona posizione. Sicurezza e stabilità, anche. E tutto era crollato senza che ne sapessero dawero il perché.

«Sai, un bel giorno non ho più avuto voglia di lottare. Per fare soldi e tutte quelle cazzate ... Rico, la strada è piena di brava gente come noi. Dopo tanti anni di vita di merda, ho capito che a vedere come funziona questa società non ti viene di certo voglia di ritornarci. lo, credi a me, non ci ritorno».
Rico aveva pensato spesso alle parole di Titì. Ma per quanto ci riflettesse, non riusciva a capire se avesse davvero voglia di ritornare alla vita di prima. Fino a quando non era andato a Rennes, il giorno prima.
Come ogni volta che andava a Rennes, più o meno una volta al mese, dormì nel parcheggio dietro alla stazione degli autobus. Nessuno gli aveva mai rotto le scatole, né i guardiani notturni né quegli altri vagabondi con i loro cani schifosi. La mattina bevve un caffè al bar della stazione, poi andò a darsi una sciacquata e a farsi la barba al cesso.
Alle otto si diresse verso il centro città, in rue d'Antrain, dove si trovava il College de l'Adoration, la scuola privata in cui Sophie aveva iscritto Julien subito dopo la separazione e il suo trasferimento a Rennes. Era la scuola che frequentavano i figli di Éric e Annie. E anche Armel, la figlia di Alain, l'uomo con cui adesso viveva Sophie.
Fumò due sigarette, appoggiato al muro di fronte alla scuola. Arrivò la macchina di Sophie. Una Golf GTI bianca. Rico si raddrizzò. Conosceva bene le abitudini di Sophie. Traffico o meno, si sarebbe fermata lì davanti, in seconda fila, non lontano da dove lui si trovava.
Armel scese per prima dalla macchina, poi Julien. «Ciao» disse Rico.
Julien lo squadrò. Ogni volta che Rico gli si parava davanti in quel modo, lo sguardo di Julien era lo stesso Uno sguardo in cui non riusciva a leggere niente. Né disprezzo né tenerezza né gioia né indifferenza. 
Niente.
«Sbrigati, Julien» gridò Sophie.
Era scesa dalla macchina senza prestare attenzione a Rico. Teneva Annel per mano. Julien la raggiunse. Attraversarono la strada. Davanti al cancello, Julien e Armel la salutarono con un bacio, poi entrarono nella scuola. Julien non si voltò.
Rico andò incontro a Sophie. I suoi occhi azzurri lo fulminarono.
«Ho fretta».
I capelli biondi le ricadevano a cascata sul collo del cappotto di cachemire beige, aperto malgrado il freddo. Indossava una maglia bianca a collo alto su una gonna aderente marrone che metteva in mostra le sue belle gambe ben sopra il ginocchio.
Rico non poté fare a meno di pensare alla domanda di Titì, quel giorno in cui si mangiava con gli occhi la brunetta in minigonna: «Come fanno?». Adesso Rico sapeva la risposta. Sono felici, ecco tutto. E la felicità tiene caldo.
Era a meno di un metro da Sophie. Lei era sempre così bella e desiderabile. Se gli avesse detto «vieni» l'avrebbe seguita, dimenticandosi di tutto il male che gli aveva fatto. Sì, l'avrebbe perdonata. Si può odiare continuando ad amare. Era una cosa che non aveva mai capito, che non avrebbe capito mai.
«Parto. Non mi rivedrete più».
«Credo sia meglio per tutti».
Risalì in macchina e accese il motore.
Rico rimase in mezzo alla strada, perduto. Una giovane donna gli si avvicinò.
«Tenga» gli disse, facendogli scivolare in mano una moneta da dieci franchi. «Prenda qualcosa di caldo».
E corse verso la sua macchina - un fuori strada Mitsubishi verde - posteggiata, anche quella, in seconda fila.
Dopo che il fuoristrada se ne fu andato, Rico rimase immobile, talmente era sconvolto. Strinse la moneta da dieci franchi nel palmo della mano. Sempre più forte, finché non gli fece male. Poi la buttò con rabbia in mezzo alla strada.
«Brutta troia» gridò infine.
Si rivolgeva a Sophie. Ma si rivolgeva anche a tutte le Sophie del mondo che si vestivano da Chanel o da Dior e che circolavano in Rover, in Xsara o in fuoristrada come quella stronza di prima con i suoi dieci franchi!
Da quanto tempo non aveva provato una rabbia così? Da anni. Gli anni vissuti per strada. Quei tre anni in cui aveva imparato a rassegnarsi. A essere indifferente agli altri. Al mondo.
Perché prendersela con quella donna per la sua elemosina? Là, in mezzo alla strada, non poteva sembrare nient'altro che quello che era. Un senzatetto. Un barbone. E lo doveva a Sophie. Ed era con Sophie che ce l'aveva. Solo con lei.
«Brutta troia!».
Come poteva aver dimenticato, rinnegato il loro amore? E che era lui il padre di suo figlio? Come poteva far crescere Julien come se lui non esistesse? «Brutta troia» mormorò mettendosi a piangere.
Gli occorsero molte ore per riemergere da quell' oscura mattinata. Camminò a lungo per le vie del centro. Si sentiva straniero e invece aveva vissuto lì per anni. La città, la gente, tutto gli sembrava ostile.


A un certo punto della notte Rico si è voltato verso di me. Ho sentito la sua mano accarezzarmi i capelli, dolcemente. Come faceva mio padre. "Ti voglio bene ometto" ha mormorato.
Mi sembrava di sognare, talmente era bello: quelle parole, quella mano sui miei capelli. Stavo sognando, mi sono detto. Perché non potevano essere altro che sogno quelle parole, quella mano nei miei capelli.
"Papà" ho mormorato. Avrei dovuto capire che non era un sogno. Avrei dovuto indovinarlo quando le labbra di Rico si sono posate sulla mia fronte e ho sentito sul viso il suo alito carico di umidità marcia.
Mi sono svegliato di colpo. Un rumore. Come di porta sbattuta. E il silenzio. Un silenzio pesante. Un silenzio umido. E quella puzza forte, di unto, che saliva da terra. Rico. Rico non c’era più. A quel punto ero completamente sveglio. E nella mia testa tutto si è rimesso a posto. Quella carezza sui capelli. Quel bacio sulla fronte. E l’orsacchiotto scivolato tra le mie braccia. Un addio.
"Rico! No!" ho gridato. La bici.
"Andiamo, ZinebOK?" Non potevamo lasciare Rico così. Da solo. No, non potevamo abbandonarlo.
La fine della strada. Il faro. Sicuro che lo troviamo là, eh, Zineb? Fino al faro. Non pensare. Pedalare. Pedalare.
Rico. Aspettami. Aspetta. La fine della diga. La fine della strada.
Ho sbattuto la bici per terra. Ho salito i gradini del terapie.
Ho aspettato, sapete.
Perché mi sono detto no. Una raffica di mistral gelido mi ha accolto. Rico era lì.
Seduto per terra. Con la schiena appoggiata alla pietra bianca. Gli occhi aperti. Sul largo. Sulle isole. Sull’orizzonte.
La cosa più bella che abbia mai visto.
Che Rico voleva vedere.
Un’onda è venuta a infrangersi ai piedi del faro e si è alzata dritta nel cielo.
Il mare inventava fuochi d’artificio.
Per Rico.
"Rico!"
Non serviva a niente.
Rico sorrideva. A occhi aperti.
Non ho più osato guardarlo.
La sirena di una nave è riecheggiata nel porto.
Adesso il sole era alto nel cielo.
Un sole bianco. Freddo.
Il sole dei morenti, ho pensato.
Il sole dei morenti.
Ho fatto scivolare la mia mano in quella di Rico. Intrecciando le mie dita alle sue. E ho aspettato.
Ho aspettato, sapete.
Perché mi sono detto, questa vita non può continuare così.
Non può.