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Il doppio (o triplo) gioco di Penelope


lunedì 10 novembre 2003 legge Eva Cantarella
Penelope: chi era costei?

Tutti noi sappiamo che Penelope era la fedele moglie di Odisseo, che aspettò il marito per molti, moltissimi anni, e alla fine fu premiata di tanta virtù, perché si riunì all’eroe vittorioso, capace di riconquistarsi il regno uccidendo tutti i nemici. 
Eppure, nell’antichità non ci doveva essere solo una Penelope. Questa figura era tutt’altro che semplice, doveva nascondere più Penelopi, e non tutte caratterizzate dalle medesime virtù. 
Eva Cantarella, leggendo un paragrafo significativo del suo ultimo libro (Itaca), dal titolo Itaca senza Ulisse. Penelope, rifà a ritroso questo percorso, mettendo in evidenza quanto un’analisi antropologica possa aiutarci a capire meglio l’origine dei miti e degli stereotipi fondamentali della nostra cultura.



Cantarella E., Itaca, Eroi, donne, potere tra vendetta e diritto, Milano, Feltrinelli 2002, pp. 59 – 72

[...]

2. Penelope
Cominciamo dalla regina, Penelope, la figlia bellissima di Icario, madre di Telemaco, rimasta a Itaca ad attendere il marito, apparentemente senza problemi - se non quello della lontananza di questi - più o meno per una quindicina di anni. Ma negli ultimi anni dell'attesa (gli ultimi tre o quattro, all'incirca) si era trovata a dover fronteggiare un problema non da poco: la sua casa era letteralmente assediata da una torma di aspiranti alla sua mano, quei giovani baldanzosi e determinatissimi che Omero chiama mnesteres (da mnesteuo, corteggiare) ma che - dal latino precor, l'equivalente di mnesteuo - sono a noi più noti come "proci".
Divenuta leggendaria per la sua fedele attesa del marito, Penelope è, in realtà, personaggio complesso, che merita più attenzione di quanto non si sia soliti tributarle: se non altro - ma non solo per questo - per capire le ragioni del suo fascino, che, come vedremo, attira sull'isola un numero incredibile di pretendenti.
Penelope a prima vista
Bellissima. Così ci appare Penelope, la prima volta in cui, nell'Odissea, scende dalle sue stanze per raggiungere la sala del banchetto, dove i pretendenti alla sua mano stanno ascoltando i racconti di Femio, l'aedo che dopo aver per anni servito Ulisse, ora è costretto a cantare per i proci:


Per essi [i pretendenti] il cantore famoso cantava: e in 
silenzio
quelli sedevano, intenti; cantava il ritorno degli Achei,
che penoso a loro inflisse da Troia Pallade Atena.
Dalle stanze di sopra intese quel canto divino
la figlia d'Icario, la saggia Penelope,
e l'alta scala del suo palazzo discese,
non sola, con lei andavano anche due ancelle.
Come fra i pretendenti fu la donna bellissima,
si fermò in piedi accanto a un pilastro del solido tetto,
davanti alle guance tirando i veli lucenti:
da un lato e dall'altro le stava un'ancella fedele.
(Od., 1,325-335)
Bellissima, ma piangente: come, del resto, in quasi tutte le sue successive apparizioni. Sentendo che Femio sta cantando il ritorno degli Achei dalla guerra di Troia, infatti, Penelope lo invita a cambiare soggetto:
Femio, molti altri canti tu sai, [...] 
smetti 
questo cantare
straziante, che sempre in petto il mio cuore 
spezza ...
(Od., 1,337-342)
È con il cuore spezzato, provando "pazzo dolore", dunque, che Penelope scende tra i suoi spasimanti: centootto, per la precisione. Tanti erano quelli che aspiravano alla mano della moglie, presunta vedova del re, assente ormai da vent'anni. Un numero spropositato. Ma di loro parleremo più avanti. Ora ci interessa Penelope, l'oggetto di tanto desiderio. Che vi fosse chi desiderava sposarla era più che comprensibile. Tutte le virtù che si richiedevano alle donne, Penelope le possedeva al massimo grado.
Più desiderabile di lei, sotto il profilo estetico, vi era, forse, in tutto il mondo greco, solamente Elena, bella come una dea immortale, bella al punto che secondo i vecchi troiani seduti presso le porte Scee a guardare la battaglia che infuriava nella pianura, "Non è vergogna che i Teucri e gli Achei schinieri robusti, [...] soffrano a lungo dolori" (Il., 3, 156-157).
Ma al di fuori di Elena, Penelope "divina" (dia) non temeva rivali. Quando scendeva dai suoi appartamenti, gli effetti che produceva sui proci erano devastanti. Ai pretendenti "si scioglieva il cuore nel petto al vederla", "si scioglievano le membra".
Oltre a intenerire il cuore, la sua visione accendeva il desiderio sessuale. Lo "scioglimento delle membra" è l'effetto tipico del desiderio, non solo nel linguaggio omerico: "Eros che scioglie le membra (lusimeles) ancora mi squassa, / dolceamara invincibile fiera," scrive Saffo.
Una sola volta, nell'Odissea, si dice che Penelope, pur piena di ogni virtù, deve temere il confronto estetico con alcune rivali. Più specificamente, con la ninfa Calipso. E, singolarmente, colui che fa questa affermazione è suo marito: ma, bisogna ammetterlo, in una situazione molto particolare.
Nel congedarsi da Calipso, con la quale - come vedremo - ha passato ben sette anni d'amore (Od., 7, 259), ma dalle cui attenzioni vuole ora liberarsi perché "sospira il ritorno" (Od., 5, 153), Ulisse concede alla ninfa che, quanto a bellezza, tra lei e Penelope non esiste possibilità di confronto:
... a tuo confronto la saggia Penelope
per aspetto e grandezza non val niente a vederla ...
(Od., 5, 216-217)

La dichiarazione, in verità, non è molto elegante. Ma come poteva Ulisse esimersi dal concedere a Calipso almeno questa soddisfazione? La ninfa voleva sposarlo, e pur di trattenerlo con sé, nell'isola Ogigia, era arrivata a promettergli l'immortalità. Ma ormai, Ulisse voleva tornare a Itaca.
L'avventura extraconiugale è finita, il congedo dall'amante inevitabile: ma Ulisse vuol farlo con delicatezza, vuole mitigare l'offesa del rifiuto. Penelope è mortale - egli dice alla ninfa - tu sei immortale "e non ti tocca vecchiezza" (Od., 5, 218): l'unico accenno, nell'Odissea, agli effetti dell'età su Penelope, abitualmente (come il marito, del resto, ma a differenza di Telemaco) immutata nell'aspetto, fissata in un'età senza tempo. Ma detto questo, quasi a voler cancellare la mancanza di lealtà verso la sposa fedele, Ulisse allude a una virtù di Penelope, di cui Calipso è priva, o quantomeno che non le viene riconosciuta: Penelope è "saggia" (periphron). E alla saggezza unisce un'altra virtù femminile, l'eccellenza nella tessitura, simbolo delle opere domestiche.
Come è ben noto, per ritardare il momento in cui avrebbe dovuto decidere quale tra i pretendenti scegliere come marito, Penelope aveva inventato il trucco della tela: prima di risposarsi, avrebbe tessuto un sudario per Laerte, il suocero vecchio e stanco, ritiratosi a vivere in campagna.
Se, ai nostri occhi, tessere un sudario non è esattamente un dono augurale, nell'ottica eroica il proposito di Penelope è doppiamente meritorio: da un canto è prova della sua devozione filiale, dall'altro, appunto, della sua abilità di tessitrice. Anche se, quasi inevitabilmente, appare anche un'ulteriore, ennesima manifestazione della propensione di Penelope a una sorta di compiacimento del dolore, ai pensieri di sventura, a un lacrimoso pessimismo che appare una, anche se non la sola, delle sue caratteristiche più tipiche. Ma su questo torneremo.
Penelope, dunque, è bella, saggia, lavoratrice. È silenziosa, obbediente e rispettosa dell'autorità maschile. In assenza del marito, segue senza discutere gli ordini del figlio, che non esita a rivolgergliene di perentori. Durante il banchetto (Od., 1, 325-342), quando Penelope, non sopportando di ascoltare Femio che racconta il ritorno dei guerrieri da Troia, chiede all'aedo di cambiare argomento, Telemaco, indispettito, le ricorda bruscamente che dell'uomo e solo dell'uomo è il comando in casa. E le ingiunge, perentoriamente:

Su, torna alle tue stanze e pensa all'opere tue, 
telaio e fuso; e alle ancelle comanda 
di badare al lavoro; al canto pensino gli uomini 
tutti, e io sopra tutti: mio qui in casa è il comando.
(Od., 1, 356-359)
Penelope non pensa neppure a ribellarsi. Tornata nelle sue stanze, "la prudente parola del figlio si tenne in cuore". Ma le sue virtù non finiscono qui. Ovviamente è pudica, al punto da vergognarsi ad andar sola fra gli uomini. E a queste virtù, tutte tipicamente femminili, unica tra le donne omeriche, aggiunge l'astuzia, la celebre metis, che caratterizza suo marito: l'intelligenza astuta, una forma di intelligenza, sia ben chiaro, inferiore al celebre logos, non a caso esclusivamente maschile. Un'intelligenza che (come vedremo meglio quando incontreremo Ulisse) sapeva usare trucchi e inganni, sapeva agire per vie traverse, raggiungeva gli obiettivi per strade oblique. Un'intelligenza "bassa", frutto dell'esperienza e della riflessione, utilizzata per raggiungere obiettivi concreti, spesso materiali.
Come Nestore ricorda ad Antiloco prima della gara dei carri, nel ventitreesimo canto dell'Iliade, poco prima che questi si incontri con concorrenti dai cavalli più veloci dei suoi,


Per metis più che per forza il boscaiolo eccelle, 
con metis il pilota sul livido mare 
regge la rapida nave, squassata dai venti, 
per metis l'auriga può superare l'auriga.
(//., 23, 315-318)
L'astuzia è dunque qualità usata in genere nell'esercizio delle tecniche. Nel caso di Antiloco, in particolare, dovrà esprimersi nel girare molto stretto alla meta (//., 23, 344-345). E va usata secondo regole precise: più in particolare, non deve violare le regole del gioco. Se le viola, da virtù diventa dolo, vale a dire grave scorrettezza, riprovata in quanto consente di "ingannare i più forti" (//., 23, 605). Ma se non degenera in dolo, e purché sia effìcace (anche qui, come nel campo della forza, l'etica omerica è quella del successo) la metis è qualità che suscita ammirazione e rispetto, al pari - anche se su un altro piano - della forza fisica e del coraggio: come dimostra, senza possibilità di dubbi, e rendendo inutile il ricorso ad altri esempi, il rispetto generale per l'astuzia di Ulisse, superiore come vedremo a quella di qualunque altro eroe (Od., 3, 120-123).
Al pari del marito, dunque - si direbbe quasi a sua imitazione - anche Penelope è astuta. La metis è qualità di cui è fiera, di cui spesso si vanta, e che la voce popolare le riconosce. La regina, dice il popolo, possiede le arti
... che somme le donò Atena,
fatti a sapersi bellissimi e pensieri sapienti
e astuzie, come nessuna sentimmo, neppure delle antiche,
di quelle che un tempo vissero, Achee trecce belle,
e Tiro e Alcmena, e Micene corona graziosa;
nessuna di quelle seppe pensieri come Penelope ...
(Od.,2, 116-121)

Senonché, sul piano dell'astuzia, a ben vedere, le prove di Penelope sono non poco deludenti.

L'inutile intelligenza femminile
In alcune occasioni Penelope viene rappresentata, in qualche modo, come l'equivalente femminile di suo marito, "l'astuto" per definizione e antonomasia. Come Ulisse, anche Penelope ricorre alla metis per raggiungere i suoi scopi. Per cominciare - lo sappiamo - quando escogita lo stratagemma della tela, con cui riesce a ritardare il momento in cui dovrà scegliere quale sposare tra i suoi pretendenti. E, di nuovo, ella ricorre alla metis alla fine del poema, nel ventitreesimo canto, quando vuole essere certa che lo sconosciuto che sostiene di essere suo marito sia veramente Ulisse, e non un impostore: a Euriclea, la nutrice, ordina di preparare per lui il letto, "il suo morbido letto [...], fuori dalla solida stanza, quello che fabbricò di sua mano" (Od., 23, 177-178). Ma come è ben noto quel letto Ulisse lo ha costruito dal tronco di un ulivo, successivamente "murandolo nella stanza", così che, egli ribatte indignato, "Tra gli uomini, no, nessun vivente, neanche in pieno vigore, / senza fatica lo sposterebbe". Grazie all'astuzia, dunque, Penelope ha finalmente la certezza che lo straniero misteriosamente sbarcato a Itaca è proprio Ulisse. In questo caso la sua metis raggiunge lo scopo prefisso. Come è stato rilevato, in questa circostanza ella appare addirittura più astuta di Ulisse. Questi infatti non capisce che la moglie vuole soltanto metterlo alla prova, e cade nell'inganno, arrivando a sospettare che veramente qualcuno abbia spostato il suo letto (metaforicamente, che Penelope lo abbia tradito).
Senonché, a ben vedere, l'"intelligenza astuta" di Penelope si rivela del tutto fallimentare, là dove viene usata per raggiungere quello che, all'interno della sua storia, è il suo obiettivo fondamentale, vale a dire il rifiuto del nuovo matrimonio.
Il trucco della tela, infatti, le consente di allontanare per qualche tempo il momento della scelta: ma solo per qualche tempo. Per colpa di un'ancella traditrice lo stratagemma viene scoperto e non raggiunge il suo scopo. In un mondo in cui il metro di giudizio di un atto è il suo successo, la metis di Penelope è inesistente.
Strana contraddizione in verità, l'insistenza del poeta su una virtù operativa incapace di produrre i suoi effetti. Per risolvere la contraddizione, si è ipotizzato che una tradizione più antica presentasse Penelope come un personaggio caratterizzato da un'astuzia efficace. E forse è così: forse, fu solo in un secondo momento, che ella cominciò ad assumere l'abito della fedeltà che non le sarebbe più stato tolto: probabilmente nell'Odissea, ove si può pensare che la sua astuzia abbia perso efficacia per lasciar spazio alla figura di Ulisse, e la caratterizzazione del suo personaggio si sia orientata verso il prototipo della moglie fedele.
Tutto questo è certamente possibile: ma quale che fosse la situazione precedente, l'astuzia di Penelope, nei poemi, sembra improduttiva anche per un'altra ragione.
A ben vedere, la metis è l'unica virtù comune a uomini e donne. Negli uomini poteva ben essere (nel caso di Ulisse era, con grande efficacia) una virtù strumentale, che affiancando la forza fisica, il coraggio e la parola, poteva contribuire a ottenere quel successo senza il quale un uomo non era un agathos. Ma che senso aveva, che funzione poteva avere la metis nel quadro dei valori e delle virtù femminili? Non era con l'astuzia che si poteva essere belle, obbedienti, fedeli.
L'astuzia, a ben vedere, era estranea al mondo femminile, o quantomeno, al mondo delle donne per bene: nel mondo di quelle che tali non erano, "le altre", vedremo invece che poteva avere un ruolo, e anche un'efficacia.
Senonché, quand'anche legate a modelli di comportamento diversi da quelli maschili, tutte le donne - anche quelle oneste, soprattutto quelle oneste - dovevano ammirare le qualità virili. Al punto da tentare di possederle, ove possibile. E poiché certamente non potevano aspirare a essere forti, si sforzavano di possedere l'unica virtù maschile che non fosse incompatibile con il loro ruolo. Ma inevitabilmente e quasi automaticamente, in loro l'astuzia diventava inefficace. A meno, appunto, che non appartenessero a quella categoria di donne che non possedeva le virtù femminili: "le altre", le donne poco oneste. Sul che peraltro, come accennavo, torneremo più avanti.
Alla luce di queste considerazioni, cominciano a sorgere dubbi sulla ricorrente affermazione che le figure femminili, in particolare quelle dell’Odissea, presentino l'immagine di una donna saggia, consigliera, protettrice e guida dell'uomo. Per non parlare, poi, dell'idea dell’Odissea poema "delle donne", formulata sulla fine del secolo scorso da Samuel Butler, famoso traduttore inglese di Omero.
Partendo dalla considerazione della maggior attenzione prestata nell’Odissea (rispetto all’Iliade) alle figure e ai temi femminili, alla casa e all'analisi psicologica dei personaggi, Butler arrivò a dire che il poema era stato scritto da una donna. Più precisamente, nonché incredibilmente, da una nobildonna di Trapani, il cui personaggio sarebbe descritto autobiograficamente in quello di Nausicaa.
L'ipotesi, ricordata come divertente curiosità, non merita evidentemente gran discussione. Mentre merita certamente di essere valutata - anche se, a questo punto, unita a qualche perplessità - l'idea, che periodicamente ritorna, di un’Odissea dominata da figure femminili di grande rilievo, ove giocherebbe un ruolo di primaria importanza e godrebbe di grande dignità sociale una Penelope dotata di intelligenza, capacità di iniziativa e formidabile costanza: nell'isola dove i suoi sudditi avevano dimenticato il loro re, solo Penelope infatti avrebbe tenuto viva la sua memoria. L'idea di una Penelope le cui qualità, per usare le parole di Nicole Loraux, consentirebbero di scoprire "il femminile come l'oggetto più desiderato dai Greci".
Un'idea seducente, non c'è che dire. Ma che, a ben vedere, si scontra con non pochi ostacoli, di cui la considerazione dell'inefficacia dell'astuzia di Penelope non è che l'inizio.
Penelope tra pianti e ambiguità
Spogliata della sua veste "astuta", Penelope, si potrà dire, resta pur sempre virtuosa. Ma ne siamo proprio sicuri?
Per quanto possa apparire sorprendente, la pudicizia e soprattutto la fedeltà di Penelope sono tutt'altro che al di fuori di ogni sospetto. Più di una volta, Penelope appare diversa dalla sua plurisecolare, consolidata, inossidabile immagine di moglie incorruttibilmente fedele.22
Nelle sue stanze, di giorno e di notte, questo è vero, Penelope piange. Piange per la lontananza del marito, piange per l'incertezza della sua sorte, si dispera all'idea di nuove nozze. Ma ai pianti alterna momenti di ripensamento, durante i quali sembra prendere in considerazione l'ipotesi di prendere nuovamente marito.
Sin qui, come non comprenderla? Restare sola, per una donna, era semplicemente impensabile. E i pretendenti premevano, forzavano la mano alla regina, in realtà priva di qualunque potere.
Non sto parlando, qui, di potere politico. Questo era per definizione maschile. Parlo di potere di decidere della propria vita. Di autonomia. Penelope, come le altre donne (salvo alcune figure che vedremo, peraltro del tutto anomale), di autonomia ne aveva poca: anche se, in verità, né suo padre Icario né suo figlio Te-lemaco intervengono nelle sue decisioni, o quantomeno non vi intervengono pesantemente, Telemaco, questo è vero, esasperato dai soprusi dei proci, sul finire del poema spinge la madre a risposarsi. Ma non la forza.
Senonché (qui cominciano le sorprese) a quanto pare Penelope non ha gran bisogno di incoraggiamenti, per decidere di riprendere marito. Come dicono i pretendenti, ella si comporta non poco stranamente. L'insospettabile Penelope fa il doppio gioco.
Da un canto rinvia le nozze fingendo di tessere il sudario per Laerte; dall'altro, da anni, illude i suoi pretendenti, facendo nascostamente promesse a ciascuno di loro. Dice Antinoo:

È già il terzo anno, e vien presto il quarto, 
che [Penelope] illude il cuore nel petto agli 
Achei. 
e tutti induce a sperare, fa promesse a 
ciascuno 
mandando messaggi ...
(Od. 2, 89-92)
Ovviamente, Antinoo è parte in causa. Forse non è del tutto obiettivo. Ma Atena, a Scheria, nell'esortare Ulisse a tornare in patria e a vendicarsi dei "pretendenti sfrontati" che da anni spadroneggiano in casa sua, non esita a dirgli che sua moglie "tutti li illude e fa promesse a ciascuno, mandando messaggi" (Od., 13, 380-381).
Ad alimentare i dubbi contribuisce il fatto che, dice Omero, Anfinomo "luminoso" (uno dei suoi tanti spasimanti)
... e molto a Penelope
piaceva pei suoi discorsi: aveva buon sentimento.
(Od., 16, 397-398)
Strano comportamento, in verità, quello di Penelope. Non doppio, ma triplo gioco. Messaggi segreti, promesse... Non a un solo pretendente. A tutti.
Del resto, che Penelope fosse tentata dal pensiero di riprendere marito è cosa che Telemaco dichiara esplicitamente: "l'animo nel suo petto è indeciso", egli dice, ella non sa
se qui con me rimarrà a curare la casa,
avendo riguardo al letto nuziale e alla voce del popolo,
e se ormai seguirà chi tra gli Achei è più nobile
e la corteggia in palazzo, offrendo doni infiniti.
(Od., 16, 74-77)
Sorprende, in verità, il riferimento ai "doni infiniti" dei pretendenti. Offrire doni alla sposa era quel che richiedeva l'etichetta del corteggiamento: ma i pretendenti di Penelope sono costantemente accusati di non rispettare la regola, sovvertendola e impoverendo il patrimonio di Ulisse. A ben vedere, più che una contraddizione, il riferimento di Telemaco ai "doni" appare come un'anticipazione.
Nel diciottesimo canto, infatti, Penelope, senza ragione apparente (un altro dei suoi momenti di ambiguità), decide di scendere fra i pretendenti che banchettano, e si indigna di fronte al modo inurbano e rozzo con cui questi trattano Ulisse, che, sbarcato a Itaca, ha assunto per intervento di Atena l'aspetto di un mendicante. Duramente, Penelope li rimprovera per la loro tracotanza, ma concludendo il discorso non dimentica di aggiungere che, ormai, si avvicina il giorno in cui dovrà consentire alle nozze: e a questo proposito lamenta che un tempo i corteggiatori usavano portare doni, "bovi e floride pecore, pranzo per la famiglia della giovane chiesta". I suoi pretendenti, invece, divorano i beni di Ulisse.
Ed ecco i pretendenti accogliere l'invito e, a gara, offrirle pepli, fìbbie d'oro, collane, pendenti di perle "grosse come le more", che Penelope si guarda bene dal rifiutare. Al contrario, subito dopo averli ricevuti si ritira nelle sue stanze seguita dalle ancelle, e mette i "doni bellissimi" al sicuro (Od., 18, 290-303)-
Penelope insomma sta seriamente meditando di risposarsi: come ella stessa dichiara a Ulisse, nel corso di un interessante colloquio, sul quale vale la pena soffermarsi. Siamo nel diciannovesimo canto: in veste di mendicante, Ulisse, rientrato dopo vent'anni nella sua casa, trova i proci che la fanno da padroni, che si fanno beffe di lui, lo svillaneggiano, arrivano a percuoterlo. Penelope, nelle sue stanze, viene a sapere dell'accaduto e si sdegna: anche un mendicante è un ospite, come tale va trattato. E poi, questo mendicante viene da lontano, da chi sa dove: potrebbe aver notizie di Ulisse. Penelope vuole parlargli, raccontargli le sue sofferenze. Il suo cuore, ella gli confessa quando egli viene ammesso alla sua presenza,

... con moti opposti s'agita di qua e là, 
se restare col figlio e serbare fedelmente ogni cosa, 
la mia ricchezza, gli schiavi, il palazzo alto e grande, 
avendo riguardo al letto nuziale e alla voce del popolo; 
oppure ormai seguire tra gli Achei chi è più nobile, 
e mi corteggia in palazzo offrendo doni infiniti.
(Od., 19,524-529)
Insomma: se è possibile che i pretendenti calunnino la regina, quando dicono che invia loro messaggi e che li illude facendo pensare a ciascuno di essere il prescelto, è anche possibile che essi dicano la verità.

Penelope a ben vedere
La fedeltà a oltranza, insomma, è solo una delle vesti della regina di Itaca: della quale, nei poemi, è possibile cogliere anche un'altra, diversa immagine.23
In realtà desiderosa di risposarsi, Penelope non prende decisioni solo perché, come esplicitamente dichiara, teme grandemente la demou phemis, la riprovazione popolare (Od., 19, 524-529; 16, 73-77).
Più volte, senza necessità, si reca fra i pretendenti, ben sapendo l'effetto che la sua apparizione provoca sui loro bramosi e incontrollabili spiriti. Alla vista della regina, nel diciottesimo canto,

Le gambe di quelli si sciolsero subito, incanto d'amore li 
vinse, 
e bramarono tutti di stendersi in letto con lei.
(Od., 18,212-213)
Penelope sembra conoscere e voler sfruttare l'effetto della sua bellezza. Sembra quasi voler provocare i pretendenti. Ma quel che più sorprende è la sua decisione di organizzare la gara dell'arco, per scegliere il nuovo marito. Alla decisione, che dice farla tanto soffrire, Penelope giunge, infatti, proprio nel momento in cui è venuta a sapere che Ulisse è non solo vivo, ma sta per tornare. Telemaco le ha detto di aver saputo che Ulisse non è ancora arrivato a Itaca solo perché trattenuto da Calipso (Od., 17, 142-146). Teoclimeno, l'indovino, ha predetto la morte dei proci (Od., 20, 351-357). E Ulisse stesso, in veste di mendicante, ha interpretato un sogno di Penelope, sul quale vale la pena soffermarsi.
Torniamo, dunque, al colloquio serale tra Penelope e Ulisse mendicante. Dopo tanti anni, racconta Penelope, ella non ha più modo di resistere alle pressioni dei pretendenti. Persino il figlio, ormai cresciuto, vuole che si decida a riprendere marito. Ma dall'ospite vuole un parere. Vuole che interpreti un sogno, che è venuto a turbarla durante la notte:
venti oche qui in casa mi beccano il grano,
uscendo dall'acqua, e io mi diverto a vederle.
Piombando dal monte un'aquila grande, becco adunco,
a tutte spezzò il collo e le uccise; riverse giacevano
in casa, in un mucchio; poi l'aquila al cielo luminoso s'alzò.
E io piangevo e singhiozzavo nel sogno,
e intorno mi si stringevano le Achive bei riccioli,
perché triste piangevo che l'aquila m'avesse ucciso le oche.
A un tratto, tornando, s'appollaiava sull'orlo del tetto,
e con parola umana mi tratteneva, mi disse:
"Coraggio, figlia del glorioso Icario; non sogno,
questa è visione reale, che si avvererà:
l'oche i tuoi pretendenti, e io t'ero aquila prima,
ma ora torno e sono il tuo sposo legittimo,
e ai pretendenti tutti darò morte ignobile".
(Od., 19, 536-550)
L'interpretazione del sogno non è difficile, in verità: fatto salvo il numero delle oche - assai minore di quello dei proci - il suo senso è evidente. E Ulisse-mendicante si affretta a spiegarlo: Penelope può stare tranquilla, l'aquila è suo marito, che sta per tornare. Come le oche, tutti i pretendenti saranno da lui sterminati.
Ebbene: a questo punto, sorprendentemente, incomprensibilmente, Penelope comunica all'ospite che ha deciso di organizzare una gara, e che si concederà in moglie al vincitore: sposerà quello tra i proci che riuscirà a tendere l'arco di Ulisse, e a scagliare con esso una freccia che attraverserà gli anelli di dodici scuri, che Ulisse aveva piantato nel palazzo, come sostegno di chiglie.
Ulisse-mendicante ovviamente la incoraggia a farlo: quale occasione migliore per compiere la sua vendetta? Ma Penelope non può conoscere il suo piano. E allora, perché - dopo tanta resistenza - decide di risposarsi proprio quando le è stato detto, da più parti, che il ritorno di Ulisse è questione di giorni, se non di ore?
L'episodio, bisogna dire, ha messo a dura prova anche i più accaniti sostenitori della fedeltà di Penelope, costretti a ricorrere a spiegazioni fantasiose, come quella secondo la quale, sapendo già del ritorno di Ulisse, ella avrebbe organizzato con lui la gara, per uccidere i pretendenti.
In verità, una volta di più, il comportamento della regina è molto strano. Donna ambigua, questa Penelope. Al punto che, a più riprese, diversi personaggi avanzano dubbi sulla paternità di Telemaco.

Atena, per cominciare. Nientedimeno che Atena. Nell'esortare Telemaco ad andare a Pilo per avere notizie del padre, la dea si dice sicura del successo del viaggio: ma solo nel caso che egli sia veramente figlio di Ulisse. "Se invece non fossi figlio di lui e di Penelope, allora non spero che compirai quanto mediti". (Od., 2, 274-275).
Lo stesso dubbio esprime, senza remore, il vecchio Nestore: tuo padre, egli dice a Telemaco, superava tutti negli inganni "se davvero sei figlio di lui" (Od., 3, 122-123).
Telemaco stesso appare incerto sulla propria ascendenza. Interrogato da Atena che, in veste di ospite, gli chiede se è veramente figlio di Ulisse, prudentemente le risponde che "...di lui mi dice la madre, ma io non lo so. Nessuno da solo può sapere il suo seme" (Od., 1, 215-216).
Come se non bastasse, persino Ulisse sembra coltivare qualche dubbio: vai al palazzo, dice a Telemaco dopo essersi fatto riconoscere da lui, ma non parlare con nessuno del mio ritorno "se davvero sei mio, se sei del mio sangue" (Od., 16, 300).
Il dubbio sulla paternità esiste sempre, questo è vero. Ma quelli avanzati su Penelope, in verità, sono troppi. E se dall'Odissea si passa ad altre fonti, i dubbi si consolidano.
Nella Epitome della Biblioteca di Apollodoro (7, 38), per cominciare, leggiamo che secondo alcuni Ulisse, tornato a Itaca, rimandò Penelope dal padre Icario, perché si era fatta sedurre da Antinoo (secondo altri, invece, Ulisse l'avrebbe uccisa perché si era fatta sedurre da Anfinomo).
Seguendo la tradizione di Mantinea, riportata da Pausania (8, 12, 5 sgg.), Penelope, dopo il ritorno di Ulisse, sarebbe stata bandita da Itaca per infedeltà, e dopo un lungo esilio, dapprima a Sparta e quindi a Mantinea, sarebbe morta in quella città, ove si troverebbe la sua tomba.
Cicerone (La natura degli dèi, 3, 22, 56) ricorda la tradizione secondo cui, unitasi a Ermes, Penelope avrebbe generato Pan, e gli scolii di Tzetze all'Alessandra di Licofrone (v. 772) arrivano significativamente a considerare Pan come generato da tutti i pretendenti .
Dubitare delle celebrate virtù di Penelope, insomma, sembra più che lecito. Eppure la critica, saldamente ancorata al mito della sua fedeltà, ha cercato in tutti i modi di evitare ogni sospetto, facendo ricorso, di volta in volta, a complicate spiegazioni psicologiche, e, quando queste non bastavano, al deus ex machina delle interpolazioni, o all'ipotesi della sovrapposizione di leggende diverse e mal amalgamate.
Le contraddizioni rimangono, tuttavia. Veramente strana, questa Penelope. E molto poco affidabile. Di lei diffidano proprio le persone che più dovrebbero stimarla, il figlio e il marito.

Le lodi sperticate di cui Ulisse ricopre la moglie, infatti, sono solo parole. L'ammirazione verbale non gli impedisce, rientrato a Itaca, di svelare la propria identità dapprima a Telemaco (Od., 16, 188-189), quindi a Euriclea (ma solo dopo che questa lo aveva riconosciuto grazie a una cicatrice: Od., 19, 466-467), successivamente a Eumeo (Od., 21, 207-208) e solo da ultimo a Penelope, quando la vendetta è stata compiuta e i proci sterminati.
Perché un simile atteggiamento? La risposta è semplice: Penelope è una donna. E delle donne, tutte, bisogna sempre diffidare. Regola generale di comportamento che tutti conoscevano, ma che, comunque, Agamennone, nell'Ade, esorta Ulisse a non dimenticare:
... anche tu con la donna non esser mai dolce,
non confidarle ogni parola che sai,
ma di' una cosa e lascia un'altra nascosta.
(Od., 11,441-443)
Agamennone, questo è vero, aveva le sue buone ragioni per non fidarsi delle donne. Ma la consapevolezza che Penelope era diversa da Clitennestra non gli impedisce di raccomandare a Ulisse:

Altro ti voglio dire e tu mettilo in cuore: 
nascosta, non palese, alla terra dei padri 
fa' approdare la nave: è un essere infido la donna.
(Od., 11,454-456)
E Ulisse non solo si guarda bene dal contraddirlo ma, tornato a Itaca, segue alla lettera il consiglio. Penelope è l'ultima a conoscere la sua vera identità. Per quanto carica di virtù, è pur sempre una donna. E quindi inaffidabile30: così inaffidabile che Atena, apparsa in sogno a Telemaco, quando questi si trova a Sparta alla ricerca di notizie del padre, lo esorta a tornare subito a casa. Il padre e i fratelli di Penelope insistono perché sua madre sposi Eurimaco
... quello che supera tutti
i pretendenti coi doni, e sempre aumenta la dote.
(Od., 15, 17-18)


Torna a casa, dunque, dice Atena a Telemaco:

Bada che [Penelope] non si porti via tuo malgrado
qualche tesoro.
Sai com'è il cuore nel petto di donna:
vuoi favorire la casa di colui che la sposa,
e dei figli di prima e del caro marito
morto non si ricorda più, né li cerca.
Dunque, tornato a casa, affida di tua mano ogni cosa
a quell'ancella che si mostra migliore,
fino a che i numi t'insegnino una nobile sposa.
(Od., 15, 19-26)