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Il Barone rampante (capitolo XXI) - Italo Calvino


lunedì 24 febbraio 2003 legge Alessandro Castellari
Si può scrivere l'attesa? Si può trasmettere sulla carta quel sentimento di sospensione, di ansia o di leggera euforia di chi attende qualcosa?
Nell'incontro si leggerà l'intero capitolo XX del 
Barone Rampante(1957) di Italo Calvino: 15 minuti di lettura senza che sia interrotta da dotti e inutili commenti, perché l'ansia dell'attesa amorosa di Cosimo diventa nel testo quel ritmo musicale degli sguardi, delle emozioni e dei pensieri che si dipana nel crescendo irresistibile della sintassi narrativa calviniana. In altri grandi racconti di attesa può accadere esattamente il contrario: che la sintassi sia cadenzata da un ritmo lento, sospeso e ondivago, come avviene in Eveline di James Joyce. Ma sempre, in tutti i casi, è il ritmo che produce artisticamente l'evento narrativo e lo comunica a chi legge.
E, sull'attesa, saranno letti alcuni frammenti dei testi scritti in questi mesi nel laboratorio di scrittura della Bottega dell'Elefante. Nell'attesa.




Italo Calvino, Il barone rampante

Capitolo XXI

Un giorno Cosimo guardava dal frassino. Brillò il sole, un raggio corse sul prato che da verde pisello diventò verde smeraldo. Laggiù nel nero del bosco di querce qualche fronda si mosse e ne balzò un cavallo. Il cavallo aveva in sella un cavaliere, nerovestito, con un mantello, no: una gonna; non era un cavaliere, era un'amazzone, correva a briglia sciolta ed era bionda.
A Cosimo cominciò a battere il cuore e lo prese la speranza che quell'amazzone si sarebbe avvicinata fino a poterla veder bene in viso, e che quel viso si sarebbe rivelato bellissimo. Ma oltre a quest'attesa del suo avvicinarsi e della sua bellezza c'era una terza attesa, un terzo ramo di speranza che s'intrecciava agli altri due ed era il desiderio che questa sempre più luminosa bellezza rispondesse a un bisogno di riconoscere un'impressione nota e quasi dimenticata, un ricordo di cui è rimasta solo una linea, un colore e si vorrebbe far riemergere tutto il resto o meglio ritrovarlo in qualcosa di presente.
E con quest'animo non vedeva l'ora che ella s'avvicinasse al margine del prato vicino a lui, dove torreggiavano i due pilastri dei leoni; ma quest'attesa cominciò a diventare dolorosa, perché s'era accorto che l'amazzone non tagliava il prato in linea retta verso i leoni, ma diagonalmente, cosicché sarebbe presto scomparsa di nuovo nel bosco.
Già stava per perderla di vista, quand'ella voltò bruscamente il cavallo e adesso tagliava il prato in un'altra diagonale che gliel'avrebbe portata certo un po' più vicina, ma l'avrebbe ugualmente fatta scomparire dalla parte opposta del prato.
In quel mentre Cosimo s'avvide con fastidio che dal bosco erano sbucati sul prato due cavalli marrone, montati da cavalieri, ma cercò di eliminare subito questo pensiero, decise che quei cavalieri non contavano nulla, bastava vedere come sbatacchiavano qua e là dietro a lei, certo non erano da tenere in nessuna considerazione, eppure, doveva ammettere, gli davano fastidio.
Ecco che l'amazzone, prima di scomparire dal prato, anche questa volta voltava il cavallo, ma lo voltava indietro, allontanandosi da Cosimo … No, ora il cavallo girava su se stesso e galoppava in qua, e la mossa pareva fatta apposta per disorientare i due cavalieri sbatacchioni, che difatti adesso se ne galoppavano lontano e non avevano ancora capito che lei correva in direzione opposta.
Ora ogni cosa andava veramente per il suo verso: l'amazzone galoppava nel sole, sempre più bella e sempre più rispondente a quella sete di ricordo di Cosimo, e l'unica cosa allarmante era il continuo zig-zag del suo percorso, che non lasciava prevedere nulla delle sue intenzioni. Nemmeno i due cavalieri capivano dove stesse andando, e cercavano di seguire le sue evoluzioni finendo per fare molta strada inutile, ma sempre con molta buona volontà e prestanza.
Ecco, in men che Cosimo s'aspettasse, la donna a cavallo era giunta al margine del prato vicino a lui, ora passava tra i due pilastri sormontati dai leoni quasi fossero stati messi per farle onore, e si voltava verso il prato e tutto quello che v'era al di là del prato con un largo gesto come d'addio, e galoppava avanti, passava sotto il frassino, e Cosimo ora l'aveva vista bene in viso e nella persona, eretta in sella, il viso di donna altera e insieme di fanciulla, la fronte felice di stare su quegli occhi, gli occhi felici di stare su quel viso, il naso la bocca il mento il collo ogni cosa di lei felice d'ogni altra cosa di lei, e tutto tutto tutto ricordava la ragazzina vista a dodici anni sull'altalena il primo giorno che passò sull'albero: Sofonisba Viola Violante di Ondariva.
Questa scoperta, ossia l'aver portato questa fin dal primo istante inconfessata scoperta al punto di poterla proclamare a se stesso, riempì Cosimo come d'una febbre. Volle gridare un richiamo, perché lei levasse lo sguardo sul frassino e lo vedesse, ma dalla gola gli uscì solo il verso della beccaccia e lei non si voltò.
Ora il cavallo bianco galoppava nel castagneto, e gli zoccoli battevano sui ricci sparsi a terra aprendoli e mostrando la scorza lignea e lucida del frutto. L'amazzone dirigeva il cavallo un po' in un verso un po' in un altro, e Cosimo ora la pensava già lontana e irraggiungibile, ora saltando d'albero in albero la rivedeva con sorpresa riapparire nella prospettiva dei tronchi, e in questo modo di muoversi dava sempre più fuoco al ricordo che fiammeggiava nella mente del Barone. Voleva farle giungere un appello, un segno della sua presenza, ma gli veniva alle labbra solo il fischio della pernice grigia e lei non gli prestava ascolto.
I due cavalieri che la seguivano, parevano capirne ancor meno le intenzioni e il percorso, e continuavano ad andare in direzioni sbagliate impigliandosi in roveti o infangandosi in pantani, mentre lei sfrecciava sicura e inafferrabile. Dava ogni tanto delle specie d'ordini o incitamenti ai cavalieri alzando il braccio col frustino o strappando il baccello d'un carrubo e lanciandolo, come a dire che bisognava andare in là. Subito i cavalieri si buttavano in quella direzione al galoppo per i prati e le ripe, ma lei s'era voltata da un'altra parte e non li guardava più.
"E' lei! E' lei!" pensava Cosimo sempre più infiammato di speranza e voleva gridare il suo nome ma dalle labbra non gli sortiva che un verso lungo e triste come quello del piviere.
Ora, avveniva che tutti questi andirivieni e inganni ai cavalieri e giochi si disponessero intorno ad una linea, che pur essendo irregolare e ondulata non escludeva una possibile intenzione. E indovinando quest'intenzione, e non reggendo più all'impresa impossibile di seguirla, Cosimo si disse: "Andrò in un posto che se è lei ci verrà. Anzi, non può essere qui che per andarci". E saltando per le sue vie, andò verso il vecchio parco abbandonato dei D'Ondariva.
In quell'ombra, in quell'aria piena d'aromi, in quel luogo dove le foglie e i legni avevano altro colore e altra sostanza, si sentì così preso dai ricordi della fanciullezza che quasi scordò l'amazzone, o se non la scordò si disse che poteva pure non esser lei e tanto già esser vera quest'attesa e speranza di lei che quasi era come se lei ci fosse.
Ma sentì un rumore. Era lo zoccolo del cavallo bianco sulla ghiaia. Veniva per il giardino non più di corsa, come se l'amazzone volesse guardare e riconoscere minutamente ogni cosa. Dei cavalieri sciocchi non si sentiva più alcun segno: doveva aver fatto perdere del tutto le sue tracce.
La vide: faceva il giro della vasca, del chioschetto, delle anfore. Guardava le piante divenute enormi, con pendenti radici aeree, le magnolie diventare un bosco. Ma non vedeva lui, lui che cercava di chiamarla col tubare dell'upupa, col trillo della pispola, coi suoni che si perdevano nel fitto cinguettio degli uccelli del giardino.
Era smontata di sella, andava piedi conducendosi dietro il cavallo per le briglie. Giunse alla villa, lasciò il cavallo, entrò nel portico. Scoppiò a gridare: - Ortensia! Gaetano! Tarquinio! Qui c'è da dare il bianco, da riverniciare le persiane, da appendere gli arazzi! E voglio qui il tavolo, là la consolle, in mezzo la spinetta, e i quadri sono tutti da cambiar posto!
Cosimo s'accorse allora che quella casa che al suo sguardo distratto era parsa chiusa e disabitata come sempre, era invece adesso aperta, piena di persone, servitori che pulivano, rassettavano, davano aria, mettevano a posto mobili, sbattevano tappeti. Era Viola che ritornava, dunque, Viola che si ristabiliva a Ombrosa, che riprendeva possesso della villa da cui era partita bambina! E il batticuore di gioia in petto a Cosimo non era però molto dissimile da un batticuore di paura, perché essere lei tornata, averla sotto gli occhi così imprevedibile e fiera, poteva voler dire non averla mai più, nemmeno nel ricordo, nemmeno in quel segreto profumo di foglie e color della luce attraverso il verde, poteva voler dire che lui sarebbe stato obbligato a fuggirla e così fuggire anche la prima memori di lei fanciulla.
Con quest’alterno batticuore Cosimo la vedeva muoversi in mezzo alla servitù, facendo trasportare divani clavicembali cantoniere, e poi passare in fretta in giardino e rimontare a cavallo, rincorsa dallo stuolo della gente che attendeva ancora ordini, e adesso si rivolgeva ai giardinieri, dicendo come dovevano riordinare le aiole incolte e ridisporre nei viali la ghiaia portata via dalle piogge, e rimettere le sedie di vimini, l’altalena …
Dell’altalena indicò, con ampi gesti, il ramo dal quale era appesa una volta e doveva essere riappesa ora, e quanto lunghe dovevano essere le funi, e l’ampiezza della corsa, e così dicendo col gesto e lo sguardò andò fino all’albero di magnolia sul quale Cosimo una volta le era apparso: E sull’albero di magnolia, ecco, lo rivide.
Fu sorpresa. Molto. Non dicano. Certo, si riprese subito e fece la sufficiente, al suo solito modo, ma lì per lì fu molto sorpresa e le risero gli occhi e la bocca e un dente che aveva come quando era bambina.
-Tu! – e poi, cercando il tono di chi parla di una cosa naturale, ma non riuscendo a nascondere il suo compiaciuto interesse: - Ah, così sei rimasto qui da allora senza mai scendere?
Cosimo riuscì a trasformare quella voce che gli voleva uscire come un grido di passero, in un: - Sì, sono io, Viola, ti ricordi?
- Senza mai, proprio mai posare un piede in terra?
- Mai.
E lei, già come se si fosse concessa troppo: - Ah, vedi che sei riuscito? Non era dunque poi così difficile.
- Aspettavo il tuo ritorno …
- Benissimo: Ehi, voi, dove portate quella tenda! Lasciate tutto qui che veda io! – Tornò a guardare lui: Cosimo quel giorno era vestito da caccia: irsuto, col berretto di gatto, con lo schioppo. – Sembri Robinson!
-L’hai letto? – disse subito lui, per farsi vedere al corrente.
Viola s’era già voltata: - Gaetano! Ampelio! Le foglie secche! C’è pieno di foglie secche! – E a lui: Tra un’ora, in fondo al parco: Aspettami -. E corse via a dar ordini, a cavallo.
Cosimo si gettò nel folto: avrebbe voluto che fosse mille volte più folto, una valanga di foglie e rami e spini e caprifogli e capelveneri da affondarci e sprofondarci e solo dopo essercisi del tutto sommerso cominciare a capire se era felice o folle di paura.
Sul grande albero in fondo al parco, coi ginocchi stretti al ramo, guardava l’ora in un cipollone che era sto del nonno materno Generale Von Kurtewitz e si diceva: non verrà. Invece Donna Viola arrivò quasi puntuale, a cavallo: lo fermò sotto la pianta, senza nemmeno guardare in su; non aveva più il cappello né la giubba da amazzone; la blusa bianca bordata di pizzo sulla gonna nera era quasi monacale. Alzandosi sulle staffe porse una mano a lui sul ramo; lui l’aiutò; lei montando sulla sella raggiunse il ramo, poi sempre senza guardare lui, s’arrampicò rapida, cercò una forcella comoda, sedette. Cosimo s’accoccolò ai suoi piedi, e non poteva cominciare che così: - Sei ritornata?
Viola lo guardò ironica. Era bionda come da bambina.
- Come lo sai? - fece
E lui, senza capire lo scherzo: - T’ho visto in quel prato della bandita del Duca …
- La bandita è mia. Che si riempia d’ortiche! Sai Tutto? Di me, dico?
- No … Ho saputo solo ora che sei vedova …- Certo, sono vedova – si diede un colpo alla sottana nera, spiegandola, e prese a parlare fitto fitto: - Tu non sai mai niente. Stai lì sugli alberi tutto il giorno a ficcanasare negli affari altrui, e poi non sai niente. Ho sposato il vecchio Tolemaico perché m’hanno obbligata i miei, mi hanno obbligata. Dicevano che facevo la civetta e che non potevo stare senza un marito. Un anno, sono stata Duchessa Tolemaico, ed è stato l’anno più noioso della mia vita, anche se col vecchio non sono stata più d’una settimana: Non metterò mai più piede in nessuno dei loro castelli e ruderi e topaie, che si riempiano di serpi! D’ora in avanti me ne starò qui, dove stavo da bambina. Ci starò finché mi garba, si capisce, poi me ne andrò: sono vedova e posso fare quello che mi piace, finalmente. Ho fatto sempre quel che piace, a dire il vero: anche Tolemaico l’ho sposato perché m’andava di sposarlo, non è vero che m’abbiano obbligato a sposare lui, volevano che mi maritassi a tutti i costi e allora ho scelto il pretendente più decrepito che esistesse. “Così resterò vedova prima”, ho detto e difatti ora lo sono.
Cosimo era lì mezzo stordito sotto quella valanga di notizie e d’affermazioni perentorie, e Viola era più lontana che mai: civetta, vedova e duchessa, faceva parte d’un mondo irraggiungibile e tutto quello che lui seppe dire fu: - E con chi era che facevi la civetta?
E lei: - Ecco. Sei geloso. Guarda che non ti permetterò mai di essere geloso.
Cosimo ebbe uno scatto proprio da geloso provocato al litigio, ma poi subito pensò: “Come? Geloso? Ma perché ammette che io possa esser geloso di lei? Perché dice: “non ti permetterò mai”? E’ come dire che pensa che noi …”
Allora, rosso in viso, commosso, aveva voglia di dirle di chiederle, di sentire, invece fu lei a domandargli, secca: - Dimmi ora tu: cos’hai fatto?
- Oh, ne ho fatte di cose, - prese a dire lui, - sono andato a caccia, anche cinghiali, ma soprattutto volpi lepri faine e poi si capisce tordi e merli; poi i pirati, sono scesi i pirati turchi, è stata una gran battaglia, mio zio è morto; e ho letto molti libri, per me e per un mio amico, un brigante impiccato; e ho tutta l’Enciclopedia di Diderot e gli ho anche scritto e m’ha risposto, da Parigi; e ho fatto tanti lavori, ho potato, ho salvato un bosco dagli incendi …
- … E mi amerai sempre, assolutamente, sopra ogni cosa, e sapresti fare qualsiasi cosa per me?
A quest’uscita di lei, Cosimo, sbigottito disse: - Sì …
- Sei un uomo che è vissuto sugli alberi solo per me, per imparare ad amarmi …
- Sì … Sì …
- Baciami.
La premette contro il tronco, la baciò. Alzando il viso si accorse della bellezza di lei come se non l’avesse vista prima. – Ma di’: come sei bella …
- Per te , - e si sbottonò la blusa bianca. Il petto era giovane e coi bottoni di rosa, Cosimo arrivò a sfiorarlo appena, Viola guizzò via per i rami che pareva volasse, lui le rampava dietro e aveva in viso quella gonna.
- Ma dove mi stai portando? – diceva Viola come fosse lui a condurla, con lei che se lo portava dietro.
- Di qua, - fece Cosimo e prese lui a guidarla, e a ogni passaggio di ramo la prendeva per mano o per la vita e le insegnava i passi.
- Di qua, - e andavano su certi olivi, protesi da una ripida erta, e dalla vetta d’uno d’essi il mare che finora scorgevano solo frammento per frammento tra foglie e rami come frantumato, adesso tutt’a un tratto lo scopersero calmo e limpido e vasto come il cielo. L’orizzonte s’apriva largo e alto e l’azzurro era teso e sgombro senza una vela e ci si contavano le increspature appena accennate delle onde. Solo un lievissimo risucchio, come un sospiro, correva per i sassi della riva.
Con gli occhi mezzo abbagliati, Cosimo e Viola ridiscesero nell’ombra verde-cupa del fogliame. – Di qua.
In un noce, sulla sella del tronco, c’era un incavo a conca, la ferita d’un antico lavoro d’ascia, e là era uno dei rifugi di Cosimo. C’era stesa una pelle di cinghiale, e intorno posati una fiasca, qualche arnese, una ciotola.
Viola si buttò sul cinghiale. – Ci hai portato altre donne?
Lui esitò. E Viola: - Se non ce ne hai portate sei un uomo da nulla.
- Sì … Qualcuna …
Si prese uno schiaffo in faccia a piena palma. – Così m’aspettavi?
Cosimo si passava la mano sulla guancia rossa e non sapeva cosa dire; ma lei già pareva tornata ben disposta: - E com’erano?
- Non come te, Viola, non come te …
- Cosa sai di come sono io, eh, cosa sai?
S’era fatta dolce, e Cosimo a questi passaggi repentini non finiva di stupirsi. Le venne vicino. Viola era d’oro e miele.
- Di’ …
- Di’ …Si conobbero. Lui conobbe lei e se stesso, perché in verità non s’era mai saputo. E lei conobbe lui e se stessa, perché pur essendosi saputa sempre, mai si era potuta riconoscere così.

(Calvino I., Il barone rampante, Torino, Einaudi 1957, cap. XXI)