lunedì 24 novembre 2003 legge Sergio Cofferati | |
Sergio Cofferati, invitato dalla Bottega dell’Elefante, sceglie di leggere dal massimo dei poeti italiani. Un’opera recente e poco conosciuta, Fiore nostro fiorisci ancora, dedicata al settimo centenario della costruzione della cattedrale di Firenze (1296 – 1996). La nota dell’editore Passigli usa per questa poesia di Luzi le stesse parole che si addicono alla cattedrale: “rivissuta, vivente architettura”.
La poesia è umile e alta, di eleganza concreta. Dapprima il dialogo di due operai: le loro frasi esprimono dubbi, fatica, ma anche orgoglio di costruttori: forse sono chiamati a un’opera più grande di loro, ma continuano a lavorare, sempre, perché solo questo sanno fare bene. Ser Filippo Brunelleschi rimane sullo sfondo, col suo progetto così ardito, che può funzionare solo con la collaborazione di tutti. La cattedrale, il grande progetto, alla fine prende lei stessa la parola. Qui la poesia si dispiega in versi. Parla a nome di tutti, in tutta modestia, ma con la sicurezza che le proviene dalla solidità sacra del grande lavoro collettivo.
Mario Luzi Fiore nostro fiorisci ancora (ed. Passigli, coll. poesia, 1996) Primo operaio L’Estate è piena, il meriggio leva il cervello. Non bastano neppure questi ponti e queste travature e rimuovere l’afa e l’oppressione. Sarà meglio dopo, quando la cupola sarà tutta voltata fino all’ovo e chiusa sopra di noi. Allora ci sarà anche fresco in ogni parte della basilica, si spera. Intanto di questa stagione siamo richiesti di accrescere il lavoro, di allungare la giornata. Quando gli altri per tutta Firenze sonnecchiano nella lunga siesta dei giorni di canicola, noi siamo più che mai all’opera. Le fiasche vanno e vengono tra le mani dei garzoni e dei maestri e presto sono asciutte. Le ore sono lunghe. Ser Filippo non conosce pausa, sparisce e ricompare di continuo. Gli frullano per il capo mille idee ma una, fissa, le sovrasta tutte: questa cupola. Se va avanti, se regge per geometria, se il calcolo era giusto. Sì, lui a suo dire n’è sempre stato certo, era spavaldo con gli altri uomini dell’arte; ma, guardarlo, è tranquillo fino a un certo punto. Domanda i capimastri, i tagliapietre, i legnaioli, se stimano possibile per la loro parte dargli conferma che l’impresa è giusta e ragionevole. E, lo sai bene anche tu,, chi è preso dalla sua mania e chi scuote la testa ma continua con parecchia incredulità il suo lavoro nel cantiere. Secondo operaio Tu con chi stai, io con chi mi metto? Non so proprio rispondere neppure per me stesso. Primo operaio No, non è facile... però io sono parte di questa fabbrica che cresce; e questo mi basta. Non soltanto mi basta ma anche mi convince. La città edifica lei stessa la sua chiesa, si alza verso il cielo e usa la nostra fatica e la nostra arte per farlo. Mi ha preso e trascinato nel febbrile formicaio della sua officina. Secondo operaio Tu parli come uno che si sente al centro di un’impresa che rimarrà nei secoli. E’ bello ascoltare parole come queste. Forse un soldato di Cesare o Alessandro era ugualmente inorgoglito. No, che dico? Qui c’è l’anima civica, la devozione comune di tutti i cittadini che pervade il tuo fervore di artefice e operaio... E io? Ci penso poco o nulla alla questione, mi faccio poche domande, la commessa di ogni giorno è la mia regola. Così tiriamo avanti noi artigiani nel nostro mestiere. Il disegno di Ser Filippo, a dirti il vero, mi pare alquanto cervellotico, che importa? Io devo solo fare onore alla perizia mia e della mia bottega. Primo operaio Va là che anche tu lo senti questo raro privilegio di operare dentro un’opera che viene da lontano e va molto lontano, più grande di noi e della nostra generazione. Secondo operaio E ha necessità in ogni caso del nostro piccolo impegno quotidiano. Io guardo a quello, non dico mi soverchi ma mi occupa tutto quanto il giorno. Primo operaio E anche ti soddisfa... Secondo operaio Sì e no. Come ciascuno, penso. Come te, son certo. Primo operaio Ma forse la fierezza di un’opera in cui credi, a cui anche collabori e con allegria contribuisci modifica le cose, fa apparire più lieve il tuo lavoro. Son convinto che anche tu sotto sotto condividi questo incantesimo di tutta una città che prodiga ricchezza e fede vera in questo monumento e mette a prova il talento dei suoi artisti... Brunelleschi è oggi il più discusso perché ardisce cose che mai furono tentate... Secondo operaio Sì, sì, ma intanto fa’ attenzione al verricello che ti solleva sulla testa l’asse appesa a quella fune. E’ abbastanza robusta quella corda? E’ un po’ logora, non mi rassicura. Ci pensano poco ai lavoranti e al loro benestare... Ser Filippo quando scende sulla terra è coscienzioso più dei suoi aiutanti, dobbiamo riconoscerlo... Ma eccolo laggiù, è rientrato dalla porta laterale, ha con sé due forestieri che sembrano dell’arte... è già scomparso dietro la turata ai piedi del tamburo. Dorme poco Ser Filippo. Non lascia i suoi pensieri neppure sotto il solleone che stordisce... Non so giudicare il suo progetto, se è un’idea nuova oppure una cantonata, ma lui mi piace, mi piace per davvero perché è come noi, studia e lavora in mezzo a noi. E certo suda come faccio io... Dov’è la nostra fiasca? Non è già tutta sgocciolata, spero... Primo operaio Ce n’è ancora di questo vinello, e c’è ancora la brocca con l’acqua del gran pozzo (gli porge il recipiente). Secondo operaio Per cui sono anche io del grande esercito insieme a Ser Filippo ed a voi tutti. Ci tiene uniti il gran daffare, l’onore dell’arte, il bisogno. Primo operaio E nient’altro? Secondo operaio Non so dirtelo. Forse la Vergine sostiene il nostro sforzo, come dice la mia figliola monaca e lo pensa fra tanti altri pensieri assai profani tutta la città. Primo operaio Bene, hai parlato saggio e giusto... Passa anche a me la fiasca. Fiore nostro fiorisci ancora FIORE DELLA FEDE E’ la mia voce ora che ascoltate, sono Santa Maria del Fiore. Mi volle la città fervente alta sopra di sé, sopra qualsiasi altra delle sue grandi basiliche e le sue umili parrocchie e Santa Reparata che custodisco in me. Grande mi concepirono i mercanti e il popolo minuto. Ebbero di me una visione grande Arnolfo, Giotto, ser Filippo, assistettero alla mia nascita, essi, propiziarono la mia crescita, un popolo di artefici si adoperò per me nei secoli, l’Opificio è ancora aperto; non sarò mai compiuta. Si tenevano fra le mie mura nascenti i dialoghi che avete ora ascoltato, non erano neanch’essi profani, mi alzavo sopra la città per opera della pietà comune e di spicciola pazienza. Chi sono gli operai, gli artefici e gli artisti che mi hanno messa al mondo ed al suo onore? Ne avete uditi alcuni, altri innumerevoli hanno parlato e taciuto, un popolo mi ha spinto con la sua fatica e la sua fede talora anche blasfema così in alto. Ma non voglio tacere l’abbandono nel quale fui spesso lasciata in talune delle mie lunghe epoche. Ricordo anche lo spregio in cui mi hanno tenuto mischiandomi a profani avvenimenti, talora criminali e anche l’insulto del rispetto esteriore delle parate. O mia città che ho sollevato al cielo e talora m’ha invece trascinato in basso! Uomini, persone: generazioni ne ho vedute molte succedersi o variare da quelle originarie e via via dalle seguenti. Nondimeno l’anima di Firenze di risveglia e si riconosce in me, riprende fierezza della mia presenza. Sono quelli i momenti più profondi. Eccomi, rimbombo del mio silenzio, tumultuano in esso le voci e le parole che vi furono levate, si affacciano, convengono qui i santi che hanno abitato queste mura o pregato a questi altari, e coloro che li hanno eretti o dedicati. Da qui ha inizio ancora una volta nei secoli l’anno giubilare. Si presenta il millennio alle mie porte a prendere sostanza di futuro e ad apportarne alla nostra incertezza e indecisione. Io chiesa madre di tutte le altre li guardo entrare e uscire dalle mie porte i figli dei figli di coloro che mi fecero visite e preghiere, padri di altri che saranno nei secoli, lo spero, i miei fedeli: vorrei che gli ultimi fossero dell’anima i più esperti, i più degni del cielo. O che officina è questa della anime. Lo fu per molti secoli. Che resti aperta e operosa per i prossimi. Chi si introduce nel mio ventra esce lavorato dal sapere cristiano e dalla preghiera di molte, molte generazioni: si ricoverano qui gli sperduti, si ritemprano in questa penombra. Ma anche si raccolgono i relitti, si raggiustano i rottami, si fabbricano ali per il volo in questa officina. Hanno qui trovato asilo e lavorato la parola che oggi vi offro i santi di Firenze. Ma quanto è necessario che sia sempre infuocato questo laboratorio delle anime e io giustificata dalla mia attiva opera! Vorrei, figli miei presenti nella città e nel tempo e voi figli defunti nelle epoche recenti e in quelle più remote formassimo tutti insieme un corpo unico che si offra all’avvenire il quale si approssima sotto specie misteriosa di millennio e già sta per entrarmi dalla porta. Viene con volto imperscrutabile ad avere il mio battesimo e insieme il mio forte viatico per il suo dubbio cammino. Viene anche a portare nuove angosce ed ansie, nuova preghiera, nuove beatitudini al mio antico magistero. E forse ne rinnova in me la ragione prima e l’anima. Vorrei essere pronta con la vostra forza, figli di oggi e di ogni epoca, figli miei di sempre, a questo umile ed astrale appuntamento. Vorrei essere forte di tutti i miei slanci e di tutti i miei peccati di tutte le mie miserevoli omissioni e delle mie tribolate penitenze per accogliere con fede e con speranza questo advena, questo sopravvenuto tempo. Viene forse duro ed impietoso a chiedere ragione del grande patrimonio che abbiamo dissipato, viene forse smarrito a mendicare un po’ di quella povera sostanza. Vorrei fossimo uniti tutti insieme, figli miei, per essere una roccia su cui possa posare il piede chi arriva e prende slancio per il volo. Perché questo ci è chiesto, figli miei, di crescere nel tempo: questo ci giustifica. Abbiamo noi, chiesa cristiana, nei secoli, negli sconvolgimenti custodito il Verbo, trasmesso Integro il Vangelo, ma non siamo qui soltanto per commemorare bensì per attuare. Attuare sempre più preziosamente il Verbo. Esso è fin dal principio ma nella storia e nella mente umana durante intere epoche si eclissa, si illumina in altre, di se stesso rifulge per grazia di una luce che ancora non conoscevamo. Sia il millennio un allarme temporale all’intemporalità che noi viviamo da poveri, umilmente, giorno per giorno, sia esso un incremento senza fine del Verbo e del suo senso. Figli miei, voglio essere il luogo per la crescita degli uomini, tutti, di ogni provenienza e origine. Ci sono tuttavia molti pericoli ed insidie disseminate da inintelligenza e da ottusa incomprensione. Voglio dal fondo della mia sapienza avvertire i nuovi figli: se ne guardino non interrompano il cammino che è nostro da secoli. Sono qui nel nome di Maria, fiore delle chiese di Firenze ferma nella sua storia e nel suo amore che ancora il disamore non disdice. Mi scopro talune volte nuda e deserta in mezzo alla città. Su me sono la luna o il sole: tutto l’altro del mondo non si vede, ma è in me, in me vive, in me cuoce. Ho rischiarato i tempi umani e le passioni loro. Oggi dalla loro oscurità vogliono gli uomini dirmi grazie, ed ecco mi incendiano con i loro fari. Così apparirò dunque più visibile ai sopraggiunti, più vista: sarò cercata, sarò protesa all’accoglienza io stessa. accogliente come devo. O vieni tempo, alcuni ti temono, non io perché di rischi e di pericoli è intessuta la mia vicenda temporale nell’eternità di Dio. Non è proprio dell’uomo vivere in unità l’eterno; e neppure della chiesa, se non forse in taluni dei suoi asceti. Leggere e ahimè vivere i tempi, non misconoscerli o negarli è ancora parte del ministero mio sopra la terra. Che questo sia fatto degnamente in reciproca profferta di magistero e perenne apprendistato. Vengano a me per imparare gli uomini, bengano per insegnare e accrescere la dottrina mia, vengano, venite. Per questo spalanchiamo la porta che fu sempre aperta. O secolo che vieni sii un secolo nostro nell’ordine della cristiana previsione di fede e di certezza. Per tutti i secoli dei secoli per omnia saecula saeculorum: ma siilo veramente, siilo frescamente con ogni umiltà di desiderio, di pena, di grazia e di speranza; e, prego, non crederti definitivo; l’omega sconosciuto e certo splenda nel suo mistero sopra di noi come sempre. O veni saeculum, veni millennium, jubila. Noi ti apriamo i cuori, ti apriamo le porte, veni. Quella che si dispone al rito festoso del ricominciamento, figli, è una chiesa penitenziale. Molti hanno operato in me e in nome mio, non onesta ma anzi perfida e maliziosa gente. In molti hanno abusato del mio limpido sigillo, e io chiesa materna mi affliggo di tutte le magagne. Perdono, chiediamo a mani giunte. In Fiore nostro fiorisci ancora Mario Luzi, prendendo spunto dal settimo centenario della fondazione della cattedrale di Santa Maria del Fiore di Firenze, immagina dapprima il dialogo fra due operai costruttori, chiamati ad un’impresa che sembra oltrepassare le loro forze, e quindi la voce della cattedrale stessa, che ripercorrendo la propria storia dà corpo ad una affascinante quanto originale “cantata sacra”. La forte vocazione teatrale della poesia, specie la più recente, di Mario Luzi, si rivela anche qui in tutta la sua pregnanza di significati e, insieme, nella corposa eleganza di un verso che si fa esso stesso, come la cattedrale immaginata e rivissuta, vivente architettura. (Nota editoriale dell’ed. Passigli) |
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